sábado, julio 26, 2008

Rinchiuso

Sto scrivendo un racconto lungo che s'intitola (o dovrebbe intitolarsi) Rinchiuso. Parla di un uomo, di un professore universitario di una quarantina d'anni, che rimane chiuso dentro la facoltà perchè perde tempo a chattare con una ragazza che ha la metà dei suoi anni e che, per quanto ne sa, potrebbe essere anche una delle sue alunne.
Non c'è nessuna base autobiografica, per un racconto simile. E perciò mi risulta difficile inventare, ovvero, trovare la forma giusta per dare credibilità e ritmo narrativo a una storia in cui, in pratica, non succede proprio niente. “Uno che si distrare al computer chattando non può avere alcuna attrattiva narrativa”, ho pensato quando ho immaginato questo tizio dentro l'Università deserta. E invece mi sbagliavo. Mi sono dovuto ricredere. E mi sono accorto che più vado avanti e più spunti si possono trovare per dare vivacità e spessore alla storia. Scrivendo le prime dieci pagine, mi sono accorto che Rinchiuso potrebbe diventare un romanzo, con le sue digressioni e i suoi capitoli brevi, alternati a quelli più lunghi e prolissi. Potrebbe. L'uso del condizionale non è puramente casuale. Perchè dico “potrebbe” e non “potrà” o “può”? Mi pongo domande a cui cerco risposte che già conosco (perchè fanno parte della mia interiorità più intima e che credo più nascosta, anche se non lo è). Io ho paura a scrivere un romanzo. Ho paura a inventare un'altra realtà. Non riesco proprio a staccarmi da questa realtà qui che vedo e tocco e annuso tutti i giorni, per penetrare e permanre in pianta stabile in quell'altra realtà “finta” o “della finzione” o “del possbile e probabile”. Ho paura che una volta fatta immersione nel mondo che (si) crea il romanzo possa poi perdere la direzione o la presa sul mondo “reale” in cui mi tocca vivere quotidianamente (volente o nolente). Sono distratto di natura; basta che mi concentri in Andrea Massimi (così si chiama il prof. protagonista del racconto) per dimenticarmi di fare la spesa o di accendere il forno all'ora giusta o di pagare le bollette già scadute... Il potere dell'immaginazione. Sì, ho paura che questo potere possa farmi allontanare da quello che sento e tocco dal vivo. Sono un segno di terra, non è un caso. Eppure... eppure so che se solo mi lasciassi andare, se continuassi a dare vita ad Andrea Massimi, se mi facessi completamente coinvolgere dal suo stato d'animo e dai suoi pensieri (o “flusso di coscienza”, per dirla con il linguaggio della critica letteraria), beh, penso che potrei scoprire cose di me (e di Andrea Massimi) che prima non sospettavo; penso che potrei scovare risvolti della realtà reale e della realtà fittizia che non conosco ancora; penso che potrei divertirmi molto, scaricando l'ansia e lo stress che mi produce la vita di tutti i giorni.
Andare avanti o smettere? Proseguire un racconto che sta diventando qualcosa di più di un racconto lungo o troncare tutto a metà e lasciare questo professore un po' sbadato e un po' imbranato nel limbo del suo studio (uno studio di un'Università che non esiste né mai esisterà in futuro se non nelle pagine che butterò giù)? Andrea Massimi. Mi fa pensare ai “massimi sistemi”. Oltre che ad un amico d'infanzia che, col tempo, si è rovinato, dedicandosi allo spaccio e al consumo di droghe pesanti. Chissà poi perchè proprio questo nome (e questo cognome)... chissà poi se riuscirà davvero ad accettare l'invito al buio che gli ha già proposto Alyssa, la ragazza con la quale ha chattato fino a perdere la cognizione del tempo (dello scorrere delle ore) e a restare chiuso dentro come un topo da laboratorio nella sua gabbia per gli esperimenti scientifici.
Ogni racconto che scrivo è in realtà un esperimento (che non ha nulla di scientifico, ovviamente): è un tentativo di sondare quell'altra realtà, cercando di non perdere mai di vista questa realtà “reale” di qua... il giorno in cui non avrò più paura di staccarmi da terra e di volare davvero con la fantasia di là diventerò un vero scrittore... E Andrea Massimi potrà affrontare Alyssa, conscio dei pericoli legati al caso (e se poi scoprirà che è una sua alunna, tanto peggio: Alyssa gli spiegherà quanto lui sospetta già da molto e ha perso tempo a spiegare a lezione durante il suo corso sul romanzo contemporaneo: e cioè che la realtà, a volte, supera la fantasia)...

miércoles, julio 16, 2008

Viaggiare, perdere paesi...

Viaggiare, perdere paesi, riconoscere nuove fisionomie, perdere per strada vecchi amici, lasciarsi alle spalle un passato pesante che continua a pesare, entrare in contatto con nuove stanze, nuovi rumori (other rooms, other souls), riperimetrare il proprio orizzonte di vita, le prospettive future... Traslocare, da una casa all'altra, anche se sempre all'interno della stessa città... Provare l'emozione di aprire la porta di un nuovo appartamento, frequentato da chissà quanti spiriti, quante anime morte (qui a fianco c'è una lapide, no, voglio dire: non è una lapide, è una epigrafe, una stele, non mi viene il nome, come si dice in italiano quella pietra che indica – scolpiti su marmo – il nome, le opere e la circostanza dell'artista famoso o dello scrittore Premio Nobel che abitò quella particolare casa? Comunque, dicevo: qui a fianco è vissuto Alphonse de Lamartine, e poco più in là, l'autore di The Scarlett Letter, Nathaniel Hawthorne, un francese e un americano, quanti stranieri a Firenze, anche Virginia Woolf ci venne a fare il Grand Tour e rimase colpita dall'Arno e dal Parco delle Cascine, ma prima ancora di lei Mary Shelley, l'inventrice di Frankenstein, scritto di getto - e se non ricordo male - per sfidare Bram Stoker - l'inventore di Dracula - sullo stesso campo (del fantastico-horror di fine Ottocento)... Quanti inquilini deve aver visto passare questo appartamento enorme, a due passi da Porta Romana e a due minuti da Palazzo Pitti, a due passi in linea d'aria dal Giardino di Boboli...

Alyssa dorme di là. E' un po' preoccupata. E' un'esperienza nuova anche per lei. Bisogna riaddattare il sistema nervoso; accordarsi per non sbagliare troppo; accelerare o rallentare per non cozzare contro i desideri dell'altro. Oggi mi ha fatto fumare in balcone. Un evento. L'ho abbracciata e stretta forte a me. Poi ha aggiunto: “Il posacenere te lo pulisci da solo. E guarda che ti puzzano le mani di nicotina”. E' intransigente con i fumatori. Io lo sono contro chi è troppo ordinato. Il pc è sul piano cottura; due calzini pendono da una sedia; un romanzo e due saggi giacciono in bagno.

Viaggiare, perdere paesi, conoscere nuovi confini, portarsi al di là della propria idea di spazio. Abitare nuovi spazi e assorbire una nuova atmosfera. Sentirsi diversi. Ed essere sempre gli stessi. Cercare a tentoni l'interruttore e non riuscere ad accendere la luce perchè gli oggetti, le cose, noi stessi siamo cambiati e abbiamo assunto una nuova posizione nel tempo e nello spazio. Lo spazio e il tempo. Dentro cui siamo. E dentro i quali ci muoviamo. O almeno, ci proviamo...

martes, julio 01, 2008

Il divo, di Paolo Sorrentino e Gomorra, di Matteo Garrone

Questi due film hanno molto in comune; entrambi girati da due "giovani" e talentuosi registi italiani; entrambi usciti nel 2008; entrambi in gara all'ultimo festival di Cannes; entrambi usciti - in parte - vincitori da quello stesso festival. I giornali ne hanno approfittato come al solito per tessere le lodi del cinema nostrano e qualcuno si è spinto oltre, fino a parlare di una sorta di "rinascita" (o addirittura "rinascimento") del cinema italiano (c'è anche chi ha parlato addirittura di "neo-neorealismo", con riferimento diretto a quel movimento cinematografico e letterario post-II Guerra Mondiale e post-Resistenza che ha fatto la Storia del Cinema Mondiale). Non credo che sia così. Nè che questi siano gli unici capolavori che ci abbia regalato l'Italia negli ultimi mesi. Certo è che entrambi dimostrano come si può fare del buon cinema a partire dalla realtà; ovvero, che si può girare un'opera di finzione - come lo è sempre un film - prendendo lo spunto da fatti di cronaca o da fatti storicamente accaduti. L'immaginazione può funzionare anche se chi la mette in moto prende l'avvio da un articolo di cronaca nera o da un saggio sulla malavita nostrana. Una volta che l'immaginazione è "al potere", spetta al regista incanalarla in immagini, in sequenze, in scene che abbiano non solo un senso compiuto, ma anche un senso estetico, che possa colpire cioè a sua volta l'immaginazione dello spettatore e il suo sguardo sul mondo. Entrambi i film ci riescono appieno: perchè entrambi ci prensentano (e costruiscono per noi spettatori) mondi possibili (o possibilmente già esistenti - o esistiti) in cui gli spazi, i luoghi, i personaggi, i temi (della Storia e delle storie nostrane) sono ricreati con originalità e fortissimo senso del ritmo visivo e di quello narrativo.

Il divo si apre con un Giulio Andreotti (maginificamente interpretato dal solito, bravissimo Toni Servillo) che tenta di adottare l'agopuntura come ultimo rimedio o rimedio estremo contro le forti emicranie che ne scandiscono la vita di tutti i giorni. E già questa immagine basta a rivelarci uno dei sensi profondi dell'intero film: chi è veramente costui? Chi è stato - per noi italiani, e per la storia dell'Italia intera - l'onorevole Giulio Andreotti? Un paladino della giustizia che per mantenere l'ordine si è forse sporcato le mani entrando a compromessi con i poteri occulti che (da sempre) operano contro lo Stato e la democrazia (come la mafia), oppure un corrotto uomo politico che, assetato di potere, non ha fatto altro che godere della sua posizione di "despota" per manovrare e manipolare gli altri (i più diretti collaboratori, gli amici, i nemici, gli oppositori e i fautori della sua politica democristiana)?

La prima inquadratura (con il primo piano di quel volto invecchiato, forse stanco, comunque inquietante, e riempito di aghi) non fa che sottolineare questa duplice natura del senatore a vita Andreotti. Uno lo guarda e non può fare a meno di domandarsi cosa nasconda dietro la facciata e la maschera che da tanti (troppi?) anni si porta dietro e mostra in pubblico anche quando viene accusato di associazione mafiosa o legami con la P2.

In questo film Sorrentino riassume anche per i giovani nati durante (o dopo) gli anni 90 quello che è stato il potere politico della destra in Italia a partire dagli anni 50 fino a oggi. In tal senso, Il divo assolve a un duplice compito: quello di intrattenere coinvolgendo con le immagini (e la musica - la colonna sonora è ossimoricamente utilizzata per fare da contraltare ironico-sarcastico ad alcune scene di omicidi o stragi particolarmente crude) e, al contempo, di raccontare il passato storico recente (quel passato da cui deriviamo e che, in parte, ci spiega perchè, dopo Prodi e i fallimenti del governo di centro-sinistra, è tornato al potere, incontrastato e beato, Berlusquoni e co.). A tale scopo, il regista non si risparmia nell'uso delle didascalie, che servono per dire anche allo spettatore giovane o "non informato sui fatti" chi erano Cirino Pomicino, La Malfa, Cossiga, Totò Riina, Buscetta e compagnia bella. Ma non solo: Sorrentino ci narra i misteri d'Italia (le tanti stragi impunite, la morte di Aldo Moro, i tanti processi ancora in corso sulla mafia) legandoli al mistero dell'identità andreottiana divertendosi e divertendoci. Il film è "contrappuntato" da scenette umoristiche, o esplicitamente surreali e grottesche, che spingono alla risata. In tal senso possiamo davvero applaudire Carlo Buccirosso, interprete di Paolo Cirino Pomicino, epitome dell'italiano medio arraffone, sbruffone, ignorante e intrigante, che usa la politica per farsi i suoi porci comodi. E' in questo l'incanto e il fascino discreto del film: raccontare due misteri (d'una nazione e d'un uomo politico) facendoci sorridere o, addirittura, ridere.


Diverso è il discorso per Gomorra: Matteo Garrone parte dal best-seller di Saviano (che non ho letto, e che mi riprometto di non leggere a breve scandenza, e almeno non prima che siano trascorsi un paio d'anni - odio leggere i best-seller del "momento" e a la page) per raccontare senza eccessi visivi e grotteschi, senza le scene a volte surreali e oniriche di Sorrentino, una realtà ben delimitata e circoscritta. Napoli e i suoi quartieri più famosi per la presenza attiva della camorra e della malavita organizzata in generale. In tal senso, per Garrone si può parlare di "iperrealismo". Il regista non ci risparmia niente: ci porge fette di vita quotidiana delle borgate napoletane dello spaccio d'armi e di droga, ci fa vedere pezzi di guerra civile "ordinaria" di Scampia e dintorni, mantenendo un attaccamento quasi feticista verso la cruda realtà. Non è un caso se il film è interamente girato in dialetto napoletano "doc". Un dialetto talmente stretto che anche alcuni miei amici di Napoli hanno fatto fatica a seguire il film senza l'ausilio delle didascalie.


Lo spettatore osserva dal buco della serratura di una telecamera che si spinge decisamente "oltre" le barriere della legalità e ci illustra i corpi di cinesi che cuciono vestiti che poi finiranno nelle sfilate dell'alta moda italica; i corpi di ragazzini che la camorra addestra a non avere paura dei proiettili di fucile; i corpi e le mani di usurai che racimolano soldi per la camorra e di camorristi che spacciano cocaina come fosse pane tra i poveri.


Una prima reazione "civica" è l'indignazione; la seconda, più razionale, si può tradurre a parole con questa frase (spesso riportata dai giornalisti che hanno scritto del film e del suo successo a Cannes): "Ma Napoli non è solo Scampia; Napoli è fatta anche di brave persone, che lavorano e che rispettano le leggi". E' vero, Napoli non è solo criminalità e disordine; non è solo immondizia e rifiuti riciclati in terreni gestiti dalla camorra. Ma è anche questo e ignorarlo non sarebbe un atteggiamento corretto, nè costruttivo (per nessuno, napoletano e non).


Ciò che unisce Gomorra a Il divo, quindi, non è solo la fonte primaria dell'ispirazione (la Storia nostrana), ma anche e soprattutto la volontà di "scrivere la realtà" per immagini utilizzando un linguaggio nuovo, orginale e personale.


Io adotto questo metro per misurare la bellezza di un film: se dopo averlo visto, e quando le luci in sala si riaccendono, non riesco a ri-posizionare il mio corpo nello spazio; ovvero, faccio fatica a ri-guardare la realtà esterna e oggettiva con occhio razionale e freddo, per cui avverto all'inizio come una sorta di senso di vertigine e spaesamento, beh, allora vuol dire che il film è davvero bello ed è girato con linguaggio cinematografico d'altissima qualità.


Non è un fenomeno frequente. Mi è successo con Pulp Fiction; prima ancora, anni fa, con Apocalypse Now e La finestra sul cortile. Più di recente con Eyes Wide Shut. Sono ben contento, quindi, che mi sia ricapitato con questi due film italiani. Che meritano tutta la nostra attenzione e che faranno parlare di sè anche in futuro...


"Il tornado di valle Scuropasso", di Tiziano Sclavi






Chi conosce Dyland Dog e ha già letto qualche altro romanzo di Tiziano (Sclavi) non farà fatica a riconoscere lo stile tutto "peculiare" di questo autore fin troppo noto per la succitata creatura a fumetti e fin troppo ignorato per l'ormai ventennale carriera di romanziere. Dentro Il tornado di valle Scuropasso (Milano, Mondadori, 2006), sua ultima fatica (e speriamo non sia l'ultima, come aveva affermato laconicamente nel 1998, dopo il flop del geniale Non è successo niente), il lettore ritrova molte delle atmosfere oniriche e surreali che si possono apprezzare nei tanti albi a fumetti dell' "investigatore dell'incubo": un uomo apparentemente tranquillo vive isolato in una casa di campagna immersa nel bosco a pochi chilometri da Buffalora, un paesino di provincia già scenario dell'indimenticabile Dellamorte Dellamore. A un certo punto, però, scopriamo che l'io narrante non è poi così tranquillo: assume farmaci antidepressivi; soffre per le ferite ancora aperte dell'alcolismo; ha manie suicide e autolesioniste; e tanto per complicare un po' le cose, a un certo punto comincia a percepire la presenza di strani ominidi che assomigliano agli extraterrestri cui Spielberg ci ha abituato dai tempi di Incontri ravvicinati del terzo tipo.

Una delle scene più riuscite del romanzo (perchè quando si parla di romanzo si può parlare di "scene", adottando il gergo tipico del cinema; ma quando si parla di un romanzo "sclaviano" l'uso del gergo cinematografico è d'obbligo, perchè Sclavi è uno dei pochi scrittori contemporanei che cerca di fare cinema con le parole, la disposizione tipografica delle stesse, l'uso delle onomatopee, delle virgole e dei punti, dei punti di sospensione, e di un largo eccetera...) è quella in cui il protagonista scende in cantina e si avvicina a una cisterna contenente acqua stagnante. E' qui che il lettore comincia letteralmente a tremare: un corpo in miniatura, forse un feto di alieno, emerge lentamente dalle acque, spingendo l'uomo all'urlo disperato.

Ma Sclavi non fa solo paura: fa anche tenerezza. Nel bel mezzo degli incubi che il narratore ci racconta con uno stile scabro, ripetitivo, ossessivo, anche per l'attenzione maniacale con cui tenta di riprodurre a parole suoni e rumori che sembrano provenire da un altro mondo, l'autore riesce a infilare anche qualche canzone delle sue (Tiziano Sclavi ha scritto molte canzoni, oltre a una serie indefinita di poesie): come quella intitolata Occhi (pp. 68-69), vero e proprio esercizio di mise en abyme sull'atto stesso del guardare (l'occhio rotondo di un pesce diventa lo specchio in cui si riflette - e si perde vertiginosamente - l'occhio sbarrato di un uomo); così come non mancano dialoghi al fulmicotone in perfetto stile "grouchesco" (Groucho Marx è la spalla di Dylan Dog, è il personaggio secondario le cui battute servono a "smorzare" l'effetto violento o fin troppo realistico di certe scene particolarmente drammatiche - e una volta Sclavi confessò che perdeva molto più tempo nel cercare una battuta alla Groucho che nello scrivere la trama di un intero albo). Un esempio eloquente all'inizio del romanzo:

"Avevo conosciuto una brasiliana.


"Milano mi piace tanto" mi aveva detto, "è così piccola!"


Su un pianeta delle Plediadi esiste una città in confronto a cui Rio è un villaggio".

E' un esempio calzante dell'altro tema caro a Sclavi: il relativismo assoluto che confonde le acque, che ci impedisce di distinguere confini tra reale e finzione, di capire ora in che punto ci troviamo, di individuare in quale universo parallelo stiamo vivendo la nostra vita, mentre l'Altro, di là, si diverte a fare l'opposto (ma quanti Altri ci sono nei vari universi paralleli?

Il finale spiega l'enigma in un paio di pagine: e come al solito, come accade sempre con Sclavi, quelle due pagine ci obbligano a rileggere il tutto da un nuovo punto di vista. Tutto si tiene; tutto torna. Anche il caos e la paura che creano strani oggetti volanti nei dintorni della casa nel bosco posta nelle vicinanze di un paese che si chiama Buffalora (che letto in un certo ordine potrebbe suonare anche come "buffa l'ora"; l'ora buffa dei sogni e degli incubi che ci fanno più paura, anche quando non c'era nulla di cui temere).

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...