viernes, junio 29, 2012


FONDAMENTALE FONDAMENTA DEGLI INCURABILI, DI IOSIF BRODSKIJ




Che libro fantastico, che lettura impressionante, che ritmo avvolgente, che stile lirico, che opera geniale è questo piccolo, ma densissimo testo del russo Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili (Milano, Adelphi, 1991 – scritto nel 1989 e rivisto e ampliato per l’ed. italiana)!

Erano anni che non mi capitava di leggere un’opera di questo spessore e di cotale tenore; forse è il miglior libro che abbia letto negli ultimi 10 anni… E proprio per questo mi è quasi impossibile (o è molto complicato) per me dire le ragioni di questo primato, spiegare (soggettivamente) perché questo è un libro per me fondamentale…

Fondamenta degli incurabili è un libro sul viaggiare: chi narra è l’io dell’autore, uno scrittore russo che insegna all’Università in America e risiede a New York, ma che, appena può, fugge in Italia, a Venezia, la città che lo ha stregato fin dal primo incontro.

Ed è anche un libro sull’amore: quello di questo scrittore “esiliato” (o perennemente “nomade”) con la città lagunare e quello che sembra affiorare tra le pagine dell’opera (in progress – metà romanzo, metà autobiografia e, in alcuni brani, saggio sull’arte non solo veneta e non solo italiana) ogni qualvolta chi narra si riferisce a una donna con gli occhi “senape-e-miele” chiamata “la visione” o anche l’“unica-persona-che-conoscevo-in-tutta-la-città”…

Ed è anche un libro sulla scrittura e sui rapporti che questa, inevitabilmente, intrattiene sia con il tempo sia con il ricordo (e la memoria del passato). Il lettore è qui convocato a partecipare al viaggio che la mente e l’occhio dell’autore fanno all’interno di due labirinti: quello fisico di Venezia (con le sue mille calli e canali e chiese e musei e piazze nascoste e facciate orientaleggianti) e quello mentale di chi narra e ricorda e riflette, con ironia, intelligenza, apparente distacco, evidente partecipazione emotiva…

Ci sono pagine, all’interno di Fondamenta degli incurabili, che sembrano pura poesia; e altre, invece, che suonano come un pezzo di filosofia alla Walter Benjamin (o alla Ludwig Wittgenstein), cioè: filosofia “a sprazzi”, fatta di frammenti, piccole illuminazioni che accendono una scintilla nella mente del lettore e lo fanno volare alto, lontano dalla terra ferma, verso l’infinito (e oltre), come in un film di fantascienza…

Ecco, è questa commistione di “amore” (inteso come “passione” irrefrenabile, quasi auto-distruttiva, verso qualcosa o qualcuno) e di “riflessione” (intesa come “desiderio di scavo interiore” a partire dalla contemplazione attenta e osservazione ingegnosa di spazi fisici reali o di oggetti quotidiani perfino banali – le mura di una casa fredda durante l’inverno, i comignoli dei camini, le finestre da cui s’intravede il lusso di chi vi abita, la nebbia che tutto confonde, i vestiti acquistati senza motivo) a creare quello strano periodare di Brodskij, quel suo affascinante modo di accumulare frasi e immagini, parole e suoni…

D’altronde, Brodskij è chiaro, sin dalle prime pagine, in merito al suo scopo (o tentativo letterario) e noi non possiamo non essere felici per un programma del genere:

“Io non sono un essere morale (anche se tento di tenere la mia coscienza in pareggio) o un saggio; non sono un esteta né un filosofo. Sono soltanto un uomo nervoso […]. Come ha detto una volta il mio amato Akutagawa Riunosuke, non ho principi; tutto quello che ho sono nervi. Le pagine che seguono, quindi, hanno a che fare con l’occhio piuttosto che con qualche convinzione, comprese quelle sul modo di gestire un racconto. Avendo rischiato l’accusa di depravazione, non batterò ciglio a quella di superficialità. Le superfici – cioè la prima cosa che l’occhio registra – sono spesso più eloquenti del loro contenuto, che è provvisorio per definizione, tranne, si capisce, nella vita dopo la vita” (id., p. 22, sottolineature mie).

Un gran libro, una lettura affascinante, uno sguardo su chi siamo, questo fondamentale Fondamenta degli incurabili.

lunes, junio 25, 2012


CINE-FILIE

La cinefilia è una passione strana e stramba ed estrema; il cinefilo è un essere anomalo, uno che vede nei film anche quello che il regista non ha mai e poi mai immaginato di riflettervi (o inquadrarvi). Il cinefilo di razza è chi riesce a mettere a soqquadro il quadro cinematografico, al fine di squadrarlo fino dove l’occhio umano può arrivare…

Io non sono (e non mi reputo) un cinefilo, però sono amante del cinema di qualità, di quello che “dà da pensare” (non solo di quello puramente “spettacolare”). Il massimo è quando un film che è “spettacolare” dà anche molto da pensare…

E allora uno si fissa, si ossessiona, si concentra su dettagli apparentemente banali, o sciocchi, o stupidi, o secondari… ad una prima visione.

Prendiamo i fari della navicella in questa inquadratura tratta da 2001: A Space Odyssey (1968) di Stanley Kubrick (uno dei miei registi preferiti):



Si vede chiaramente che si tratta di “effetti speciali” (nemmeno poi così tanto “speciali”, in questo caso particolare). Eppure, colpisce la luce che emettono questi due piccoli fari, come se la navicella fosse un’automobilina messa lì, a vagare nello spazio (stellare) senza meta (o senza freni). Questa è un’inquadratura perturbante perché ci mostra – come voleva Freud – la “non-familiarità” di un oggetto che dovrebbe risultarci “familiare”: i fanali delle auto, qui applicati al cofano di un’astronave in miniatura dotata perfino di piccoli ganci per afferrare (cosa? Non si sa, per ora…). I fari illuminano come nella notte buia, solo che qui il buio è spaziale, intervallato dalla luce che emettono le stelle (e gli altri pianeti – la Luna e la Terra, che qui non si vedono, sono fuori dall’inquadratura). Chi, invece, risalta per i suoi colori e per il fatto d’essere ben visibile è l’omino con la tuta gialla, uno dei poveri astronauti che, nell’impari lotta contro HAL 9000, finisce – per sempre – fuori strada e si perde letteralmente nello spazio… E allora, guardando bene le braccia meccaniche della mini-astronave uno realizza subito che è l’uomo l’oggetto che non si è riusciti ad afferrare… è l’essere umano che ha perso la strada e il compagno che si trova all’interno dell’ “auto” non potrà più salvarlo e riacciuffarlo… E’ come se Kubrick ci mostrasse la vanità e la vacuità dell’uomo in quanto “scienziato”: puoi pure riuscire ad atterrare su Giove; puoi perfino organizzare viaggi spaziali sulla Luna; ma le tue macchine (cfr. il braccio meccanico dell’astronave più grande che si vede sul lato sinistro dell’inquadratura) non riusciranno mai a dominare il Cosmo; tu uomo sei solo un piccolo essere che viaggia nello spazio con i fari accesi, ma la luce è fioca, in confronto al resto… quei fari, quei piccoli fanali, non illuminano che poche decine di metri, nel buio stellato dello spazio infinito...

Dalla fantascienza kubrickiana passiamo alla Storia recente, la Guerra del Vietnam… Quando guardo attentamente quest’inquadratura, tratta da uno dei miei film preferiti (se non IL preferito in assoluto), e cioè, Apocalyspe Now (1979) di Francis Ford Coppola, mi domando subito: ma quanta umidità, quanto caldo asfissiante avranno patito tutte quelle comparse, per questa che è la scena che segna l’inizio della fine?



Ciò che più colpisce l’occhio dello spettatore, in quest’inquadratura – oltre al numero cospicuo di comparse – è il mix dei colori: dal grigio del fumo (il napalm che gli americani usano a profusione per fare maggiori danni tra le fila dei vietcong) all’azzurro smorto (o verde opaco) dell’acqua del fiume (che porta il capitano Wilard al cospetto del folle Kurtz), dal verde degli alberi e delle palme, al rosso dei fuochi accesi… E’ l’Inferno (dantesco), viene subito da pensare, davanti a quei due leoni, quelle due enormi statue che sembrano essere disposte a difesa di un regno in cui prevale la violenza e la follia, il sangue e la morte (cfr. il corpo appeso dell’indigeno in alto a destra – solo uno dei tanti cadaveri che i soldati americani guidati da Wilard incontreranno lungo il camino – e di qui a poco c’è la scena o campo medio in cui Wilard scopre che la collina a lui di fronte è cosparsa di teste di indigeni o con la testa mozzata o con il corpo conficcato nel terreno…). Emana umidità e caldo, mosche e odore di morte, un’inquadratura come questa… e anche sproporzione tra: la piccolezza della barca su cui viaggiano Wilard & co. e la maestosità del luogo difeso a spada tratta da tutte quelle persone (poco dopo lo spettatore scoprirà con stupore che, tra quei “selvaggi” c’è anche un “civile” americano, il folle foto-reporter impersonato da Dennis Hopper). La nave appare come una piccola barchetta pronta a finire in mano a quell’esercito di selvaggi, qui armati non di semplici archi e frecce, ma di mitragliatrici e fucili (le stesse armi dei marines americani).

E a proposito di “umidità”: guardiamo questa terza immagine, tratta da Antichrist (2009) del folle Lars von Trier (tra i registi più sperimentali e discontinui – in merito ai risultati – degli ultimi anni):



L’inquadratura ci mostra il primo piano della bravissima protagonista femminile, Charlotte Gainsbourg, mentre si fa una doccia: ciò che colpisce, però, è che l’acqua sembra provenire dall’interno del corpo della donna o sembra colpirla da dietro o da davanti, un getto anomalo, come si può dimostrare anche nell’inquadratura successiva, questa:




Un’inquadratura di una sensualità assoluta, in cui si vede anche il compagno della donna, quel Willem Dafoe preda di allucinazioni assurde e che si spinge a torturare la compagna e ad auto-flagellarsi per espiare non si sa bene quali gravissimi peccati… Ora, al di là dell’inverosimiglianza o meno della sceneggiatura, colpisce comunque la capacità che ha il regista (anche solo in questo paio d’inquadrature) di trasmetterci l’idea del “sovrannaturale”: il getto d’acqua è anomalo perché sembra scrosciare sui due attori in modo surreale, dal basso, più che dall’alto, o dai lati… E poi c’è l’idea dell’amore romantico (e, perciò, anche “estremo”): la faccia che fa Charlotte Gainsbourg è eloquente perché ci ricorda che chi ama davvero si sfigura, diventa un altro, assume tratti “nuovi”; e quando i due sono insieme, e stanno facendo sesso, la trasfigurazione o trasformazione è di entrambi (con una smorfia che, più che di goduria, sembra di dolore – quello stesso dolore – autodistruttivo – che il film s’impegna a mostrarci a volte fino ad arrivare al disgustoso, o al disturbante).

Dai fanali di Kubrick all’atmosfera umidiccia di Coppola siamo arrivati all’acqua scrosciante e “sovrannaturale” di von Trier. C’è un’ultima inquadratura che mi colpisce, ultimamente, ed è questa:



  
Si tratta de L’année dernière à Marienbad (1961) di Alain Resnais, uno dei film “cult” della rivoluzione della cosiddetta “nuova onda” o nouvelle vague del cinema francese di quegli anni. Come tutti (o quasi) i film di questa generazione (di registi e critici letterari – non dimentichiamocelo mai: i vari Truffaut, Godard, Rohmer, prima che registi furono critici e studiosi – o storici – del cinema) anche questo capolavoro parla di cinema, è un film sul cinema e, quindi, per traslato, sul “vedere” (su che cosa significa “guardare” la realtà). Si tratta di una specie di mise en abyme, ovvero, e in termine tecnico, di un classico esempio di recadrage: l’inquadratura è composta da un quadro all’interno di un altro quadro, qui, lo specchio che, sulla destra dell’immagine, inquadra la donna che cammina presumibilmente verso l’uomo che guarda la donna inquadrata dallo specchio… Come nel famoso quadro Las meninas di Velázquez, lo specchio crea un “gioco degli sguardi” in cui lo sguardo stesso dello spettatore viene subito coinvolto e invischiato, come in una ragnatela di punti di vista e prospettive ambigue o distorcenti… Chi guarda chi? La prima risposta sembra logica (e l’abbiamo già data): l’uomo guarda la donna che avanza verso di lui; in realtà, quest’inquadratura ci suggerisce una seconda risposta: noi spettatori guardiamo l’uomo che guarda la donna proprio grazie allo specchio che si frappone tra i due; e lo specchio diventa subito il segnale di una realtà che l’apparenza non riesce a nascondere: questi due esseri umani sono separati e distanti tra di loro non solo e non tanto fisicamente, quanto sentimentalmente. E questo lo si capisce non solo seguendo la “trama” (totalmente disgregata all’interno del film), ma anche concependo lo specchio come un elemento che riflette la distanza tra i due (cfr. anche lo sguardo alquanto cupo o preoccupato della donna che avanza). Insomma: lo specchio ci dice – implicitamente – che questi due non si amano più o hanno appena smesso di amarsi… La donna potrebbe fermarsi o uscire di scena (sia dallo specchio sia da una porta, quella che s’intravede – con tanto di maniglia – dal lato sinistro dello specchio stesso)…

La cinefilia a volte ti porta a guardare cose che prima non avresti mai notato… è una specie di mania, o di visione maniacale, di mono-mania, o osservazione assurda dei 26 fotogrammi al secondo che vengono proiettati sullo schermo.

miércoles, junio 20, 2012


Istanbul



“Viaggiare, perdere paesi”, scriveva in qualche suo racconto Enrique Vila-Matas, citando (forse) il portoghese (e cittadino del mondo) Fernando Pessoa… Viaggiare, perdere paesi, conoscere gente nuova, entrare a contatto con nuove culture, lingue diverse dalla tua (la lingua madre, perché “appresa” come s’impara a succhiare il latte dal seno materno), tradizioni a te sconosciute, angoli di strade e tramonti sul mare mai visti prima…

Viaggiare per me è fondamentale: non più soltanto una piacevole abitudine o una sorta di routine legata al lavoro che faccio (quest’anno, ad es., per partecipare alle varie conferenze, ho potuto viaggiare da Bruxelles – e scoprire il Belgio – a Coimbra e Lisboa – e vedere per la prima volta il Portogallo; da Madrid – l’amata seconda patria – a Trento – che, pur essendo Italia, era una città che non avevo mai visitato prima), ma anche una necessità, una specie di bisogno fisiologico, quando sto troppo tempo fermo o troppo tempo in Italia, il paese complicato cui appartengo, volente o nolente…

E così, mentre prendevo l’areo per Istanbul (il mio primo viaggio in Turchia), sottolineavo le prime righe de Gli accampati di Silverado, un libro semi-sconosciuto di Robert Louis Stenvenson (tradotto in italiano da Attilio Brilli per Studio Tesi), un libro strano e che sembra scritto da una sorta di Herny James con il pallino per i viaggi  nei posti più esotici e desolati della Terra, un libro che si apre con la seguente epigrafe:


Devi renderti conto che sarò un nomade fino alla fine dei miei giorni. Non sai quanto l’abbia desiderato ai vecchi tempi, quando correvo a vedere i treni in partenza e agognavo andarmene con loro. Ora sai che devi considerare come parte integrante di me questa propensione alla vita errabonda. Sarò sempre un girovago


E’ Stevenson, proprio lui, l’autore del famosissimo Dr. Jeckill and Mr. Hyde, dell’ultranota The Treasure Island, a parlare, rivolgendosi per lettera a sua madre.
E mentre passo dal lato orientale della città (Anatolia) al lato occidentale (Europa), e attraverso il Bosforo con il traghetto, penso anch’io: “Sarò sempre un girovago”, anche quando non avrò tanti soldi per girare (allora, viaggerò con la mente – sono proprio un “sentimentale”, stasera…).

Istanbul è una città bellissima, popolata da 18 milioni di persone, ricca di colori, profumi, sapori e… macchine. Traffico a ogni ora del giorno e della notte, Istanbul non dorme mai (come New York); la gente prende il tè come noi il caffè, ogni occasione è quella buona… La gente è giovane (non sospettavo che la capitale fosse così giovane e giovanile) e tutti si divertono: a Istanbul il lungomare è pieno di alberi per ripararsi dal sole cocente e di parchi con i campi da baskett; Istanbul vive e si muove con te, di giorno e di notte, come un animale smanioso che non trova pace.

Mi domando se Stevenson sia mai arrivato a visitare la Turchia, lui che è andato a fare il viaggio di nozze a Silverado, nella California del vecchio west, tra capanne diroccate di minatori ormai morti e gran canyons spaventosi, prima di finire i suoi giorni nell’isola di Samoa… Avrebbe di sicuro apprezzato i traghetti che solcano il Bosforo, i tanti minareti contornati dagli altoparlanti usati dai muezzin per la preghiera (e richiamare all’ascolto i fedeli) cinque volte al giorno, con cadenza matematica; e avrebbe di certo apprezzato la Moschea Blu e Santa Sofia (che prima di diventare moschea era basilica romana), i venditori ambulanti e i venditori di castagne (in pieno Giugno e con una temperatura che supera i 35 gradi centigradi all’ombra); sarebbe di certo rimasto colpito – come me – dalle donne musulmane che indossano il velo e da quelle più “estremiste” che girano per strada vestite di nero e col burka – una striscia di stoffa bucherellata all’altezza degli occhi per non inciampare o cadere; e si sarebbe chiesto, forse – come mi sono chiesto io – se queste due giovani studentesse col velo colorato che mi stanno sedute di fianco sul minibus hanno anche il profilo su Facebook, visto che sono tanto svelte ad usare i loro cellulari ultramoderni per mandare email e scambiarsi messaggi istantenei con le loro amiche e ascoltare che musica (che tipo di musica ascolteranno?).



Istanbul è una città in perenne movimento e che, allo stesso tempo, invoglia alla sosta, alla pausa, alla contemplazione: invita a prestare attenzione alle varie moschee; ai tramonti sul mare; alla gente che prende il tè e fuma, con calma e senza fretta, con il sorriso sulle labbra e la voglia di chiacchierare, nonostante il traffico, il caos, i rumori.
Come sarebbe stato il libro di Stevenson che sto sottolineando a matita accanto a un gatto che si è venuto a sedere accanto a me, in questo bar affacciato sul mare, se, invece che a Silverado, si fosse accampato qui, a Istanbul… la città dei kebab, del dürüm, delle spremute d’arancia più buone e succose che abbia mai bevuto in vita mia; la città del ponte di Brooklin sul Bosforo; la città delle ragazze col velo colorato e di quelle che vestono alla moda e fumano Marlboro rosse e hanno tatuaggi vistosi sui polpacci e le braccia e che sembrano volersi mangiare il mondo…

jueves, junio 07, 2012


La Recherche in quanto ragnatela (o cattedrale a pezzi o vestito rattoppato): Gilles Deleuze e il suo Marcel Proust e i segni




Sono pochi i saggi di critica letteraria scritti bene, con un loro ben individuabile stile, e in grado di aprire nuovi orizzonti, di avvicinarci a una data opera o all’opera omnia di un dato autore e permetterci di guardarlo e di leggerlo con occhi “nuovi”, con “nuove lenti” (la metafora oculistica della lente e degli occhi, del telescopio e del microscopio essendo particolarmente cara – in questo specialissimo caso – sia all’autore del saggio, Gilles Deleuze, sia all’autore oggetto di studio, Marcel Proust).

Ebbene, il filosofo “postmoderno” Deleuze riesce in questa duplice impresa (scrivere bene e farci comprendere meglio e con nuovo sguardo la materia delle sue indagini) con il suo Marcel Proust e i segni (la prima edizione uscì nel 1964 – e se si riflette sulla data, sembra impressionante quanta voglia ci sia, da parte del filosofo, di superare lo strutturalismo nascente di quegli anni con una visione globalizzante che riesca a fare a meno di tutti quegli schemi e schemini, diagrammi ed equazioni tanto tipici della critica pronta a salire alla ribalta di lì a pochi mesi… [le citazioni le traggo dall’ed. italiana, Torino, Einaudi, 1986]).

Chi ha letto la Recherche e ama Proust potrebbe anche non trovarsi del tutto d’accordo con le intepretazioni globali dell’opera proposte dall’autore; ma credo che nessuno potrà sottrarsi facilmente al fascino che esercitano queste stesse interpretazioni; anche perché, questo va detto e sottolineato con l’evidenziatore: Gilles Deleuze è convincente, quando vuole dimostrare una sua teoria. E tu ti senti di dargli ragione, di appoggiarlo e sottoscrivere ogni sua parola, quando teorizza ciò che lui è riuscito a vedere all’interno di quel mare magnum che è la Recherche

Primo mito che Deleuze sfata: all’interno del capolavoro proustiano, non è la memoria (volontaria o involontaria che sia) ad avere il ruolo di protagonista, bensì la ricerca: la Recherche mette in scena (a volte in modo cinico, altre in modo quasi umoristico, più spesso con tono malinconico) le disavventure della conoscenza di uno scrittore in potenza che non sa o non riesce di primo acchito a “tradurre” la realtà esterna che lo interessa e lo attira. Marcel ha in mente diversi progetti artistici, ma non sa bene da dove e come cominciare. Marcel ha l’occhio acuto per “leggere” attraverso i corpi delle persone che frequenta, sa "leggerne" l'anima, ma deve “perdere” un sacco di tempo, prima di arrivare a conoscerle davvero. Marcel s’innamora e si dispera per amore, ma deve passarne di cotte e di crude prima di arrivare a dedurre alcune “leggi universali” legate ai sentimenti umani quali l’amore (o l’odio, l’invidia, la gelosia, la sete di vendetta – cfr. La prigioniera, enciclopedia sintetica e affascinante dei principali “peccati” di Marcel).

E poi c’è la storia dell’unità dell’opera: non esiste, non c’è, quando Proust comincia a scrivere; l’unità della Recherche è un’unità parziale e totalmente in fieri; anche in questo caso lo scrittore erige la sua cattedrale ben consapevole del fatto che: a) può crollare da un momento all’altro; b) i materiali che la compongono (i vari capitoli, i vari libri, i vari personaggi e le molteplici digressioni, riflessioni, aneddoti, riferimenti alla realtà contemporanea, trame e sottotrame, etc.) non possono non essere che eterogenei; c) gli diventa perciò quasi impossibile costruire a posteriori una teoria del romanzo di forma compiuta (cfr. tutte le riflessioni di Deleuze sull’opera d’arte in quanto “macchina” per produrre emozioni nel lettore, e in quanto “dispositivo” che genera nuove visioni – e più leggo Deleuze e più intuisco che solo uno che ha scritto due saggi sul cinema come Immagine-tempo e Immagine-movimento poteva permettersi il lusso di ragionare su Proust in questi termini…).

Dalla metafora della “cattedrale”, dunque, o da quella del “vestito”, si passa a quella della “cattedrale a pezzi” e del “vestito fatto di rammendi”: Proust in quanto scrittore non-programmatico, ma che si lascia attirare dalle mille (e una notte) di spunti, emozioni, ricordi, appunti sparsi e digressioni varie che gli provengono dai due “côtés” e che mette in moto una macchina che sembra non fermarsi mai e di fronte a nulla… Fino ad arrivare alla metafora della “ragnatela”: la Recherche come organismo che si fa nel tempo, che riflette sul tempo, che cerca di catturare le verità estraibili o intuibili dal tempo, inglobando tutto ciò che attira la “ricerca” a-sistematica e a-filosofica del narratore-protagonista…

Concludo: non ricordo bene se fu proprio Francesco Orlando (altro sottilissimo ed acuto lettore della Recherche) a consigliarmi questo saggio di Deleuze; non ricordo bene se fu lui a dire che Marcel Proust e i segni era uno dei pochi tentativi riusciti di “analisi globale” e non banale della Recherche; sta di fatto che, a lettura terminata, non posso non essere d’accordo con Orlando; e non si può non essere d’accordo con Deleuze, quando, come nella citazione che ricopio qui sotto, ti dice tante “verità” nello spazio ristretto di una paginetta:

“L’essenziale nella Ricerca non è la memoria e il tempo, ma il segno e la verità. L’essenziale non è ricordare, ma apprendere. La memoria infatti non vale se non come una facoltà capace d’interpretare certi segni, il tempo non vale se non come la materia o il tipo di questa o di quella verità. E il ricordo, ora volontario ora involontario, interviene soltanto in momenti precisi dell’apprendimento, per contrarne l’effetto o per aprire una nuova via. Le nozioni della Ricerca sono: il segno, il senso, l’essenza; la continuità degli apprendimenti e la subitaneità delle rivelazioni. Riconoscere in Charlus un omosessuale, è cosa che sbalordisce. Ma occorreva la maturazione progressiva e continua dell’interprete; e poi il salto qualitativo in un nuovo sapere, un nuovo campo di segni. I Leitmotive della Ricerca sono: non sapevo ancora, dovevo capire in seguito; ed anche: non m’interessavo più appena cessavo d’apprendere. I personaggi della Ricerca non hanno importanza se non in quanto emettono segni da decifrare, sopra un ritmo del tempo più o meno profondo. La nonna, Françoise, la signora di Guermantes, Charlus, Albertine: ognuno di essi vale solo per quello che apprendiamo da lui” (id., pp. 84-85).

viernes, junio 01, 2012


Strange days



Sono giorni strani, questi giorni miei... Di malinconia per i terremotati del Nord (con - nel ricordo - le immagini ancora vive e vivide dell'Aquila – il mio paese sui monti abruzzesi dista appena 40 km da AQ) e di nostalgia per la donna amata che si è rifatta una vita e che ha ancora la pazienza di sopportare le mie email in perfetto stile "Ti ricordi quella volta che...?", di incontri inaspettati e, soprattutto, di re-incontri strambi con persone che credevo di aver perso per sempre.

Mentre ascolto la bellissima canzone di Lisa Hannigan What I'll do (consiglio di mia sorella), ripenso alla panchina sotto casa, una panchina spuntata quasi per caso e che ha ci ha colti tutti di sorpresa, nessuno dei miei coinquilini (e delle persone che abitano nel palazzo di fronte) si aspettava una simile novità: una panchina, di legno scuro, con i piedi di metallo manierati e ben piantati nell'asfalto... Ma come mai? A che serve una panchina in mezzo al marciapiede con vista (panoramica?) sui bidoni dell'immondizia? Per riposarsi dopo aver gettato le buste? Per inalare il cattivo odore? Per chiedere l'elemosina ai passanti? Qual è la funzione di una simile panchina in un posto come questo?

E poi passa una settimana e uno torna dall'Università, stanco morto, e scopre (con sorpresa raddoppiata, rispetto alla prima volta) che la panchina non c'è più, l'hanno sradicata, si vedono ancora le orme dei piedi di metallo tolti dal cemento e dall'asfalto del marciapiedi, e pensa: una panchina ballerina, Giuda ballerino!

Strani giorni davvero, questi, quando ci si ritrova a pranzare a mensa con Nadine, collega tedesca che insegna Letteratura Tedesca, bionda e occhi azzurri (come vuole il canone nordico), bella e simpatica, capace di sprazzi di allegria e di cupa depressione, di risate e di pianti, come una specie di montagna russa umana dei sentimenti...

Parliamo di tutto, a pranzo, io e Nadine, da Goethe a Thomas Mann, da Thomas Bernhard (uno dei nostri autori preferiti) a W. G. Sebald (uno dei nostri autori preferiti), per finire con il porno e il significato della pornografia nell'era di internet. 

E' un argomento che ci prende e ci appassiona entrambi (senza arrossire, nessuno dei due - pensa a cosa vuol dire per un ragazzino di oggi, per un adolescente, nascere ai tempi di You Porn) e la gente ci osserva, ci vede che ci infervoriamo, fino a quando non racconto a Nadine la fantastica "parabola" di Annette Schwartz, sua conterranea e connazionale, una biondina tutta sale e pepe che ha cominciato a 18 anni, dopo essere stata infermiera in un ospedale di non ricordo più quale piccola cittadina tedesca, e ha scoperto le delizie del sesso estremo e si è data (in modo estremo) fino ad arrivare a girare film con i maggiori attori e registi di tutto il mondo, un sogno coronato a suon di orgasmi, una matta vera questa Anette Schwartz, una che ci ha messo l’impegno giusto per raggiungere la vetta e realizzare il suo sogno…

Nadine ride: “Vedo che sei un vero esperto; mi hai messo curiosità, stasera faccio una ricerchina”. E io: “Sì, ma lontano da sguardi indiscreti, mi raccomando, e non dirlo a tuo marito”. E Nadine: “Ma io non sono sposata, non vedi che non ho la fede al dito?” (e sembra quasi un invito, dovremmo vederci più spesso, io e te, sai?).

Oppure il fattaccio legato alla dichiarazione dei redditi; rincaso tardi la notte (sono le 2 circa), dopo una serata passata in uno dei pub più snobbamente letterari ed intellettuali della città e ritrovo – nella cassetta della posta – una bella letterina dell’Agenzia delle Entrate, mio Dio, Dio mio, cos’ho fatto? Perché? Forse che ho sbagliato? Mi arrestano? Avrò diritto ad un avvocato? Io tremo, alla sola idea di aprire la lettera, e così, il giorno dopo scopro che si tratta di un semplice avviso, una comunicazione al cittadino e comunque la cosa mi turba e mi sfogo telefonicamente con mia madre, mamma, lo sai, tu lo sai bene, io le tasse le ho sempre pagate, fino all’ultimo centesimo, ho avuto una paura, e mia madre: ma l’hai fatta la dichiarazione dei redditi? E io: quando si doveva fare? E lei: mi pare entro fine Maggio; e io: mamma, siamo al 30 Maggio!!! E lei: informati, che aspetti!!! E io: e se sono in ritardo, non è che mi arrestano? E lei: ma quanto sei esagerato!!! Domani, piuttosto, svegliati presto e vatti a informare dai sindacati, vai al CAF. E io: io mi sveglio sempre presto!!! E’ che ora sono preoccupato, come faccio? E così mi torna in mente Carla, la mia amica commercialista, quella che l’anno scorso mi ha fatto il 740 e la chiamo, seduta stante, per sapere che ne sarà della mia vita… Carla, come stai? Mi togli un dubbio? Ti prego! Scusami se ti disturbo a quest’ora, ma io devo sapere! E Carla: ma, scusa, cosa devi sapere? E io: entro quando va consegnato il modello del 740! E lei: ma noi l’anno scorso non abbiamo fatto mica il modello del 740, noi abbiamo fatto il modello UNICO e comunque, stai calmo, c’è tempo, si parte da metà Giugno, non devi preoccuparti. E io: grazie, Carla, non so cosa sia l’UNICO, ma ti ringrazio, sei un tesoro, mi salvi! E lei: ma quanto sei esagerato!!!

Giorni strani, fatti di corse al parco con le cuffiette nelle orecchie, musica utile a tenere il passo, ritmo accelerato e poi cadenzato, andiamo a fasi alterne, che nun ci sa più l’età per fare certe cose…

Giorni di attese vane, di persone che tornano dal passato, di amiche che chiedono consigli (quando io sono l’ultimo uomo sulla Terra a poterne dare), di amici che piangono per l’ex che li ha mollati sul più bello, proprio quando loro si stavano facendo una ragione del matrimonio, gente che passa nella tua vita per lasciarti una confidenza intima (devo avere proprio la faccia del bravo ragazzo o di quello bravo ad ascoltare se tutti si sentono in diritto/dovere di usarmi come loro confessore, la gente parla e parla e confessa anche le proprie paure più nascoste e le proprie speranze più vive, e io ascolto e ascolto e non so mai che dire, alla fin fine…).

Poi leggo questa poesia, bellissima, pura e sintetica, di Julio Cortázar (cito solo gli ultimi versi):

Los amantes rendidos se miran y se tocan
Una vez más antes de oler el día.
Ya están vestidos, ya se van por la calle.
Y es sólo entonces, cuando están vestidos,
que la ciudad los recupera hipócrita
y les impone los deberes cotidianos.

Che in italiano potremmo rendere più o meno così:

Gli amanti arresi si guardano e si toccano
Ancora una volta prima di annusare il giorno.
Sono già vestiti, camminano già per strada.
Ed è solo allora, quando sono vestiti,
che la città li recupera ipocrita
e impone loro i doveri quotidiani.

Strange days, those days…

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...