domingo, diciembre 27, 2015

Spedizione notturna nella mia stanza, di François-Xavier de Maistre: pensiero positivo



E dopo Sandro Veronesi, m'imbatto in un francese del XVIII sec.: si chiama François-Xavier de Maistre, nacque a Chambéry nel 1763, visse il periodo convulso della Rivoluzione Francese, viaggiò tra la Francia e l'Italia, finendo con l'innamorarsi di Torino, combattè contro Napoleone e morì nel freddo glaciale della Russia nel 1852, ovvero, all'età di 89 anni (un record, se calcoliamo l'epoca e gli eventi che lo videro protagonista).

Nel 1794 finisce 42 giorni in carcere e fu lì che ideò e scrisse l'opera destinata a dargli la fama postuma, ovvero, Voyage autour de ma chambre, un libro che non ho letto, ma che ho già messo nella lista dei desideri...


Seconda parte di questo primo "esperimento letterario", Expédition nocturne autour de ma chambre è un testo che sorprende per la grande empatia che l'autore cerca di (e, nel mio caso particolare, riesce a) stabilire con il lettore, per l'ironia e il sottile umorismo con cui descrive questo viaggio fatto stando da fermi (dentro una stanza, appunto), oltre che per la profondità di certe riflessioni...


Come fosse uno Zilbandone leopardiano, ma al contrario, nel senso che anche quando lo scrittore scova motivi più che validi per lamentarsi e per piangersi addosso, evita puntualmente di farlo e vira verso l'ironia acuta, l'acume umoristico, la sottigliezza di chi tanto ha sofferto, tanto ha vissuto e tanto, ancora, spera di poter vivere.


E' quel che traspare da questo brano (che riporto dall'edizione - bellissima - dell'editore Barbès di Firenze, del 2009):


“Allora morirò, un giorno?  Ma come, morirò io che parlo, io che m’ascolto e mi tocco, io potrò morire? Mi è difficile crederlo. 

Perché, infine, che muoiano gli altri mi sembra del tutto naturale: capita ogni giorno. Ma che muoia proprio io! Io in persona! Questo è assurdo…

Quanto a voi, signori, che credete queste mie meditazioni un’insulsa chiacchierata, sappiate che questo è il modo di ragionare di tutti; e pure il vostro.

Nessuno pensa che deve morire.

L’idea della morte spaventerebbe più di quanto spaventa noi anche una stirpe d’uomini immortali.

In tutto questo, c’è qualcosa che non riesco a spiegarmi. Com’è che gli uomini, continuamente agitati dalla speranza e dalle chimere dell’avvenire, si preoccupano così poco dell’inevitabile certezza riservataci da tale avvenire?

Non sarà magari la benefica natura a darci tanta felice spensieratezza e permetterci d’andare in pace incontro al nostro destino?

Io credo infatti che, senza farsi turbare l’immaginazione da neri fantasmi, si possa essere perfetti gentiluomini senza aggiungere agli evidenti mali della vita quella tendenza dello spirito che porta a lugubre riflessioni.

Penso insomma che dobbiamo permetterci di ridere, o almeno sorridere, ogni volta che se ne presenti occasione”.

Leopardi rabbrividirebbe dinanzi a tanto "pensiero positivo"; Sterne, invece, evidentemente, sorriderebbe, perché in parte la conclusione del ragionamento di de Maistre coincide con il suo, quando, in qualche "luogo" del capolavoro dello humor mondiale The Life and Opinions of Tristram Shandy, scrive che "un giorno privo di sorrisi o di risate è un giorno sprecato", o qualcosa del genere (non cito verbatim).

E così penso anch'io, anche se ci sono giorni in cui tutto ci appare davvero nero e triste e privo di ogni senso.

De Maistre la sapeva lunga; e continua a viaggiare dentro la sua stanza, alla scoperta di quegli aspetti leggeri, leggiadri, sereni che rendono la vita degna di essere vissuta.

sábado, diciembre 26, 2015

Lazzaro’s resurrection



Pura casualità, a due giorni esatti dalla vigilia di Natale, m’imbatto in Non dirlo, l’ultimo “libro” di Sandro Veronesi (Milano, Bompiani, 2015); e se utilizzo la parola “libro” e la metto tra virgolette è per l’incertezza intrinseca, l’indeterminatezza tutta ontologica, circa la natura di un testo che non è un romanzo, non è un saggio, non è un’agiografia, non è un manuale d’insegnamento catechistico, e che forse proprio in virtù di questa sua “indeterminatezza ontologica” risulta accattivante, cattura l’attenzione dalla prima riga all’ultima pagina, ti prende allo stomaco, insomma, e mantiene alta la suspense fino alla fine…

Veronesi – uno che negli anni passati ha già scritto testi ibridi: si pensi a Occhio per occhio (del 1992), una sorta di reportage in diritta sulla pena di morte nel mondo contemporaneo, o a No Man’s Land (del 2003), sorta di riscrittura teatrale di un film sulla guerra in Jugoslavia – si appassiona al Vangelo di Marco (tra i più brevi e “veloci” dei quattro) per mostrarcene la carica narrativa dirompente e la tecnica quasi cinematografica nella costruzione della trama. Come fosse un film di Tarantino, o di Sergio Leone, l’autore ne snocciola i punti salienti, servendosi di un corposo apparato di note finale che ampliano, descrivono, raccontano, comparano, studiano e interrogano il testo biblico (come se in quelle note si giocasse un’altra partita importante: quella dell’autore con i misteri irrisolti che si celano dietro le parole di Marco).

E tra queste note m’imbatto nella numero 63 (p. 194), una nota che non posso fare a meno di trascrivere qui, su questo diario di bordo, perché mi cattura e mi fa riflettere su una cosa su cui avevo discettato un paio d’anni fa in un congresso sulla poesia moderna e contemporanea:

“Malgrado la fama che l’accompagna, la resurrezione di Lazzaro è un episodio anomalo del Vangelo, tragico, sconvolgente, quasi spiacevole, nel quale Gesù appare sotto una luce insolitamente gotica. Questo perché quando, piangendo, ordina di aprire il suo sepolcro, Lazzaro è già morto da quattro giorni, e il testo specifica che “già puzza”; e   quando, obbedendo all’ordine di Gesù (“Vieni fuori”) Lazzaro compare sulla porta, è una mummia saltellante, uno zombie “legato mani e piedi con le fasce e col viso coperto da un sudario”. Giovanni spazza subito sotto il tappeto l’orrore che ha appena sparso attorno a questo prodigio, ma basta leggere la ricostruzione che ne fa Luca Doninelli nel suo bellissimo libro dedicato a Giuda Iscariota, Fa’ che questa strada non finisca mai (Milano, Bompiani, 2014), romanzesca e per questo ancora più vera, per rendersi conto che si tratta di un miracolo decisamente scandaloso, e che gli altri evangelisti hanno fatto bene a eliminarlo”.

Ora, il punto nodale è proprio l’aggettivo “scandaloso”: lo stesso che io adottai per descrivere la ri-scrittura di questo famosissimo passo della Bibbia (del Vangelo di Giovanni) da parte di quel poeta moderno e contemporaneo su cui mi concentrai proprio per parlare del concetto di “ri-scrittura”.

Il fatto che Lazzaro (amico di Gesù) torni alla vita dopo essere morto e dopo essere stato sepolto per quattro giorni è uno “scandalo”; il poeta in questione lo dice velatamente assumendo il punto di vista del risorto: Lazzaro si chiede che senso ha tornare a vedere la luce del sole dopo essere stato mortalmente avvolto dalla tenebra dell’al di là. Perché Lazzaro è stato nell’al di là, che si presenta subito come un luogo freddo, privo di luce e assolutamente triste. E ciononostante, il fatto di tornare nel mondo dei vivi non gli dà nessun conforto, perché appena fuorisce dalla tomba, appena varca la soglia del sepolcro, e può rivedere il suo amico e abbracciarlo, si rende conto che non ha più i sensi, ovvero, il suo olfatto non percepisce più gli odori, il suo gusto non percepisce più i sapori e il suo tatto non percepisce più le mille sfumature delle cose; la sua vista gli permette di vedere, ma i colori si riducono a un grigiore informe e indistinto. Come se su tutte le cose della Terra fosse calata una nebbia che rende impossibile distinguere i colori. Insomma, come se i colori avessero perso il loro spessore.

Ecco. Il “libro” inclassificabile di Veronesi (e dotato di uno stile agile molto vicino al registro della lingua orale – non è un caso, dunque, se leggo su internet che questo stesso “libro” Veronesi lo usa come sceneggiatura di partenza per un monologo da svolgere a teatro, in diretta, a viva voce) ci permette di entrare in contatto con i risvolti più originali perché più dirompenti e rivoluzionari di un testo, come il Vangelo di Marco, alla base di una religione come quella cristiana cattolica che fa della resurrezione un “mito” fondante. Senza Lazzaro e, poi, senza la resurrezione di Cristo tre giorni dopo la crocifissione, non ci sarebbe la buona novella. Non ci sarebbe la religione cristiana cattolica così come oggi noi la conosciamo.

Eppure, proprio una delle scene che prefigura la “resurrezione” è permeata di un’aura apocalittica, paurosa, che ci fa dubitare. Che ci trasmette un certo fastidio. Che ci sconvolge perché è, effettivamente, “scandalosa” (Lazzaro è davvero un morto vivente, uno che da cadavere – come Frankenstein – torna a camminare nel mondo dei vivi).

E allora la domanda è: come coniugare quella scena “scandalosa” (che solo Giovanni si premura di riportare nel suo Vangelo) con quell’altra “fondamentale” di Gesù che torna in vita per trasmettere la buona novella agli Apostoli e all’Umanità tutta intera? Come non domandarsi circa il parallelismo e il contrasto netto tra l’una e l’altra scena?


Ovvio che dopo questa nota al testo di Veronesi non potrò non andarmi a leggere il romanzo di Luca Doninelli che egli stesso cita come esempio di “ri-scrittura” di questa famosa scena…Oltre che di approfondimento romanzesco sulla figura di Giuda Iscariota: un altro personaggio “anomalo”, il “cattivo” che deve svolgere bene il proprio ruolo (il “traditore”) affinché si compia quella morte che è alla base di quella seconda resurrezione fondamentale affinché l’Umanità creda… I misteri della fede…

domingo, diciembre 20, 2015

Milano (a fine Novembre)




“Le stesse cose ritornano, ma non sono mai esattamente le stesse”: così si chiudeva un post di qualche anno fa, quando frequentavo il Sud del mondo (e d’Italia) e pernottavo tra Salerno e Avellino e godevo dei panorami mozzafiato che si possono contemplare dalle colline più alte di Giffoni (sì, lo stesso paese del “Giffoni Film Festival”, Campania profonda, profondo Sud).

La citazione (auto-citazione, sarebbe meglio dire) mi torna immediatamente alla memoria pensando al mio recente viaggio a Milano: per colpa (o grazie a) un congresso internazionale ho potuto riabbracciare e rivedere le stesse persone che mi hanno aiutato ad essere ciò che oggi sono, gli stessi professori che – negli anni 90 e nei primi anni 2000 – mi hanno trasmesso la passione per lo studio e la ricerca, le stesse colleghe con le quali ho patito gli “alti” e i “bassi”, le sventure molteplici, insomma, del periodo (fatidico, duro, spietato, ma anche allegrissimo) del Dottorato (quando alcuni fine settimana decidevo di staccare il cellulare, di non controllare le email, di rinchiudermi in camera e di dire “addio” temporaneamente alla mia fidanzata per tuffarmi nella scrittura accademica del tomo di 300 e passa pagine che poi sarebbe diventata la mia tesi dottorale).

Fa un certo effetto rivederli a distanza di (almeno) 2 anni: c’è la prof. che è improvvisamente imbiancata (effetto dovuto alla dismissione dell’abitudine di tingersi i capelli di nero); c’è il prof. che si è lasciato crescere una barba bianca a metà strada tra Padre Pio e Babbo Natale; c’è la collega che prova a nascondere le rughe dietro uno spesso strato di cipria (o di ombretto o di come diavolo si chiamerà quell’intruglio che molte donne adottano per mascherare i difetti della pelle: mascara? Bah! In materia sono del tutto incompetente).

Insomma, l’effetto è molto simile a quello che constata Marcel nell’ultimo volume della sua Recherche, in una delle ultime scene apocalittiche o più strettamente malinconiche di tutta l’opera, quando, in una delle ennesime riunioni mondane, si imbatte in vecchie conoscenze e amiche d’un tempo, ormai diventate donne mature o pensionate in una fase di tracollo fisico inarrestabile… E quando poi mi fermo a contemplare da vicino certi volti acciaccati dall’azione del tempo non posso fare a meno di pensare che se loro sono così per me, se loro appaiono così malridotti ai miei occhi, allora anch’io devo apparire così per loro, anch’io devo sembrare loro molto invecchiato…anche se sono passati soltanto (si fa per dire) 2 anni…

Ed entrando in un bagno al secondo piano, guardandomi allo specchio, penso che è proprio così: sono aumentate le rughe attorno agli occhi e ne sono spuntate un paio sottili sulla fronte; ho le occhiaie scure quasi tutti i giorni (continuo a dormire troppo poco, per le ore di lavoro cui sottopongo il mio povero corpo); ho molti meno capelli di una volta, anzi, ormai le stempiature si stanno allargando a macchia d’olio alla conquista di uno spazio che, 2 anni prima, non era mai stato attaccato dalla calvizie; il naso mi sembra ingrossato; la pelle del collo mi sembra più afflosciata; la pancetta è una realtà che non posso ormai più nascondere né a me stesso né alla bilancia né alla mia cara compagna di avventure; ogni tanto mi tremano le dita della mano destra, un tremolio strano, assurdo, per me inspiegabile, che mi fa pensare al peggio…

Ma siamo a Milano, a un congresso internazionale, siamo qui per dotte disquisizioni, ma anche per rammentare i bei tempi passati e per parlare dei nostri spledidi (e sensatissimi) progetti futuri; ovvia, non ci si può abbandonare alla depressione proprio in questi 4 giorni che dura il congresso, dobbiamo ridere e sorridere, nei limiti del possibile.

E allora si va a cena tutti insieme in una sorta di navata industriale riabilitata a ristorante e sita nei pressi di Segrate o di Sesto San Giovanni (Segrate, Linate, Lombrate, Orio al Serio, Brescia, Bergamo, Milano 2, Maranello, sono tutti termini che indicano luoghi che io credevo nemmeno esistessero, perché per me erano solo nomi che sentivo pronunciare da Mike Bongiorno in televisione, e invece, caspita, esistono davvero, sono reali e mi fa impressione leggere i cartelli che ne annunciano la presenza); ci si siede coi colleghi favoriti; si ride e si scherza, qualcheduno comincia a raccontare barzellette sconcie (gli ordinari e gli associati adorano questo tipo di barzellette), qualchedun’altro, invece, anche per l’effetto del vino, comincia ad ammiccare verso la scollatura generosa del vestito di qualche altra collega più giovane, magari una ricercatrice confermata da poco, e altri ancora afferrano il microfono di uno scenario pseudo-teatrale predisposto in un angolo dell’enorme navata e comincia a cantare “O sole mio”, canzone che stona decisamente con il contesto in cui ci troviamo, perché, si sa, a Milano il sole è un fenomeno piuttosto raro, la nebbia ci circonda dalle 7 del mattino (che è quando ci si alza) fino alle 17 del pomeriggio (che è quando a Milano il sole tramonta, almeno ora, che siamo a fine Novembre, dopo, chissà, sparirà ancor prima).

Milano è enorme, come Roma, ma è decisamente meno ospitale di Roma; non ci sono panchine per sedersi o rilassarsi, o almeno, io non ne ho viste (sì, ci sono almeno due grossi parchi in città, due polmoni verdi in cui è possibile fare sport o farsi anche una pennichella, ma da Sesto San Giovanni alla Stazione Centrale non ho trovati molti angoli adatti al relax); la gente è molto più cupa e stressata e meno sorridente che nella capitale; rispuntano i soliti pregiudizi e un docente sul punto di andare in pensione fa la solita battuta: “La Borsa a Roma non potrebbe mai fuzionare, è per questo che l’abbiamo qui da noi”. E comincia con la solita solfa: Roma ladrona, nessuno paga le tasse, tutti evadono il fisco. Gli racconto di mio fratello che è avvocato e ha uno studio vicino a Piazza Cavour e del fatto che, a quanto dicono le statistiche, gli evasori fiscali del Nord si equivalgono quasi a quelli del Sud e del Centro. Ci guardiamo in cagnesco; non credo che voti Lega ma già mi sta sulle palle e io a lui, l’antipatia è reciproca e si tasta nell’aria. Una mia amica, ricercatrice confermata di Vercelli, cambia argomento. Iniziamo a criticare questa mania di addobbare le città con le decorazioni natalizie quando manca ancora un mese al Natale. Progetto per l’indomani una spedizione alla Coop. Anch’io sono contrario agli addobbi natalizi anticipati. Ma quando varco la soglia del supermercato mi rendo conto di quanto mi manchi l’Italia (questo paese assurdo pieno di bellezza e pieno di difetti ancestrali che sembrano incurabili e quasi inevitabili): sniffo il Caffè Lavazza; soppeso le mozzarelle di bufala campane doc; tocco tutti i triangoli di Parmigiano Reggiano che mi è possibile toccare senza dare nell’occhio; guardo estasiato le cataste di pandori e panettoni, assaporando in anticipo il piacere che proverò a tornare dai miei per la Vigilia…

Si invecchia, ma certi vizi non ci abbandonano mai; fanno parte di noi; sono parte del nostro bagaglio e del nostro DNA.

Ci riabbracciamo con la promessa di rivederci al prossimo congresso internazionale; questa volta Sud, per favore, sussurra un’amica bionda originaria di Cassino; e un’altra le fa eco: Napoli! Oppure la Sicilia! Io voto Palermo o Catania…


Ci diamo la mano; ci diciamo d’accordo; ci allontaniamo, chi in direzione di Orio al Serio, chi di Milano Linate, chi della Stazione Centrale. Ognuno torna ai suoi posti di combattimento. Io torno in Spagna, con la sensazione di aver lasciato qualcosa di prezioso nella capitale del Nord e con la voglia di tornare a sentire il dialetto abruzzese del paesino in cui sono nato, con la voglia di tonare ad assaporare l’aria di casa…

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...