martes, abril 28, 2009


Dopo Babele, di George Steiner (Milano, Garzanti, 1996), ovvero della “futurabilità” come la condizione sine qua non per un’esistenza sana (non solo linguistica) su questa Terra

 

Perché parliamo? Perché sulla Terra esistono così tante lingue diverse, tali da rendere ogni atto traduttivo una sfida? Come facciamo ad assimilare le regole della grammatica di una lingua quando nasciamo in una famiglia bilingue? Come si salta dalla grammatica dell’una a quella dell’altra? Perché mentiamo? Queste sono solo alcune delle domande che si pone il grande George Steiner nel saggio “cult” After Babel (saggio imprescindibile per chiunque voglia addentrarsi nei meandri e negli enigmi che circondano il fenomeno della traduzione – un’impresa quasi impossibile, eppure quotidiana, senza la quale non potremmo capirci nemmeno tra parlanti della stessa lingua; sì, perché - e questo è un primo asserto teorico da cui parte la riflessione di Steiner - noi traduciamo, in continuazione, i messaggi che ci provengono dall’esterno. Anche guardare un film o contemplare un quadro, o seguire un programma alla tv, implica una sorta di traduzione verbale e non di quanto sentiamo/vediamo/ascoltiamo).

Ebbene, una delle risposte più affascinanti che offre l’autore alle questioni scottanti succitate consiste nel difendere la tesi che “Il linguaggio è lo strumento principale del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo com’è”. In pratica, l’uomo ha usato il linguaggio non solo per comunicare qualcosa di vero (il “mondo così com’è”), ma anche per inventare una realtà diversa da quella oggettiva che gli si presentava (ogni volta) sotto gli occhi. In tal senso, risultano particolarmente chiarificatrici (oltre che brillanti) le pagine che si soffermano sulla cosiddetta “alternità” del linguaggio (pp. 256-286). La lingua serve a mentire, oltre che a comunicare. Ci offre la possibilità di inventare una realtà “alterna” o “altra” da quella che vediamo e sperimentiamo. La lingua ci consente di dire “ciò che non è”. O di sperare “ciò che ancora non è presente” in un piano futuribile (o di “futurità” o “futurabilità”, secondo la terminologia di Steiner). E’ forse qui il nodo della questione: sin dal cristianesimo e dall’ebraismo, si è data un’accezione negativa alla “falsità” e alla “menzogna”. Cosa che non accadeva ai tempi di Omero (Ulisse è elogiato perché “il più furbo” tra i menzogneri) e che, quindi, sembra non tangere la cultura e la filosofia greca. E se il mito della Torre di Babele potesse essere letto al contrario? Se non fosse una storia apocalittica, ma, al contrario, dimostrasse un exemplum positivo? Questa è l’ipotesi di Steiner: ci sono tante lingue, perché il linguaggio è creativo. L’uomo si distingue dagli altri mammiferi perché può usare il linguaggio, ricreare il mondo con le parole, contrapporre alla realtà obiettiva una realtà ipotetica (quella che costruisco grazie agli ottativi, ai tempi condizionali, alle ipotetiche e ai tempi del futuro). Sono nate tante lingue, perché ogni parlante (primitivo) deve aver visto la lingua come rifugio contro gli altri: ogni clan si è inventato un linguaggio diverso per non farsi “scoprire” dal prossimo. Per non condividere con gli altri (estranei) una verità “personale”. Steiner avalla l’ipotesi citando alcune auctoritates antiche e moderne:

 

“Secondo Ernst Bloch, l’essenza dell’uomo sta nel suo “sognare in avanti”, nella sua capacità impellente di analizzare “ciò che è adesso” come “ciò che non è ancora”. La consapevolezza umana riconosce nella realtà esistente un margine costante di incompletezza, di potenzialità sospesa, che sfida la piena realizzazione. La coscienza che l’uomo ha di un ‘divenire’, la sua capacità di immaginare una storia del futuro, lo distingue da tutte le altre specie viventi. Questo istinto utopico è la molla principale della sua politica. La grande arte contiene i lineamenti di un’esistenza non realizzata. E’, secondo la formula di Marleaux, un ‘anti-destino’. Facciamo delle ipotesi e proiettiamo pensiero e fantasia nel ‘regno del se’, nelle libere ipotesi circa l’ignoto. Tale proiezione […] è il nervo principale dell’agire umano. Le proposizioni controfattuali e condizionali, sostiene Bloch, costituiscono una grammatica di rinnovamento costante. Ci costringono a ricominciare da capo al mattino, a lasciarci alle spalle la storia fallita. Altrimenti il nostro atteggiamento sarebbe statico e soffocheremmo in sogni delusi”.

Il linguaggio come “regno del sé”. Mi vengono in mente certi romanzi dello spagnolo Javier Marías (autore assai interessante, soprattutto per ciò che concerne l’uso dei tempi verbali del sé, quali, appunto, i vari tipi di futuro, i congiuntivi, i condizionali e compagnia bella). I tempi verbali del regno del sé come gli unici strumenti che abbiamo a disposizione per ri-creare o creare ex-novo una realtà che non capiamo, che non riusciamo (sempre) a comprendere, che speriamo sopraggiunga o che speriamo sparisca il prima possibile. Il linguaggio ipotetico come mezzo per lasciarsi alle spalle una storia fallita (o finita male). Mi tornano in mente le immagini del terremoto dell’Aquila e quanto andavo scrivendo nel post di qualche settimana fa (intorno alla ginnastica mentale dell’immaginarsi come saremo tra cento, mille, milioni di anni…). Poi leggo la nota n. 171 (p. 273), dove Steiner riporta uno stralcio da un articolo di Karl Popper in cui il filosofo tedesco riflette sulla nascita stessa del linguaggio umano. Cito verbatim:

 

[…] ritengo che il momento in cui il linguaggio divenne umano sia collegato assai strettamente al momento in cui un uomo inventò una storia, un mito per scusare un errore da lui compiuto, forse dando un segnale di pericolo quando non ce n’era motivo; e ritengo che l’evoluzione di un linguaggio specificamente umano, con i suoi caratteristici mezzi di esprimere la negazione – cioè dire che qualcosa che è stato segnalato non è vero – derivi in misura assai larga dalla scoperta di mezzi sistematici per negare una falsa notizia, ad esempio un falso allarme, e dalla scoperta strettamente collegata di storie false – menzogne – usate o come scuse o come scherzi.

 

Chissà come si sarà sentito, dopo quella prima menzogna, quel primo inventore di storie, quel nostro lontanissimo parente… E come avranno reagito i suoi primi ascoltatori, i primi spettatori gabbati da un messaggio falso (o falsato ad hoc), i primi potenziali lettori della prima storia mai raccontata sulla Terra, se avranno reagito male, magari prendendo a calci l’autore del messaggio depistante, o se, al contrario, dopo aver capito il gioco, si saranno fatti un sacco di risate, consci del pericolo scampato, del mammut schivato, del dinosauro evitato per un pelo, del rinvio dell’ennesimo e probabile incontro con la Morte…

martes, abril 21, 2009

Calmo caos

Giornata strana, quella di oggi. Mi sono ritrovato a fare lezione davanti a due alunne. Non era mai capitato, prima. Io ero imbarazzato; loro non davano l’impressione di essere sorprese. Forse è già successo altre volte. Forse a loro è già capitato di fare lezione con un docente in due. Per me non è proprio un buon segno. Tutto questo vuol dire solo due cose: a) che ho perso la voglia di fare lezione; b) che gli studenti lo intuiscono quando il prof. non ha voglia e se non ha voglia lui figuriamoci loro! Che tristezza!

Poi passo davanti a un ristorante. E’ sera fonda e i lampioni sono accesi; dall’interno del ristorante si sentono persone che cantano “happy birthday to you, happy birthday to you!” e mi domando se sono inglesi o italiani quelli che fanno gli auguri in inglese.

Nel treno ho letto un articolo di un collega dell’Università Ca’ Foscari di Venezia che parlava di un romanziere contemporaneo le cui opere erano intrise di nichilismo. Non ci ho capito molto, ma c’erano troppi riferimenti a Nietzsche, ad Heidegger e a Gadamer. Devo proprio dirla tutta? L’articolo non mi è piaciuto, era “esatto”, ma l’ “esattezza”, alle volte, è sgradevole, sembrava un compitino svolto su comando e ben fatto. Non c’erano sbavature. Ma a volte mi piacciono le sbavature, le cose che non tornano, i buchi o i vuoti che si aprono all’improvviso durante la lettura e tocca a te, lettore, riempirli…

Mi viene in mente una scena da Caos calmo di Sandro Veronesi. E’ quella in cui Pietro Paladini viene invitato a pranzo da un signore che vive nei pressi della panchina in cui lui, Pietro, novello vedovo, passa le giornate in apprensione per la figlia decenne. Ricordo vagamente la descrizione della casa dell’anziano. Sta traslocando. Ci viene detto che è di Roma, e che presto lascerà Milano. Capiamo che l’anziano signore ha perso la moglie e che, dopo quel lutto, si è sentito troppo solo per stare fermo. Passava le giornate a spazzare  la casa. Ma non ricordo se è davvero quello il motivo del trasloco. Ricordo solo che gli spaghetti al sugo al basilico che prepara per Pietro sono buonissimi.

Poi mi chiama mio fratello: a Roma è nuvoloso, è appena rientrato dopo una giornata di merda e voleva sentire che combinavo. Evito di parlargli della mia disavventura universitaria e gli dico che non vedo l’ora di tornare nella capitale. Voglio informarmi sul prezzo dei biglietti dello spettacolo di Fiorello a Piazzale Clodio.

 “Accendi la tv, metti su Rai2”.

Lo faccio subito; puntata speciale di “La storia siamo noi” di Minoli su Fiorello.

“Ci sentiamo in settimana, fratè”.

Riaggancio e mi godo le battute di Fiorello. Per un po’ la depressione svanisce.

Poi vado in studio e mi prendo la copia di Caos calmo per scoprire com’è che finisce la storia del vedovo che invita Pietro Paladini a mangiare due spaghi.

Niente, l’episodio occupa le pp. 238-248. Ma il narratore non ci dice perché l’anziano lascia Milano per Roma (dopo 36 anni passati là con la moglie). Forse non ce la fa più a sopportare la solitudine. Forse, senza la moglie, quella casa non è più accogliente.

“Si mette a riempire i piatti: prima il mio, una porzione enorme, poi il suo, una porzione enorme. So di cosa si tratta: è il culto tutto romano dell’abbondanza, la quantità che diventa qualità. A Milano non la praticano, pensano che sia volgare”.

jueves, abril 16, 2009

Convivenze

“Nada que al final creo que llego un poquito tarde para decirte que no lo hagas, que cuando decides compartir tu vida con otra persona no sabes que lo que decides en realidad es perder lo poco que te convertía en ti mismo para pasar a ser una persona totalmente sujeta a los deseos y sentimientos del otro y a estar en guerra continua intentando mantener vivo eso que eras y que ahora se contrapone constantemente con lo que quiere el otro que seas”.

Cito verbatim questa frase da un’email che mi ha inviato tempo fa (dopo più di un anno di ritardo) Veronica, una della mie migliori amiche madrilene (anche se lei non è spagnola, bensì argentina doc). Potremmo tradurla così (más o menos):

“Beh, alla fine, credo di essere arrivata un po’ in ritardo per dirti di non farlo, che quando decidi di condividere la tua vita con un’altra persona non sai che in realtà ciò che decidi è di perdere quel poco che ti rendeva te stesso per passare a essere una persona totalmente soggetta ai desideri e ai sentimenti dell’altro e a essere continuamente sul piede di guerra per provare a mantenere vivo quello che eri e che adesso si contrappone costantemente a ciò che l’altro vuole che tu sia”.

Veronica, con le sue parole, mi fa pensare. Fino a che punto sono disposto a combattere (quotidianamente) questa guerra (per certi versi assurda, come le guerre in generale)? E’ poi vero che quando si convive (si condivide con un’altra persona la propria esistenza) smettiamo di essere quello che siamo veramente per cominciare a essere quello che l’altro vuole che noi siamo? Mi fermo a rifletterci su ancora un po’ (intanto apro la finestra; qua dentro fa caldo, è tornata la primavera, ma sembra già estate; certi giorni a Firenze l’asfalto scotta). E se anche noi, scettici della convivenza, stessimo obbligando costantemente l’altro ad adeguarsi ai nostri ritmi, al nostro scetticismo, alle nostre ansie, paure, depressioni anti-convivenza? Quante domande. E com’è difficile rispondere. Penso che sia vitale mantenere i propri spazi (sennò buonanotte ai suonatori e addio forever). E che sia doveroso cercare un equilibrio (seppure precario, ma cercarlo). Come? Innanzitutto, devo avere rispetto dell’altro (non posso mica imporre le mie manie o prevaricare, pena la prevaricazione dell’altro su di me – o l’annientamento dell’ “io” dell’altro). E poi? Chi mi dice che l’altro resterà sempre “sé stesso”? Non cambiamo per caso a ogni scorrere di minuto? (mi torna in mente Montaigne, quando dice, negli Essais, che “Il mio io di adesso e il mio io di fra poco siamo certo due”). E come cambiare accordandoci al cambiamento costante dell’altro (senza nuocere alla sua identità - o ipseità – come direbbe Paul Ricoeur)?

Convivere vuol dire anche questo: condividere gli stessi spazi e, spesso, gli stessi tempi, essendo costantemente “io” e “altro da me” (due che convivono sono come due altalene che si muovono a volte fuori sincrono e a volte in sintonia perfetta)…

Mi accendo una sigaretta e provo a tradurre quest’ultima frase per Veronica (che, ne sono certo, mi risponderà nel 2010 – lei non è molto amante della tecnologia).

Poi provo a immaginarmi questi spazi miei e questi tempi del mio presente senza Alyssa…

E’ un esercizio “spirituale” che fa bene alla salute.

Poi mi viene in mente di fare un esercizio simile: immaginiamo come saremo noi tutti (l’umanità intera) fra mille anni… e come siamo stati mille, diecimila, centomila anni fa…

Propositi per il tempo a venire (o avvenire): ricordarsi di praticare questa ginnastica mentale ogni volta che si è in crisi o alquanto depressi… Fa bene anche alla convivenza…forse.

P.S.: Il post di cui sopra l’avevo scritto prima del 6 Aprile, ovvero: prima di venire a sapere del terremoto de L’Aquila. Al di là della rabbia che mi produce guardare la tv-sciacalla che parla con i toni del melodramma di quel che resta e di coloro che sono scampati alla morte e al di là dell’incomparabilità di quanto nel post succitato andavo dicendo con quanto effettivamente accaduto dalle mie parti, continua a sembrarmi valido il ragionamento intorno al sollievo che l’elasticità mentale ci può offrire attraverso l’immaginazione (di quello che siamo stati tanti anni fa e, al contrario, di quello che potremo essere fra molto, molto tempo). E mi pare anche che gli abruzzesi coinvolti dal terremoto lo stiano dimostrando al massimo grado. Non vogliono rifare la loro città in un altro posto; e non accettano gli aiuti tutti insieme e indistintamente. Oggi c’è bisogno di mutande. Domani di sapone. Dopodomani, quando ci saranno i soldi a sufficienza, decideranno loro dove e come ricostruire l’Aquila. In base a ciò che è stato; sognando ciò che potrà essere.

viernes, abril 10, 2009

Un solo rudere, di Pier Paolo Pasolini (da Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964)

"Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma,
sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più"

domingo, abril 05, 2009


Un’epica dei nostri giorni: Los detectives salvajes di Roberto Bolaño (Barcelona, Anagrama, 1998)


Partiamo dall’epigrafe (che traduco, malamente, dall’originale spagnolo): “- Vuole la salvezza del Messico? Vuole che Cristo sia il nostro Re? – No”. Questo secco e (fuori contesto) misterioso scambio di botta e risposta viene da un’opera di Malcom Lowry. La pigrizia mentale di questi primi giorni primaverili mi ha impedito di andarmi a spulciare la citazione nelle opere principali dell’autore di Under the Volcano; possiamo anche ipotizzare che la citazione provenga proprio dal capolavoro (disperato) di Malcom Lowry (di Sotto il vulcano esiste anche una trasposizione cinematografica – che non ho ancora visto; la regia è di John Huston; ebbene, se Huston fa con il romanzo di Lowry ciò che è riuscito a fare sia con il racconto “The dead” dai Dubliners di James Joyce che con Moby Dick di Melville, allora possiamo sperare bene – e stare tranquilli). Comunque: qui si parla di Messico e di Cristo e di salvezza. E quando il lettore arriva alla pagina conclusiva (dopo una serie numerosissima di ricordi di diverse voci narranti e di racconti intercalati e tra loro variamente intrecciati nell’arco delle 600 pagine del romanzo) capisce subito che quell’epigrafe contiene in nuce parte del contenuto de Los detectives salvajes: il libro, di fatto, parla di Messico e di messicani; di salvezza e del suo opposto, la perdizione; di persone che vanno in cerca di altre persone, ma, soprattutto, di se stesse. Manca Cristo, ma forse il suo spirito “martoriato” e poi “resuscitato” aleggia su molti dei protagonisti del romanzo. Soprattutto intorno ai due protagonisti: Arturo Belano e Ulises Lima.


Chi sono costoro? Una prima risposta (semplice) potrebbe essere questa: Belano e Lima sono amici, due giovani poeti che credono nella rivoluzione e nella capacità della poesia e della letteratura di poter cambiare il mondo; una seconda risposta (più complessa) potrebbe essere quest’altra: sono i fondatori di un movimento letterario che disprezza i “poeti classici messicani” in generale, che odia Octavio Paz in particolare, e che promuove una poesia definita da loro stessi “real visceralista”; una terza (ultima?) risposta (decisamente complessa) potrebbe essere quest’altra ancora: sono due morti viventi che vanno alla ricerca di Cesárea Tinajero, un’altra poetessa messicana, un’altra “morta in vita”, le cui tracce si perdono nella geografia più disastrata ed emarginata del Messico degli anni 50 e la cui unica opera pubblicata (su una rivista che non ha avuto grande fortuna editoriale) sembra essere un disegnino dai significati enigmatici e bizzarri.


Il libro è diviso in 3 parti: la prima (intitolata “Mexicanos perdidos en México (1975)” consiste nelle (o si dice: “delle”?) pagine del diario di Juan García Madero, un altro poeta “real visceralista” che però studia Giurisprudenza e che spera, in futuro, di diventare un bravo avvocato. Questo diario inizia il 2 novembre del 1975 e conclude (o almeno, sembra concludere) il 31 dicembre dello stesso anno. La seconda parte s’intitola come il romanzo stesso, con in più una notazione di tipo cronologico, e cioè: “Los detectives salvajes (1976-1996)”. Questa seconda parte consta di una serie di pseudo-interviste a persone che (nell’arco dei 20 anni citati tra parentesi) hanno conosciuto o avuto contatti con i succitati Arturo Belano e Ulises Lima. Perché pseudo-interviste? Perché chi parla (chi dice “io” prendendo la parola) viene introdotto da un titoletto in grassetto in cui appaiono nome, cognome, luogo in cui si trova il parlante, oltre che mese e anno in cui “rilascia” la sua personale testimonianza intorno ai due principali “real visceralistas”. L’altra domanda da porsi (a questo punto) sarebbe: ma a chi si rivolgono? Con chi parlano? Chi è il vero destinatario empirico delle loro (a volte) lunghe, sconclusionate e affascinanti confessioni personali? (Mi accorgo solo ora che rispondere a questa domanda risolverebbe parte del mistero – e del fascino – che emana questo libro; ora che ci penso, mi da i brividi e mi piace ipotizzare che tutti questi “io” stiano rispondendo alle domande giornalistiche dell’autore stesso, Roberto Bolaño, nelle vesti del cronista che intervista i co-protagonisti del suo romanzo). La terza parte, invece, si intitola “Los desiertos de Sonora (1976)”. In realtà, questa parte consiste di un unico salto all’indietro nel tempo (dal 1996 al 1976), salto grazie al quale viene riannodata la narrazione che Juan García Madero aveva avviato nel suo diario lasciandola interrotta al 31 dicembre del 1975. E’ in questa sezione che il lettore scopre finalmente in che modo i due poeti-detectives riescono a scoprire dove vive Cesárea Tinajero e che cosa si cela dietro il silenzio che ha imprigionato (forse volutamente) la sua opera letteraria (mai resa pubblica). E’ qui che Arturo Belano e Ulises Lima ci vengono presentati come due eroi epici che si scontrano contro il Male. E Male è parola-chiave per capire l’intero romanzo.


Il libro ci parla di giovani idealisti che credono nella forza delle parole e della poesia nel modificare i dati della realtà. Ma ci parla anche della disperazione, della follia, della solitudine che implica un atteggiamento troppo idealista nei confronti del reale. Belano e Lima sono due poeti che rischiano di morire di fame, o di finire in galera, o di venire uccisi da malviventi senza scrupoli, perché credono fermamente nel loro “sogno personale” e non intendono cedere davanti a nessun ostacolo materiale che il mondo esterno voglia loro frapporre (a tratti possono ricordarci l’altra coppia “maledetta” della poesia moderna: Rimbaud e Verlaine). Si nutrono di letteratura, ed è per questo che sopportano di stare a stomaco vuoto. Girano l’Europa (Parigi, Roma, Barcelona, et similia) e l’America Latina (Messico, Argentina, Cile, oltre che parte degli USA) con un unico scopo: portare avanti la loro personalissima “protesta” contro i poeti dell’establishment e recuperare il Verbo di Césarea Tinajera. Entrambi le missioni assumono l’aura della quest epica proprio perché a parlare dei due protagonisti non sono tanto loro stessi, quanto gli altri, quelli che sono stati testimoni delle loro gesta. Ed è per questo che parlo di un’epica moderna il cui orizzonte di senso prende spessore sullo sfondo di certe operazioni metanarrative alla Julio Cortázar e alla Jorge Luis Borges (citati, tra l’altro, da alcuni dei “testimoni”).


Solo che Bolaño non è “autore postmodernista” o non lo è in pieno (sempre che ci s’intenda sul significato da attribuire all’aggettivo “postmodernista”, diventato ormai un vero e proprio concetto-ombrello buono per tutte le stagioni e per etichettare i più svariati esiti letterari o artistici). Bolaño è autore che gioca un gioco serio con la letteratura. Anche quando sembra più ironico, anche quando sembra suggerire che “La vida hay que vivirla” e che “La literatura no vale nada” (p. 301 dell’ed. che maneggio), in realtà ci obbliga a riflettere e a ragionare seriamente sulle relazioni a volte promiscue altre volte più aleatorie (o plastiche) tra vita e letteratura (sembra spingerci a godere di entrambe, insieme).


Un esempio (dai risvolti, questa volta sì, decisamente umoristici): la scena del duello tra il poeta Arturo Belano e il critico letterario Iñaqui Echavarne (pp. 474-483) (il lettore “ducho” sa che dietro le due maschere si nascondono: a) lo stesso autore, Roberto Bolaño (l’assonanza fonetica tra personaggio letterario e autore in carne ed ossa è voluta, ovviamente); b) il critico letterario Ignacio Echevarría (che ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere in Andalucía un paio d’anni fa), critico che oggi è diventato il maggiore esperto nell’opera di Bolaño oltre che legatario degli scritti che l’autore cileno (naturalizzato spagnolo) ha lasciato incompiuti per la morte improvvisa che l’ha colto - a 50 anni - nel 2003).
Ebbene, in questo brano Bolaño riesce davvero a ri-creare l’ambiente, l’atmosfera, il sapore dei duelli tipici dei libri di cavalleria o delle chansons de geste coinvolgendo il lettore in una riflessione di tipo lirico intorno ai confini labili che a volte si stabiliscono tra chi scrive e chi, di mestiere, è tenuto a valutare quanto viene pubblicato. Belano teme Echavarne perché sa che è uno dei critici più “cattivi” del panorama ispanico contemporaneo. Al contempo, lo sfida, anticipando la sua ipotetica decisione di pubblicare una qualsivoglia recensione negativa, perché così spera di dimostrargli che lui non ha paura, che è un poeta in grado di difendersi da solo, capace di scendere in singolar tenzone pur di mantenere intatta davanti al pubblico e alla critica la sua coscienza di autore indipendente e di qualità. Le ragioni dell’autore (che si mette in gioco e rischia a ogni nuovo libro pubblicato) si scontrano (questa volta, anche fisicamente) con le pretese del critico (che si mette in gioco ogni volta che cerca di separare il grano dalla paglia, spiegando ai lettori cosa è degno di essere letto e cosa è solo prodotto commerciale destinato a finire nella sepoltura dell’oblio).


I due si sfidano in un duello con le spade su una spiaggia deserta nei pressi di Barcelona. L’esito è incerto, anche se Arturo Belano sembra avere la meglio. Un mese dopo questa scena (nel luglio del 1994), Ignacio Echavarne viene intervistato e rilascia la sua testimonianza in questi termini (l’uso delle maiuscole per alcuni termini-chiave è ironico – o così mi sembra):


“Fino a un certo punto la Critica accompagna l’Opera, poi la Critica svanisce e sono i Lettori ad accompagnarla. Il viaggio può essere lungo o breve. Poi i Lettori muoiono uno alla volta e l’Opera continua da sola, anche se la Critica e altri Lettori poco a poco iniziano a muoversi allo stessa andatura. Poi la Critica muore un’altra volta e i Lettori muoiono di nuovo e su tale percorso lastricato di ossa l’Opera prosegue il suo viaggio verso la solitudine. Avvicinarsi a essa, navigare sulla sua scia, è segno inequivocabile di morte certa, anche se altra Critica e altri Lettori le si avvicinano instancabili e implacabili e il tempo e la velocità li divorano. Alla fine, l’Opera viaggia irrimediabilmente da sola nell’Immensità. E un bel giorno l’Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estinguerà il Sole e la Terra, il Sistema Solare e la Galassia e la più recondita memoria degli uomini. Tutto ciò che inizia come commedia finisce in tragedia”.


Quest’ultima affermazione è un lemma che potremmo adottare per altri racconti e romanzi di Roberto Bolaño (penso soprattutto all’altra opera labirintica e “totale”, quel 2666 pubblicato postumo e che tanto successo sta riscuotendo negli USA dopo le prime traduzioni in inglese).


Ecco, possiamo dire che Los detectives salvajes è un finto romanzo giallo che inizia come commedia e finisce come tragedia. Un’epica percorsa da personaggi bizzarri e da eroi “maledetti” come Belano e Lima (o come Bolaño e il critico “cattivo” Ignacio Echevarría) in cui il lettore viene coinvolto “visceralmente” nella sua trama frastagliata e, apparentemente, infinita…

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...