Tutto Poe
In
una vecchia intervista (e in molte altre, rilasciate nel corso degli anni),
Tiziano Sclavi, l’inventore di Dylan Dog,
afferma di aver letto tutto Poe all’età di 6 anni. Leggendo i suoi romanzi e i
primi albi della serie del famoso personaggio a fumetti, possiamo credergli.
In
questi giorni assurdi, di incubi ad occhi aperti ed insonnia ed incubi ad occhi
chiusi, non so bene nemmeno perché, mi sono rimesso a leggere tutto Poe (cosa
che avevo già fatto a 14 anni, quando ancora non conoscevo Sclavi). E mi sono
accorto del fatto che Edgar Allan ha già inventato tutto, per ciò che concerne
il genere thriller, horror e surreale.
Una
cosa che colpisce è lo spazio. Edgar Allan Poe è bravissimo a contagiarci
(verbo oggi fin troppo abusato e temuto) l’ansia e l’angoscia esistenziale che
esperimentano i suoi personaggi a partire dai luoghi che ricrea o che
costruisce con la penna e l’immaginazione; Poe è un bravissimo architetto che
ri-crea gli spazi reali o verosimili in cui l’ansia e l’angoscia esistenziale
che colpiscono i suoi personaggi esplode fino a coinvolgere anche il lettore
empirico.
Diciamo
pure che è lo spazio a dare la sensazione di una determinata fobia o un
determinato modo di patire la paura e il terrore (senza essere dei teorici
della letteratura: potrebbe essere plausibile ricostruire le varie fobie che
Poe illustra e narrativizza proprio a partire dagli spazi che cita e ri-crea
nel suo universo di finzione).
In
William Wilson (bellissimo trattato
sul tema del “doppio”) è la scuola-orfanotrofio in cui il protagonista incontra
il suo sosia a dettare il senso di claustrofobia e di alienazione che lo stesso
associa al suo compagno di classe (nato perfino lo stesso giorno! Cioè, i due
non si somigliano solo per l’aspetto fisico, ma anche per circostanze legate
alla propria biografia). L’ambiente in cui i due si conoscono è descritto come
una sorta di carcere di massima sicurezza. E non basta trasferirsi in un’altra
città (Oxford, Cambridge, etc.) per cambiare set esistenziale dell’azione: anche
in questi casi, il narratore ci parla di stanze buie e fredde, spazi
claustrofobici nei quali il suo forte appetito per il piacere (sessuale,
gastronomico, alcolico, etc.) sembra non avere fine né pace. Quanto più si
trova costretto a vivere “al chiuso” tanto più aumenta questo senso disinibito
del peccato a tutti i costi (fino a quando William Wilson non farà la sua
apparizione finale catartica).
In
La caduta della casa Usher lo spazio
è il vero protagonista della storia, come ricorderanno gli amanti dello
scrittore americano. Tanto è vero che il nobile che vi abita (amico d’infanzia
del narratore) riconosce di essere caduto in depressione (o in una sorta di
stato d’apatia totale) per colpa delle pietre, delle stanze, degli specchi e
dei tendaggi dell’enorme mansione in cui vive insieme alla sorella (anche lei
malata, ma di tubercolosi, a quanto pare). Qui lo spazio determina tutto il
ritmo della narrazione, fino al terremoto finale, quando la stessa casa degli
Usher sembra sprofondare nel lago in cui, all’inizio del racconto, si
specchiava in modo tetro.
Ne
L’uomo della folla – forse uno dei
racconti più belli e affascinanti di Poe, oltre che uno dei più enigmatici – è
la strada, o meglio, le strade di Londra a diventare personaggio fondamentale.
La narrazione è affidata in prima persona singolare a un uomo di mezza età che
passa il tempo a spiare gli altri passanti dalla finestra della sua locanda
favorita. Convalescente da una febbre che lo ha tenuto a letto per molto tempo,
una volta che decide di poter uscire di casa, s’intrattiene proprio nella
contemplazione dei volti e dei gesti, dei vestiti e delle espressioni degli anonimi
passanti. Fino a quando non s’imbatte nel volto di un anziano (sui 65 anni) che
cattura subito la sua attenzione e lo spinge ad inseguirlo senza farsi notare.
L’uomo spia il vecchio nel suo girovagare apparentemente senza senso per il
centro della città, fino ad arrivare (di notte) nella zona più periferica e
malfamata, quella in cui vivono i poveri e gli alcolizzati. Non sapremo mai chi
sia questo anziano, né perché ossessiona così tanto il narratore. Le strade
diventano labirinti nei quali ognuno di noi può perdere la percezione della
propria identità.
Ne
Il pozzo e il pendolo la vittima
della Santa Inquisizione è in attesa di subire una morte atroce. Senza capire
bene dove si trova, per colpa dell’oscurità tremenda che lo avvolge, questo
povero cristo scoprirà di essere prigioniero all’interno di una sorta di cella
dal cui soffitto pende una lama gigantesca che si muove come fosse un pendolo
che segnala lentamente, ma inerosabilmente, l’ora della morte. Qui lo spazio è
davvero claustrofobico: leggiamo e sentiamo che ci manca l’aria e che, al posto
del protagonista, preferiremmo morire d’infarto piuttosto che attendere la fine
del viaggio della lama che pende sul nostro collo e sulla nostra testa come una
spada di Damocle.
Ancora
non ho riletto Il gatto nero, né Il barile di Amontillado, né La verità sul caso del signor Valdemar, né
Il cuore rivelatore, né Una discesa nel Maelstrom, ma è evidente
che in tutti questi racconti meravigliosi lo spazio è uno dei motori centrali
che fa partire e accelelare la pulsazione del cuore dei lettori. E chissà
perché Baudelaire sentì tanta passione per l’opera di Poe. E chissà se Poe
avrebbe scritto ciò che ha scritto se non fosse stato schiavo dell’alcol e di
quello stato d’animo distaccato e plumbeo che potremmo definire come lo
“spleen” baudelairiano.