martes, abril 27, 2010

Le seconde "ipotetiche"

Oggi a lezione abbiamo affrontato un argomento piuttosto complesso per i ragazzi di quarta: le cosiddette "frasi subordinate di tipo ipotetico" (che in spagnolo si chiamano "condicionales"). Come in italiano, così in spagnolo (ma credo sia lo stesso anche per il tedesco, il francese, l'inglese, etc.), esistono 3 gradi di ipoteticità (o di condizione): a un certo punto, ho spiegato la frase ipotetica di secondo tipo:
"Se stessi più attento, non prenderesti certi brutti voti", "Se venissi, mi farebbe piacere", e così di seguito....
Poi, prendendo spunto da un articolo, mi è venuta questa domanda:
"Che cosa faresti se questo fosse il tuo ultimo giorno?".
Qualcuno si è dato una toccatina, qualcun altro ha riso (non si fanno domande simili a ragazzi appena diciottenni o ancora diciassettenni), e dopo aver ristabilito la calma, ho iniziato ad interrogare singolarmente quelli che sembravano avere le idee più chiare in merito.
Un ragazzo dal ciuffo spavaldo mi ha detto che avrebbe preso la sua motocicletta e sarebbe andato in giro, senza meta, per sempre (finché la morte non sarebbe sopraggiunta - o la benzina non sarebbe finita); una biondina dagli occhi azzurri, di solito timida e silenziosa, mi ha detto che chiamerebbe tutti i suoi amici e farebbe una grande festa, l'ultima festa della sua vita...
Un altro studente mi ha detto, con tono serissimo, che lui non farebbe niente: si metterebbe sul letto, ad aspettare, tanto non servirebbe a niente fuggire o fare festa.
Allora un'altra, una delle mie migliori alunne, ha spiegato che sarebbe da sciocchi aspettare, che sarebbe meglio approfittare delle ultime ore per chiamare a raccolta i propri amici, le persone care, i familiari, e parlarci, dire loro le cose che non abbiamo mai avuto il tempo o il coraggio di dire e poi cercare di stare allegri, finché si può...
Mi sono detto d'accordo con lei, ho spiegato loro che sono un po' "epicureo" ultimamente e che sì, anch'io me la spasserei, cercando di cogliere il meglio, pur sapendo che non ci saranno altre possibilità: farei l'ultima salita in bici; preparerei un mega-cenone col cibo migliore e il Chianti più pregiato, in compagnia dei miei amici e dei miei cari; e poi...poi passerei un bel po' di tempo a letto con la persona che amo, per dirle ancora una volta che l'amo...
Silenzio in classe: qualcuno non ha capito bene il significato del verbo "acostarse"; lo rispiego; risatine, o risate sotto i baffi; qualcuno sorride. La maggioranza approva. Finché la studentessa più brava alza la mano e fa:
"Comunque, prof., è più facile rispondere a domande tipo: quand'è scoppiata la guerra civile spagnola, eh!".
Le rispondo che ha ragione: poi cambiamo argomento, fuori c'è il sole, fa caldo, è iniziata l'estate e non vale la pena arrovellarsi troppo su questioni così spinose e complicate...

sábado, abril 24, 2010

La separazione del maschio di Francesco Piccolo (Torino, Einaudi, 2008)


Libro non disprezzabile, scritto con stile scarno, riflessivo, a tratti auto-ironico, a tratti cinico, la trama ruota attorno a un trauma: quello dell'abbandono e della fine di un matrimonio filtrati attraverso il punto di vista del "maschio", narratore e protagonista in prima persona della storia.

Chi è il "maschio"? A quanto si deduce dai pensieri che egli stesso mette per iscritto, il "maschio" è quell'uomo occidentale eterosessuale e di cultura medio-alta sulla quarantina che, se vede una bella donna per strada o in treno, non può fare a meno di provare a parlarci, a stabilirci un qualche tipo di contatto a sfondo erotico e non per forza fisico. E' uno che si sente in dovere di vedere come reagirà la potenziale "preda" da conquistare e amare (non un Don Giovanni, che ama e usa e getta le sue vittime; ma uno che, una volta conosciuta la donna amata, è capace di viverci una relazione amorosa anche per anni).

Il "maschio" del romanzo fa il montatore di professione e passa le giornate a studiare film fotogramma per fotogramma e a vivere una vita "normale" dividendosi tra: la moglie (Teresa), la figlia (Beatrice), e quattro amanti (o tre, ora non ricordo esattamente: Valeria, Alessandra, Monica, Francesca o giù di lì, non ho tenuto il conto esatto...).

Ciò che risulta inverosimile è proprio questo: non tanto il desiderio del protagonista di dimostrare come possa considerarsi assolutamente "normale" una persona che vive una vita così movimentata e senza alcun senso di colpa, quanto il fatto che riesca davvero a mantenere nervi e muscoli saldi grazie ai molteplici rapporti amoroso-erotici che mantiene con le varie amanti.

Ovvero: io ci credo (o posso credere) al fatto che un buon marito possa amare d'un amore folle la moglie e la figlia pur essendo un adultero (agli occhi della "morale comune"); ma non credo (o faccio molta fatica a credere) che si possa vivere una vita così movimentata con la tranquillità che ci trasmette questo personaggio che, se si scompone (e giustamente si scompone) è solo quando scopre che la moglie lo ricambia con la stessa moneta, portandosi uno sconosciuto in casa e facendoci sesso sul loro letto matrimoniale (letto che, tra le altre cose, l'adultero incallito aveva in precedenza usato allo stesso scopo).

"Nei film le persone si comportano in un modo diverso dalla vita vera, più intenso e preciso; non sono reticenti e si occupano poco di cose pratiche: si parlano, si spiegano, capiscono, riescono a dire che sono cambiati e in che modo, dicono è vero hai ragione non mi comporterò più così, chiedono se saranno amati per tutta la vita e sono lì non solo a vivere ma anche a riflettere sulla vita, a cercare di capire che vita intendono vivere. Mi piacerebbe molto riuscire a comportarmi così, come nei film" (p. 18).

Ed è proprio questo che, in certi brani, affossa il romanzo: il fatto, cioè, che chi racconta sembra troppo impegnato a vedersi vivere come in un film (o in un romanzo), troppo teso a riflettere, senza vero dolore, senza un impegno radicale, senza troppa convinzione o con una convinzione che sembra da attore di film (o di teatro).

Non mancano spunti interessanti, frasi dal tono aforistico, su quanto è difficile vivere in coppia, come queste, in cui è facile riconoscersi:

"Ognuno di noi ha una percentuale di vita sconosciuta al proprio compagno di vita. Ed è uno spicchio di varia grandezza, ma vitale" (p. 133);

"Essere una persona che l'altro non conosce significa fare fatica per farsi conoscere nel modo più preciso (nel modo migliore, anche), quindi fare teatro di sé, mettersi in mostra, essere frettolosi riguardo a preferenze (io sono fatto così, a me piacciono queste cose) - insieme a quella tendenza imbecille alla condivisione che viene spontanea (succede anche a me, io sono uguale a te) per cui tendi a conteggiare la quantità di somiglianze, a dare importanza a ogni coincidenza buona; così smorzi l'importanza delle differenze. Un modo contrario di procedere rispetto alla convivenza (o alle lunghe relazioni), dove le differenze vengono sottolineate per non vederle soccombere: in una conoscenza in atto, la propria personalità fa finta di venir fuori tutta il più presto possibile, ma invece, mentre sembra spontanea, è controllata, guidata, smorzata, instradata nel binario più conveniente. Un amore lungo ti rilassa, fa in modo che ti abbandoni a essere come sei; questa è l'intimità, la verità" (id., pp. 135-136).

Le parti migliori: i brani in cui l'io ci parla del suo essere padre e dei rapporti ancestrali tra un padre e una figlia; e la foto di copertina di Carla Cerati (cfr. supra).

lunes, abril 19, 2010

9a. Un modo migliore di mettere quello che ho appena detto


"A Quentin Tarantino interessa guardare uno cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch interessa l'orecchio".

David Foster Wallace, "David Lynch non perde la testa", in Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, Roma, Minimum Fax, 1999, p. 207

P.S.: quanti critici cinematografici sognerebbero per sé una mente lucida, una capacità di sintesi e una brillantezza nell'esposizione come quella di cui da prova il Nostro in questa approfondita e amena analisi di Strade perdute di Lynch? Quanti critici cinematografici italiani dovrebbero arrendersi, posare la penna, e darsi a un altro mestiere, dinanzi a cotanta bravura?

viernes, abril 16, 2010

Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci: il punto, purtroppo, è che non è mai cominciata...

Partiamo da un dato di fatto: io di questo scrittore tanto osannato dal pubblico e dalla critica non avevo mai letto nulla prima d'oggi; nella mia biblioteca figura soltanto un altro dei suoi romanzi, Io non ho paura (del 2001, per Einaudi), da cui Gabriele Salvatores ha tratto l'omonimo film (che sì ho visto, al cinema, e mi piacque pure parecchio). L'altro giorno, invece, e grazie a una collega pisana, entro in contatto con l'ultima fatica di Ammaniti, ovvero: Che la festa cominci (Torino, Einaudi, 2009). Ora, a lettura finita, mi viene subito questo pensiero: mai libro ha smentito in modo più eclatante quanto il suo titolo sembrava preannunciare e promettere; di fatto, la festa, in questo libro e ahinoi, non comincia mai. O stenta a partire e, anche quando parte, delude non poco.

Perché? Da dove nasce questo senso di scontentezza, di delusione, di "perdita di tempo" dopo la lettura? Da dove deriva tutta questa mia gioia di aver "solo" letto il libro, senza averci speso degli euro nell'acquistarlo?

a) La trama: banale e, nonostante alcuni guizzi simpatici, scontata. Scrittore famoso, bello e dannato, intellettuale di sinistra (per quanto ancora oggi si possa essere intellettuali in Italia e "di sinistra"...vabbè, sorvoliamo sull'aggettivo...e "non facciamoci del male", parafrasando Nanni Moretti), finisce col partecipare, malgré lui, a un mega-party organizzato a Villa Ada da un ricco imprenditore di Latina (o era di Rieti?) che, arricchitosi in modo losco, gode nell'ostentare tutta la propria volgarità provincialotta e lussureggiante. Villa Ada è diventata, di fatto, la sua reggia privata, un parco tematico popolato da bestie feroci, manco fossimo in Amazzonia. Il guizzo: in quel party si ritroveranno anche tre membri appartenenti a una specie di setta satanica da strapazzo e una comunità di ex-comunisti russi sfuggiti al regime stalinista e nascostisi per decenni nei sotterranei del parco, come i primi cristiani dentro le catacombe. Ma, ripeto, a parte questi spunti originali, che potevano dare spazio a invenzioni narrative davvero esilaranti, la trama è scontata, prevedibile, già vista, a tratti sinceramente inverosimile, e poi, anche questi poveri russi ex-comunisti, insomma, un po' ci fanno pena e un po' ci muovono al riso, ma la loro "tragedia" s'incastra davvero male con il tentativo di "omicidio-suicidio" di gruppo della setta satanica...Tutto questo per dire che ci sono dei brani in cui uno ride per non piangere. E questo non va bene, se parliamo di uno degli scrittori più famosi e quotati all'interno del panorama della Letteratura Italiana Contemporanea; ma passiamo oltre:

b) lo stile: sciatto, piano, monotono, il linguaggio che usa Ammaniti per narrare la storia sembra essere stato prelevato di peso dall'italiano medio e romanizzato di certi film dei fratelli Vanzina con l'intento di farne, in parte, la parodia. Ma la parodia di una parodia è impresa non facile e a meno che uno non si senta un po' Cervantes è difficile che riesca nell'impresa. Un esempio a caso: la scena in cui la futura moglie del futuro capo della setta satanica da strapazzo propone a quest'ultimo un pompino (la scena in sé potrebbe anche esser simpatica, ma non decolla, non va oltre una "rappresentazione parodica" di un certo tipo di donne, e di realtà sociali nostrane salite ultimamente alla ribalta della cronaca...):

Lei si era data una ravviata ai capelli e gli aveva chiesto: - Ti va un pompino?

A Saverio era sembrato che gli avesse chiesto se voleva un pompino. Ma doveva aver capito male. Doveva avergli chiesto se voleva un cappuccino.

-Il distributore è rotto... Dovrebbero ripararlo in settimana.

-Ti ho domandato se ti va un pompino.

Saverio non poteva credere alle sue orecchie. Forse i funghi della pizza erano allucinogeni.

Continuava a guardarla a bocca spalancata, come un idiota.

-Allora? - Lei, masticando la gomma, aveva ripetuto la domanda proprio come se gli chiedesse se voleva un cappuccino.

-Come?

-Lo vuoi o no? - Serena cominciava a stufarsi.

-Come? - La mente di Saverio era in stallo..

-Non lo conosci? Il pompino è una pratica sessuale per cui io ti prendo l'uccello e lo ciuccio.

Perché gli stava facendo questo? Che le aveva fatto di male?

Era ovvio. Era una trappola per poterlo accusare di molestie sessuali come nei film americani" (id., p. 208).

E uno si domanda: come si può essere così poco eleganti? Cosa sarebbe diventata una scena simile se a scriverla fosse stato un Céline, un Proust, un Joyce, o, abbassando la media e limando di molto le aspettative - volando più basso e con riferimento agli altri capostipiti della letteratura nostrana -, un Sandro Veronesi, un Tiziano Scarpa, un'Isabella Santacroce o una Simona Vinci?

c) l'intento falsamente moralizzante: quello che dà fastidio è il tono che assume il personaggio dello scrittore famoso all'interno della trama. E' come se tutti gli altri fossero dei "malfattori" o dei "rappresentanti del Male" e solo lui fosse "buono" o degno di rispetto e d'autorità. Questo scrittore, che s'ingegna a presentarcisi come un personaggio positivo e simpatico, uno che è comunque "politicamente scorretto", risulta antipatico proprio perché si sforza di mostrarci dov'è che sta la parte della ragione e dove quella del torto. Se finisce in quel mega-party, lui che è un intellettuale e, per di più di sinistra, non è certo perché si sente o si immagina assimilabile alla schiera dei vip invitati dall'imprenditore, ma perché spera di poter denunciare la "crisi di valori" in cui siamo precipitati tutti per colpa di quegli imprenditori che arrivano a comprarsi Villa Ada per farne residenza privata e di divertimento. Se Ammaniti vuole fare un ritratto satirico di certa classe di scrittori, con lo scrittore che mette in scena in questo libro, fallisce il bersaglio: quando la festa sarà ormai bella e finita, il protagonista continuerà a fare la parte del "saputello", simpatico e smascheratore di torti, senza avere alcuna autorità in questo campo...continuando, insomma, a presentarsi come un fantoccio poco incisivo...

E uno si domanda se Niccolò Ammaniti non avesse dovuto riflettere un po' di più, prima di mandare alle stampe un romanzo del genere...E, in più, uno che ora ha questo pregiudizio, si domanda se mai riuscirà ad aprire Io non ho paura o qualsiasi altro libro da lui firmato, senza farsi influenzare da quello stesso pregiudizio che lo spinge a catalogare l'autore come uno dei tanti che, chissà come e quando e perché, sono finiti nel gran calderone dei "più venduti in Italia" o dei "più rappresentativi del panorama letterario italiano contemporaneo"...

viernes, abril 09, 2010

Spider di David Cronenberg e The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman: cosa hanno in comune?

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Mentre leggo Dublinesca, ovvero, l'ultimo romanzo di quel folle di Enrique Vila-Matas (l'ultimo - o il primo, dipende - scrittore dandy degli anni 10 di questo XXI secolo), m'imbatto in una sottilissima analisi cinematografica che spinge il protagonista a comparare e mettere in relazione tra loro Spider (2002) di David Cronenberg con Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni: due film sull'incomunicabilità e sul rischio che ognuno di noi corre di diventare pazzo se non riesce a rimettere a posto i pezzi del puzzle che costituiscono la nostra vita e la nostra identità (in perenne, pericolosa, a volte ineluttabile, dispersione o caduta libera verso il baratro). Il narratore cita quella frase famosa che pronuncia Monica Vitti e che fa letteralmente venire la pelle d'oca: "Mi fanno male i capelli". E mentre continuo a leggere questo strano romanzo, vengo a sapere che la (splendida) fotografia di Spider è a cura di un certo Peter Suschitzky. Perché il narratore avrà voluto specificare il nome del fotografo? E chi era il fotografo di Deserto rosso (film sperimentale proprio in quanto a fotografia; tant'è che è uno dei primi film a colori di Antonioni - su Wikipedia, le parole del regista: "La storia è nata a colori [...] Siamo circondati sempre più di oggetti colorati, la plastica, che è un elemento molto moderno, è a colori")? Il fotografo di Deserto rosso si chiama Carlo Di Palma. Non è, quindi, Peter Suschitzky.

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Poi ricevo un'email, da parte di una cara collega e amica, che mi segnala su YouTube un video dal titolo "Not I", una roba strana, un primo piano quasi osceno di una bocca che muove le labbra e mostra i denti in primissimo piano e dice cose sconnesse (o che, per il mio scarso inglese, suonano tali). Si tratta di Samuel Beckett, uno dei suoi tanti monologhi interiori o flussi di coscienza senza punteggiatura o con la punteggiatura sballata.

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Questo video (o corto o mini-film o performance o como diavolo la si voglia chiamare) è citato all'inizio di un altro film: è sempre la mia amica a farmelo notare, mandandomi il secondo link, sull'ormai classico musical il cui poster campeggia nello studio di Dylan Dog: The Rocky Horror Picture Show (1975) diretto da Jim Sharman. E chi è il fotografo? No, non è Carlo Di Palma, ma, ancora una volta, lui, Peter, sì, è proprio lui, ho letto bene, è Peter Suschitzky, lo stesso di Spider. E allora capisco quanto possa essere pericoloso dipendere da internet, abusare di Google, fare troppe ricerche su Wikipedia, diventare un "autista informatico" (o "dipendente dal computer"), come è Riba, l'editore protagonista del romanzo di Vila-Matas. E capisco perché possiamo definire Peter Suschitzky un genio. E domandarci quanti altri film abbia "fotografato" dal 1975 (anno dell'apparizione del rivoluzionario musical horror) al 2002, e se è ancora in attività. Ma per saperlo dovrei rimettermi su Wikipedia, o fare ricerche su Google, e rischiare di tralasciare la lettura di Dublinesca, e non mi va di smettere di leggerlo, né ho voglia di diventare anch'io, come Riba, un "dipendente da computer", un drogato di informatica, uno schiavo dell'era digitale, così piena di colori, di plastica, di immagini come dice Antonioni del suo Deserto rosso, un film che, a quanto ricordo, è privo di musica, non c'è quasi musica che accompagni la colonna sonora, solo i rumori e i suoni delle fabbriche che circondano la casa di Monica Vitti, una che, come il protagonista perturbato del film di Cronenberg, non riesce più a capire chi sia, né a comunicare il suo malessere agli altri, una cui, addirittura, fanno male i capelli...

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P.S.: quanti anni avrà, oggi, Peter Suschitzky? E se fosse morto? E se, prima di morire, avesse collaborato anche con Michelangelo Antonioni?

Qui sotto il prologo di The Rocky Horror Picture Show:

sábado, abril 03, 2010

Eyes wide shut: “occhi ampliamente chiusi” su eros e morte (ovvero: l'ho visto o l'ho sognato?)

1

Non è facile analizzare anche solo in superficie l'ultimo capolavoro di Stanley Kubrick. Anche quando lo spettatore (appassionato) abbia visto il film per l’ennesima volta (io lo vidi in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia nell'ormai lontano 1999; sono passati quindi undici anni; nel corso del tempo, l’avrò rivisto almeno dieci volte; e il bello dei film di Kubrick è che ogni nuova visione permette di scoprire significati che, la prima volta, ci erano sfuggiti o non ci erano sembrati così importanti, ma andiamo per ordine, e dunque, proviamoci ad analizzarlo, questo benedetto film…).


2

Il film si apre con la figura intera della bellissima Nicole Kidman. Il suo corpo statuario ci viene mostrato nudo, nell’atto di svestirsi. Ma a una visione così sensuale si contrappone subito una dissolvenza al nero che ci sottrae da sotto gli occhi proprio quell'improvviso e oscuro oggetto del desiderio. Ecco, in parte il senso del film è tutto in questi pochi secondi iniziali, nel contrasto (feroce) tra “ciò che vorremmo vedere perché ci attrae o solletica la nostra libido” e “ciò che non possiamo o non dobbiamo vedere coi nostri occhi”. L’ossimoro è tra il visibile e il conoscibile (fino a che punto spingerci con la vista e fino a che punto credere che quanto vediamo sia conoscibile realmente e fino in fondo).

3

Kubrick parte dal romanzo breve Traumnovelle (ovvero: Doppio sogno) di Arthur Schnitzler (del 1926) per raccontare la vita di una coppia all’apparenza normalissima: Bill (Tom Cruise) è un medico di successo, bello, ricco e sicuro di sé; Alice (Nicole Kidman) è la moglie fedele, bella e diligente, che si preoccupa dell’educazione della loro figlia. Tutto fila liscio finché i due non partecipano a un ballo in casa di un amico: Alice viene corteggiata spudoratamente da un uomo più grande di lei; Bill finisce per essere adescato da due procaci modelle che vogliono portarlo “lì dove finisce l’arcobaleno” (o dove inizia, ora non ricordo bene). Nonostante questa doppia tentazione (e il fatto che sia doppia non è casuale: tutto il film è strutturato sulla base del “2”; è tutto “raddoppiato” o rivissuto 2 volte, nell’arco delle 48 ore in cui si svolge la parobola “esistenziale” dei due coniugi), i due tornano a casa sani e salvi e ancora fedeli l’uno all’altra. Ma qualcosa s’incrina. Alice – forse aiutata dall'hascish – inizia a stuzzicare il marito, che non è mai stato molto geloso di lei. Bill le fa capire che non è come tutti gli uomini (fedifraghi e adulteri). E perché mai lui dovrebbe fare eccezione? Alice gli confessa di essere stata, in passato, sul punto di lasciarlo per un ufficiale, un uomo intravisto in un hotel, tanti anni prima. E’ a partire da questa confessione che Bill non sarà più lo stesso e comincerà a sprofondare in una sorta di spirale di follia o di incubo ad occhi (ampliamente) aperti (per citare letteralmente il titolo del film – se vogliamo, anche il titolo è già un'ossimoro).

4

La confessione di Alice viene interrotta dallo squillo di un telefono. Bill deve andare al capezzale di un suo vecchio paziente. Qui, la figlia del deceduto, in procinto di sposare il fidanzato, confessa a Bill di essere innamorata pazza di lui e, addirittura, si spinge a baciarlo, davanti al cadavere del padre. E’ come se Bill, nel momento in cui scopre il potenziale tradimento della moglie, diventasse una sorta di catalizzatore dell’eros e delle pulsioni sessuali più sfrenate del prossimo. Non è un caso, allora, che, mentre cammina per strada, ancora scosso da quello che è appena successo, s’imbatta in una giovane prostituta che lo invita ad andare a casa sua per – è evidente – passare la serata a letto con lei.

5

Anche qui sarà una telefonata intempestiva a rompere l’incantesimo: Bill ha già pagato la prostituta; l’ha baciata; lei è seminuda; sono distesi sul letto, sul punto di fare l’amore, quando è Alice, stavolta, a interrompere l’azione e a chiedergli quand’è che torna a casa o se ne ha ancora per molto.

6

Bill rinuncia a questo primo tentativo di ripagare il tradimento potenziale della moglie con un tradimento reale e s’imbatte in un locale in cui suona un vecchio amico dell’Università. Nick Nightingale (nemmeno i cognomi, nei film di Kubrick, sono scelti a caso) gli racconta che quella sera ha un lavoro extra tra le mani. Scrive una parola strana su un tovagliolo e svela a Bill che si tratta della parola d’ordine per entrare in un luogo in cui degli innominati signori fanno giochi erotici molto strani in compagnia di donne bellissime. La parola è il titolo di una famosa opera di Beethoven: “Fidelio”. Nick si pente di averglielo svelato, ma a questo punto Bill è curioso e va a noleggiare il vestito in maschera che deve indossare se vuol essere ammesso alla festa. E' a partire da questa scena Bill diventa catalizzatore (o calamita inarrestabile) di morte. Chiunque gli si avvicinerà, rischierà di morire o finirà morto. Eros e Thanatos. Impulso vitale e impulso di morte. E' attorno a questi due poli (secondo la teoria freudiana essi sono le basi del nostro agire e del nostro inconscio) che il film sembra svilupparsi, intrappolando marito e moglie, Bill e Alice, in una sorta di ragnatela in cui nulla è quello che sembra e in cui gli istinti di base (basic instincts) sono condannati a una frustrazione costante, oltre che piuttosto disturbante.

7

Bill si reca da un suo vecchio paziente che gestisce un negozio di noleggio di vestiti in maschera. Il negozio si chiama “The Rainbow” e ora, è chiaro, perfino lo spettatore più distratto non potrà fare a meno di ricollegare questo nome con la frase iniziale delle due modelle che stavano per indurre in tentazione il nostro medico: “Vieni con noi, lì dove finisce l'arcobaleno” (o era: “inizia?”). Comunque, anche l'incontro con l'amico subisce una brusca virata, perché si da il caso che questi sia andato a vivere in un'altra città e ha lasciato l'attività nelle mani di un altro. Il tizio che accoglie Bill a un'ora tanto tarda non ha bisogno di vedere il tesserino della sanità nazionale per capire che Bill è davvero un medico: lo lascia entrare, dopo aver pattuito una somma di denaro piuttosto alta per il disturbo. L'atto di mostrare il tesserino da medico, però, non è casuale e verrà ripetuto da Bill davanti ai più svariati personaggi come per farsi forte della propria professione di medico davanti ai misteri in cui si trova coinvolto e alle avversità del caso.Peccato che l'io non si esaurisca nel lavoro che si fa nella vita reale; il nostro io non dipende (quasi) mai da quanto appare scritto o stampigliato su una carta d'identità. E questo Bill lo capirà, pagando sulla propria pelle, solo alla fine del film (e della sua disavventura notturna).

8

Nemmeno all'interno del negozio di maschere la realtà è quello che sembra: il titolare scopre che sua figlia (una minorenne) sta intrattenendo (sessualmente) due uomini d'affari giapponesi dietro un sofà. Bill resta scosso da quanto vede. La ragazza prova a difendersi facendosi scudo con il corpo del dottore; mentre il padre le fa la ramanzina, lei dice qualcosa a bassa voce nell'orecchio di Bill; non sapremo mai cosa gli ha detto (o forse sì, lo potremmo sapere, se provassimo a leggerle le labbra). Il punto è che Bill ha fretta, lascia l'acconto e scappa su un taxi al luogo dell'appuntamento, una sontuosa villa nella periferia della città (New York – che Kubrick ha “ricreato” interamente in studio, a Londra; basta guardare quanto sono stretti i marciapiedi per capire che quella che vediamo non è New York, anche se le assomiglia moltissimo – i taxi enormi, le auto, le scritte pubblicitarie, i suoni, la gente che cammina, sembra tutto newyorkese, ma non lo è; altro gioco ambivalente tra realtà e finzione che non so fino a che punto sia scelta casuale o scelta decisa a tavolino dal regista – vedi grandezza dei marciapiedi, appunto; talmente “finti” da sembrare “veri”).

9

Due uomini o guardie del corpo preposte a controllare l'ingresso della villa chiedono a Bill la parola d'ordine e questi, prontamente, risponde citando la parola scritta sul foglietto dall'amico musicista. Si apre il sipario: entriamo, insieme a Bill, all'interno di un mondo “altro”, in cui sono tutti mascherati, in cui non esiste più l'identità “diurna”, quella che recita la nostra carta d'identità o la nostra patente, e in cui i presenti assistono a una sorta di rituale o messa nera fatta da un gruppo di ragazze nude raccolte in cerchio intorno a una sorta di papa “alla rovescia”. L'uomo, anch'egli mascherato, indossa una specie di paramento sacro di colore rosso e una maschera d'oro che gli copre il volto. A ogni battito della sua mitra, le ragazze si alzano, si denudano (come Kidman all'inizio del film), fingono di porre un bacio alla vicina, e poi si avviano lungo i corridoi della villa, in compagnia dei tanti uomini mascherati che hanno assistito al rito.

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Eyes wide shut venne criticato per le scene “bollenti” o di sesso spinto fin dai primi momenti della lavorazione (quando ancora nessuno aveva visto nemmeno un frammento del film). La scena dell'orgia in villa è, al contrario, quanto di meno pornografico, di meno erotico, di meno sensuale si possa immaginare. L'atmosfera è plumbea, la musica è molto efficace nel trasmettere inquietudine e suspense allo spettaore, gli attori che compiono l'atto sessuale sembrano farlo a una velocità inverosimile e come fossero delle marionette impazzite. Bill cammina in mezzo a tutti questi corpi nudi sorpreso e, al contempo, affascinato dallo spettacolo per lui così inusuale. Ma, ripeto, questa scena tutto trasmette tranne che erotismo o rappresentazione pornografica della realtà. Si assiste a una messa in scena che sa di ridicolo, di gente ricca che, per sconfiggere la noia, inventa una pantomima in cui i corpi sono semplici oggetti caricati a molla.


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Nel bel mezzo di questa orgia continua e multipla, Bill viene avvicinato da una delle modelle mascherate. La ragazza lo avverte: deve abbondonare la villa, se non vuole rischiare di essere scoperto. Bill non capisce chi sia la donna e perché voglia aiutarlo. Ora, va detta una cosa: all'inizio del film assistiamo all'intervento provvidenziale di Bill a favore di un'altra modella, una certa Mendy, con cui il padrone di casa e amico di Bill si stava intrattenendo in bagno. Il corpo nudo di Mendy assomiglia moltissimo a quello di questa seconda ragazza: siamo per forza di cose spinti ad associare Mendy alla modella che vorrebbe salvare Bill da quella situazione così strana e pericolosa, come se questa contraccambiasse il favore del dottore. Eppure, nel corso di tutto il film, Kubrick ci lascerà col dubbio; non scopriremo mai se si tratta davvero della stessa persona. In sintesi, Bill non va via; una seconda modella prova a consigliargli di andarsene, ma lui resta. Fino a quando non viene scoperto. Il papa “alla rovescia” gli ordina di spogliarsi, dopo aver comprovato che Bill non conosceva la seconda parola d'ordine (quella per partecipare). Bill è scosso, sconvolto, impallidisce, fino a quando (ennesimo colpo di scena) quella stessa ragazza che sembra Mendy - e forse lo è - si affaccia da un loggiato e si propone di aiutarlo: “Prendete me, lasciate in pace lui”. Che cosa potranno mai fare alla donna? A giudicare dai gusti dell'allegra combriccola lo spettatore è spinto a immaginare il peggio (violenze di gruppo, percosse, stupro). Bill, di fatto, si salva e viene lasciato andare via; a patto, però, che non faccia menzione con nessuno di quanto ha visto in quella villa.




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E qui comincia la seconda parte del film: è come se Kubrick riannodasse il nastro e ci facesse ripercorrere alla luce del sole gli stessi spazi che Bill ha percorso durante la nottata. Torniamo al “Rainbow” per saldare il conto e questa volta il proprietario ammicca in modo evidente alla possibilità di noleggiare anche la figlia minorenne (Bill gli chiede perché ha lasciato liberi i due giapponesi dell'altra notte; il proprietario risponde: “Le cose cambiano”); torniamo all'hotel in cui alloggia Nick Nightingale e veniamo a sapere da un receptionist affascinato da Bill che il musicista è partito all'alba e in tutta fretta e che presentava degli evidenti ematomi sul volto; infine, Bill torna sul luogo del delitto; e questa volta si trova davanti un uomo che sembra essere il papa “alla rovescia” della notte appena trascorsa e che gli porge un biglietto minatorio: “Smettila di indagare, altrimenti tu e i tuoi cari correrete dei grossi rischi”. Bill non riesce più a vivere, per il peso di quanto ha visto nella villa. Flash-backs in bianco e nero e totalmente immaginari gli presentano (a quello che Proust chiamerebbe “l'occhio della mente”) la scena del tradimento della moglie, nuda e pronta per l'ufficiale e gentiluomo. Intanto, Bill viene pedinato da un uomo in impermeabile; e qui, di nuovo, le scritte pubblicitarie o quelle che appaiono sul giornale che compra il dottore diventano chiavi interpretative di parte del film.

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La prima pagina del giornale che Bill sta leggendo all'interno di un pub recita, a caratteri cubitali: “Lucky to be alive” (una specie di ritornello che fa rima con il biglietto minatorio di cui sopra). Ma non solo: qualche scena prima avevamo visto Alice intenta ad aiutare la figlia a fare i compiti e, sulla tv accesa della cucina, abbiamo visto apparire per un istante una scena “parlata” in lingua italiana: un cameriere che porge il caffè a una coppia seduta al tavolo. Da pochi scorci si capisce che siamo a Verona, la città di Romeo e Giulietta. Quando Bill si accorge di essere spiato e pedinato da uno sconosciuto si gira e come si chiamerà mai il locale la cui insegna verde campeggia sulla strada? “Verona Restaurant”. Ora, è ovvio che anche questa scritta non è affatto casuale. Anch'essa fa rima, per così dire, con la scena di pochi secondi in cui l'audio passa all'italiano. E quale potrebbe essere il legame tra un film che parla delle derive dell'amore, di tradimenti, di sesso spinto e passionale, di morte e di morti ammazzati e una città italiana come Verona? Ma ovviamente Shakespeare, il quale, in Romeo and Juliet di questo parla: amori, false verità o mezze apparenze che spingono alla morte, e “cattive” o “errate” interpretazioni della realtà.

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Non solo: lo spettatore cinefilo si accorgerà immediatamente di come le maschere indossate dai ricchi lussuriosi all'interno della villa siano di fattura nostrana: insomma, anche senza ricorrere al gossip nato intorno alla lavorazione del film, si capisce che quelle sono maschere veneziane; o di fattura tipica da carnevale di Venezia. In particolare, lo spettatore cinefilo ricorderà un altro film in cui appaiono (per pochi minuti) maschere dello stesso tipo: si tratta di Don Giovanni, la trasposizione cinematografica dell'opera di Mozart-Da Ponte realizzata da Joseph Losey nel 1976 (se non erro). Anche qui l'ambientazione è italiana: siamo a Vicenza, all'interno delle ville palladiane. E anche Don Giovanni, a pensarci bene, parla degli stessi temi che Kubrick sviluppa a partire da Doppio sogno: tradimenti, inganni, false apparenze, morte e istinti di base. Cosa curiosa: l'Italia del Nord fa da ponte (al di là di Da Ponte) fra Losey e Kubrick: Vicenza, Verona, Venezia. Altro che New York coi suoi marciapiedi troppo grandi! (o troppo piccoli).



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Quando Bill aiuta Mendy, strafatta e spaparanzata sul divano del bagno del padrone di casa, lo spettatore cinefilo non potrà fare a meno di pensare a un'altra scena, questa volta comica. Si tratta di una delle scene finali de L'appartamento, del geniale Billy Wylder (il film è del 1960, se non erro). Anche qui, come in Eyes Wide Shut, il dottore soccorre la giovane fanciulla chiedendole di aprire gli occhi se riesce a sentirlo. Ora, uno potrebbe anche dire: “ma che c'entra, tutti i medici dicono, più o meno, la stessa frase, se si trovano in quel frangente”, ma il punto è che Kubrick fa stendere la ragazza nella stessa identica posizione di Shirley MacLaine sul divano di Jack Lemmon, posizione che è ripetuta (con strano effetto di mise en abyme) dalla ragazza nuda che appare nel dipinto posizionato sopra la testa di Mendy. Ora, si da il caso che quel quadro (come molti di quelli che appaiono all'interno degli interni del film) sia opera della moglie di Kubrick. Insomma, Kubrick, in un colpo solo, si concede il lusso di omaggiare sia sua moglie che Billy Wylder. E qui la strizzatina d'occhio ai due modelli è sia ironica che sarcastica: in fin dei conti, la ragazza che Bill cerca di aiutare sta rischiando di lasciarci la pelle per overdose da cocaina, eroina e alcol. E in questi casi, diventa dura ridere o sorridere. Ma lui è Kubrick, si sa, e si può permettere questo e altro...

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Ma torniamo a Bill: inutile cercare di capire chi siano quelli della villa. Inutile fare l'eroe. Bill non è più lo stesso, da quando Alice gli ha prospettato il tradimento. Tornato a casa, si accorge di non aver riconsegnato la maschera al negoziante. Quella maschera che “gli altri” lo hanno obbligato a togliersi per essersi immischiato in una faccenda (di sesso) che non lo riguardava. Ebbene, è Alice ad averla scoperta in casa e ad averla adagiata sul suo cuscino. Bill crolla, piange, e sveglia Alice, disposto a dirle tutta la verità sulla strana nottata che ha appena vissuto.

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Prima facevo riferimento al numero 2 e al fatto che il film è tutto costruito intorno al “doppio” e alla “doppiezza” (sia in senso metaforico che matematico). Qualche scena prima Alice si sveglia di soprassalto in preda a una risata isterica. Bill le chiede cos'abbia. Alice gli racconta che sognava: un sogno strano, un incubo, in realtà, in cui lei era circondata da tantissimi uomini nudi. Alice scopava con tutti, mentre Bill la guardava. E più lei scopava più le veniva da ridere della situazione. E' ovvio che si tratta della versione “onirica” dell'incubo che Bill ha vissuto sul piano della realtà empirica entrando nella villa.

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Dopo la confessione alla moglie, Bill non sa più cosa fare. Alice è molto più pragmatica: devono accompagnare la figlia a comprare i regali di Natale (ho dimenticato di dire che il film è ambientato tutto nel periodo natalizio – l'ambientazione collabora con la musica e la fotografia a creare quel contrasto ossimorico tra bene e male, tra verità e menzogna, che sembra percorrere l'intera pellicola). E così, all'interno del negozio di giocattoli, i due continuano a parlarsi, come una coppia qualsiasi. Solo che ora non sono più gli stessi: hanno rischiato grosso, entrambi. Bill afferma che la verità di una notte non è la verità di tutta una vita; Alice gli fa eco e dice (con tono shakespeariano) che “nessun sogno è mai soltanto un sogno”. Non è facile capire se ciò che vediamo corrisponde a verità e se ciò che sogniamo può insegnarci qualcosa su quello che abbiamo vissuto o vivremo in futuro. Nel dubbio, e all'interno del labirinto tra sogno e realtà, tra tradimenti veri e tradimenti solo sognati, spetta ad Alice sciogliere finalmente tutta la tensione accumulata nel corso della “storia”. E il finale è davvero geniale: Alice ricorda a Bill che ora devono fare subito una cosa urgente. Bill le domanda cosa; Alice gli risponde con un mezzo sorriso: “Scopare”. E con questo verbo si chiude il sipario di Eyes Wide Shut.

P.S.: nell'analisi (sottolineo: superficiale), mi sono dimenticato di una delle scene più "perturbanti" di tutto il film, quella in cui Bill va all'obitorio dopo aver scoperto sul giornale che "Mendy" è morta d'overdose. La scena è ben sintetizzabile dal fotogramma qui sotto: Bill è affascinato, attratto, pericolosamente conturbato dal cadavere della ragazza; e a un certo punto, le si avvicina così tanto che sembra che stia per baciarla. Qui sesso e morte si attorcigliano in un modo davvero pericoloso. E non c'entrano niente le spiegazioni dell'amico ricco che era presente all'orgia della villa. Non c'entra niente il suo tentativo di razionalizzare ("Immagina che si sia trattato di una enorme messa in scena, di una sciarada"); qui quello che a Kubrick preme sottolineare per immagini è proprio il fascino indiscreto della morte sui vivi e il fatto che per sesso ci si può spingere lontani, fino ai confini estremi della vita stessa... (o almeno credo). Che poi Alice usi quel verbo e nella forma dell'infinito (scopare), beh, potrebbe anche essere l'ultima parvenza di speranza, l'ultimo messaggio di conforto, davanti allo strapotere della morte e degli incubi a occhi aperti...


 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...