martes, febrero 23, 2010

Film come Paranormal Activity e Avatar, ovvero: della lunga durata al cinema



E' ovvio che anche solo tentare un raffronto (o un confronto, un paragone, una comparazione attenta) tra Paranormal Activity (regia di Oren Peli, USA, 2009) e Avatar (regia di James Cameron, USA, 2009) può suonare assurdo, vano se non, addirittura, fuori luogo. E però (mi) ci provo: perché mi è piaciuto (almeno fino a pochi minuti prima del finale) l'opera prima di Oren Peli? Perché, sfruttando con pochissimi mezzi tecnici la ricchezza semantica e la profondità di campo che può creare un semplice recadrage (inquadratura prodotta all'interno dell'inquadratura più "generale" dello schermo cinematografico - in questo caso specifico, quella che crea la porta lasciata sempre aperta della camera da letto in cui giacciono i due fidanzati protagonisti del film, con lei alquanto "spaventata" e "indemoniata" e lui alquanto "saputello" e "spavalduccio"), Peli riesce a trasmettere l'ansia, la suspense e la paura più pura di un ambiente claustrofobico come può diventare la nostra alcova (o camera da letto) se ce l'immaginiamo infestata da fantasmi o "oscure presenze".


Unico neo: il finale, proprio perché spiega troppo quanto, invece e a mio parere, doveva restare avvolto nel mistero (che poi Peli scelga deliberatamente di girare tre diversi finali; e che poi ognuno dei tre finali proposti finisca con il togliere ulteriore aura paurosa all'intera trama - finale 1: con lei che uccide il fidanzato e torna su, con la telecamera che continua a girare, e dopo ore e ore di dondolio con il coltellaccio insanguinato in mano, si risveglia solo davanti alla luce della torcia del poliziotto accorso per verificare cosa succede in quella casa e, smarrita e senza piena coscienza di quanto ha fatto, si avvicina ai poliziotti e questi le sparano, freddandola per sempre; finale 2: con lei che uccide il suo fidanzato e torna su in camera e, dopo un sorriso inquietante lanciato verso la telecamera, si taglia la gola senza fare una piega; finale 3: con lei che uccide il fidanzato e non torna su; la telecamera continua a riprendere tutto, finché non è il corpo del ragazzo a finire scaraventato addosso alla stessa, che cade e riprende la camera da letto da un angolo tutto storto - è un'altra questione su cui altri, più esperti o appassionati di me, potranno dibattere a lungo). Non era meglio lasciare allo spettatore la libertà d'immaginarsi da solo una spiegazione a quei fatti tanto "paranormali"?

E passiamo all'ultima opera di James Cameron: Avatar è il film che celebra la carriera ormai ventennale di un regista che le storie per immagini sa raccontarle come pochi altri (pensiamo al rivoluzionario Terminator (1984) o a quel piccolo gioiello di claustrofobia fantascientifica che èThe Abyss (1989) o allo stranoto e melodrammatico Titanic (1997) - e se ci pensiamo bene sono solo tre film, pochini, ma tutti ad altissimi livelli, sia per quanto concerne la trama - il racconto - ilplot che li struttura sia per quanto concerne la forma - il linguaggio cinematografico - la tecnica scelta per girare determinate scene; con Avatar fanno quattro film; dimenticavo! C'è pure Aliens -Scontro finale, del 1986, ovvero: il sequel del capolavoro di Ridley Scott; insomma, con soli cinque film Cameron ha fatto bingo, sbancando ai botteghini dei cinema di tutto il mondo e, addirittura, con l'ultimo film, battendo se stesso e il record che aveva fissato con il film sul "Titanic").

Perché non mi ha convinto Avatar? Perché parto proprio dalla pars destruens e non da quella costruens? Non lo so: so solo che, una volta tolti gli occhialini per vedere il formato 3D, ha cominciato a farmi leggermente male la capoccia. Avatar è un film "spettacolare", che coinvolge tutti e cinque i sensi di cui siamo dotati, che spiazza e riempie la retina degli occhi di colori e immagini mai viste prima, ma che, alla fine, sembra più "stordire" che "colpire" in profondità. La storia non è affatto originale; ma questo è un difetto che, se vogliamo, possiamo riscontrare anche in Titanic; il punto è che qui la forma (la tecnica) sembra essere tutta schierata a danno della storia stessa; come dire: gli effetti speciali sovrastano di gran lunga il piano narrativo; e uno si domanda che senso abbia sprecare tanto denaro, dare vita a tanti fuochi artificiali, se poi, quello che più conta al cinema, è raccontare una bella storia nel migliore dei modi possibili.

Insomma, credo che se Avatar resterà negli annali della Settima Arte, sarà più per la sua "forma" che per il suo (già visto e rivisto) "contenuto". Quando, invece, in film come Terminatoro Titanic, la forma è parte fondante del contenuto (è consustanziale allo stesso), come lo spettatore può intuire sin dalle prime scene dei film in questione.

Quanto resisteranno, nel tempo, due film come Paranormal Activity e Avatar? Non lo sappiamo, ovvio, e nemmeno possiamo prevederlo. Io però ancora oggi continuo ad emozionarmi a guardare la scena conclusiva di Tempi moderni (1936) o la scena del "balletto dei panini" de La febbre dell'oro (1925) di Charlie Chaplin...Anche in quel caso si tratta di effetti speciali. O, se vogliamo, di "fenomeni paranormali". Solo che resistono al passare degli anni (o dei secoli). Mentre quelli usati in questi due film sembrano lasciare tracce fin troppo delebili nei nostri cervelli abituati alle immagini più strane e iperrealistiche degli attuali "tempi moderni".

jueves, febrero 18, 2010

Tempus ruit (pare)


Esiste un modo per tornare indietro nel tempo? Perché ci è impossibile rifare il percorso all’incontrario e cogliere quell’occasione che, allora, scartammo e ci lasciammo scappare considerandola pericolosa, rischiosa, troppo alta per le nostre capacità? Il tempo è sempre stato indicato, segnalato e rappresentato sin dall’antichità o come una curva o come una freccia. Tempo ciclico e tempo lineare. Un tempo (il primo) che si ripete all’infinito (il “tutto scorre” eracliteo) e un tempo (il secondo) che ha avuto origine nel momento stesso in cui Dio creò il cielo e la terra e che avrà fine il giorno dell’Apocalisse (quando tutti i morti risorgeranno e, si suppone, non ci saranno più vivi a circolare liberi sulla Terra).

Io vorrei tornare indietro per chiedere scusa a quella persona che tanti anni fa offesi senza nemmeno rendermi conto della gravità dell’offesa. E vorrei poterla rivedere in faccia, osservarne lo sguardo, per dirle tutto quello che avrei detto (e fatto) se fossi stato più attento e meno codardo…

Ma non si può: è contro la logica e contro natura. E il bello dell’essere vivente è che vive finché qualcuno gli da l’occasione di vivere; ossia, siamo animali con vita a scadenza. Prima o poi, l’energia che ci fa camminare (e pensare), che ci fa muovere su questo pianeta e ci fa distruggere il pianeta e noi stessi, è destinata a finire, “non con un boato, ma con un sospiro” (disse T.S. Eliot, se non ricordo male, in The Hollow Men). Sei vivente, ergo sei inserito dentro il tempo, sei permeato e fatto di attimi di tempo che scorrono e che tu, ingenuo, t’illudi di poter cronometrare e conteggiare, quando in realtà, noi non contiamo nulla…mai. E sono inutili gli alambicchi e le ipotesi filosofiche e le teorie scientifiche che tentano di trovare un teorema valido per sempre all’enigma (oscuro per sempre, ontologicamente enigmatico, mi verrebbe da dire, in perfetto stile “Vattimo”). Ci illudiamo di stabilire date; di fissare appuntamenti; di portare l’ora sugli orologi, ma non è così. E’ tutto un’illusione.

Chi sbaglia paga. Se hai perso tempo, nessuno te lo restituisce. Se usi male il tempo, peggio per te. Se allora non ti accorgesti di che cosa era meglio per te, è inutile (perfettamente inutile, direi) accorgersene a distanza di anni, quando si sa che non si può più rimediare. O forse no. Forse si può…quanti dubbi!

L’unica cosa certa è che, in natura, piante e animali nascono, crescono e muoiono senza avere alcuna coscienza dello scorrere dei giorni delle settimane (una pianta non sa quando è Lunedì; nemmeno un cane capisce quando è Sabato o Natale, o no?) o dei mesi e degli anni. Non sanno che siamo nel 2009 (e che tra un mese scarso passeremo al 2010). I loro ritmi biologici sono regolati per lo più dallo scorrere delle stagioni e dall’alternarsi quotidiano di giorno e notte (dal momento in cui il sole sorge a quello in cui va a dormire e tramonta, lasciando spazio alla luna…). Siamo noi, gli umani, ad avere coscienza della nostra stessa mortalità e caducità e, quindi, del nostro Essere in quanto “essere fatti di Tempo” (che Heidegger mi perdoni, ma credo sia così, giusto?). Siamo noi a capire che più le lancette dell’orologio scorrono più si fa vicino il momento della fine definitiva…

Gli scrittori dell’età classica greco-latina ci insegnano a contrastare il “pensiero della nostra stessa congenita mortalità” approfittando sempre del “momento presente”. E’ il famoso topos del carpe diem. Del domani non c’è certezza, è vero, ergo: sarebbe da sciocchi non approfittare di un momento se è un momento di felicità (ma cos’è la felicità? Quante domande!). Giovani lo si è solo nella fase in cui si è anagraficamente giovani (dall’adolescenza ai 20-25 anni), oppure lo si è sempre e solo d’animo, a prescindere da ciò che recita la mia carta d’identità? E se giovani lo si è anche e soprattutto di spirito, anche quando uno dovesse sentirsi giovane e comportarsi da giovane, potrà mai sperare di rivivere esattamente quelle sensazioni vissute quando era giovane solo dal punto di vista dell’età anagrafica? (che razza di domande!).

Certe volte mi sento vecchissimo: a 32 anni, mi sembra di aver vissuto già 3 o 4 vite diverse. Oggi, per esempio, che è il 30 Novembre del 2009 e che mi ritrovo a scrivere queste paranoiche pippe mentali dentro questa che è stata la mia stanza per otto anni e che non lo è stata più a partire dal 31 Dicembre del lontanissimo 2003... Oggi mi sento così vecchio se penso a quel mio “io” giovane che scriveva lettere d’amore romantiche su questa stessa scrivania (che porta, evidenti, i segni del tempo, ma non più di quanto non ne porti io – con qualche capello bianco in più in testa; e meno denti; e più cicatrici sul volto e rughe intorno agli occhi e sulla fronte; e più diottrie, ergo: occhiali dalle lenti più spesse...).

Mi sembra così assurdo e, al contempo, così appassionante, così sorprendente, sapere che 6 anni fa io qui dentro ci studiavo e ci dormivo e ci facevo l’amore, quando oggi non è più così e vivo lontano da Roma, pernotto preferibilmente a Firenze, anche se faccio qualche capatina a Pisa e sogno Madrid una notte sì e l’altra pure e non so se prima o poi tornerò a vivere in pianta stabile nella capitale (e mi farò seppellire davvero al Verano, come dice il mio profilo sulla sinistra di questo schermo) e mi faccio tante, troppe domande, e mi stupisco di essere ancora vivo, nonostante quello che ho vissuto o forse proprio grazie a quello che ho vissuto, scampandola per un pelo tante volte, sognando spesso di arrivare a un punto fermo, quando sembra che di punti fermi non ce ne siano affatto…

martes, febrero 16, 2010

Scuola pubblica italiana, ovvero: la storia di un disastro quotidiano

Ho guardato questa puntata di Presa diretta (andata in onda a San Valentino, su Rai Tre, alle 21,10) sul tema: “La scuola fallita” con il magone e il fiato in gola e, da precario della scuola – oltre che dell’Università – quale sono, non ho potuto non commuovermi, arrabbiarmi e deprimermi non solo e non tanto per quanto il servizio mostra con realismo e coraggio, quanto e soprattutto per l’indifferenza dei più davanti all’argomento “scuola” e “istruzione pubblica”. Il link è questo:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a20d3078-c510-4407-8b63-b616d0695247.html#

La speranza è questa: che ci si svegli, prima di finire davvero nella merda…(vedi sotto la voce: dittatura).

domingo, febrero 14, 2010

Proust e gli oggetti "parlanti"

E' Remo Bodei, nel saggio che ho recensito più sotto (La vita delle cose), a permettermi di inoltrarmi in uno dei molti aspetti curiosi ed ermeneuticamente affascinanti della Recherche: il prof. Bodei parte dalla famosa scena primordiale che apre Dalla parte di Swann (quando il Narratore, adulto, ricorda i momenti che, bambino, precedevano l'arrivo della mamma prima del bacio della buonanotte), per riflettere su come noi percepiamo le cose che ci circondano e su come queste ci appaiono "strane" nel momento tipico del "dormiveglia":

"Mi riaddormentavo e a volte non mi svegliavo più che per brevi istanti, il tempo di sentire gli scricchiolii organici dei legni, d'aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio del buio, di assaporare grazie a un momentaneo barlume di coscienza il sonno nel quale erano immersi i mobili, la stanza, quel tutto di cui io non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo subito ad unirmi" (Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, vol. I, p. 6 dell'ed. Mondadori, 1983, grassetti miei).

L'io si sente parte di un tutto organico; noi siamo cose tra le cose, quando perdiamo (temporaneamente) la percezione della nostra identità sotto i colpi del dio Morfeo. E' solo dopo che l'effetto narcotizzante del sonno è svanito che il Narratore può riconoscere la propria stanza, il proprio letto, la propria posizione fisica nello spazio (e, quindi, anche nel tempo), e ricollocare gli oggetti che riempiono la stanza negli appositi spazi e alle apposite distanze note.

Ma saltiamo alla parte conclusiva di "Combray" (la prima parte del vol. I della Recherche):

"Sapevo in quale camera mi trovavo realmente, l'avevo ricostruita intorno a me nell'oscurità e - orientandomi con la sola memoria, oppure servendomi, come indicazione, d'un debole chiarore che era filtrato e in base al quale sistemavo le tende della finestra - l'avevo ricostruita per intero, arredandola come un architetto e un tappezziere decisi a rispettare le aperture originarie di porte e finestre, riabbassando gli specchi, riportando il cassettone al suo solito posto" (id., p. 227).

E' grazie alla memoria che l'io può letteralmente ricostruire, rimettere in ordine, ridisegnare perfettamente e in linea con la norma gli spazi e gli oggetti (le cose inanimate) che lo circondano abitualmente. La memoria è qui rappresentata plasticamente come una specie di "architetto" o "tappezziere" che mette ordine al caos. Nel corso del romanzo, Proust userà molte altre "metafore" per spazializzare la memoria (in una di queste la paragona a un negozio di fotografie che, nella vetrina, tiene esposte sempre le stesse foto); è curioso, comunque, constatare che sin da ora, sin da questo "momento" della Recherche, la memoria sia presentata come un architetto, un arredatore, un pittore o un tappezziere impegnato nel difficile compito di fare in modo che tutto torni, che gli oggetti occupino un luogo preciso e le cose non siano lasciate in una sorta di limbo in cui - se non stiamo attenti - rischia di galleggiare anche l'io (rimembrante, oltre che narrante).

La citazione di sopra continua per dirci come prosegue l'azione della memoria:

"Ma appena il giorno [...] tracciava nell'oscurità, come col gesso, la sua prima riga bianca e rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava subito il vano della porta dove l'avevo collocata per errore mentre, per farle posto, lo scrittoio, installato là maldestramente dalla mia memoria, scappava velocissimo spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del corridoio; dove, un istante prima, si stendeva la stanza da bagno, regnava ora un cortiletto, e la casa che avevo ricostruita nelle tenebre era andata a raggiungere le case intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga dal pallido segno tracciato sulle tende dal dito levato del giorno" (id. p. 227).

E' come se qui il lettore assistesse ad una scenetta comica: il protagonista ci sta rendendo partecipi del suo stato di dormiente appena tornato alla vita, di dormiente che si è appena lasciato alle spalle il sonno, di dormiente che ha appena aperto gli occhi e ripreso coscienza di sé, del luogo in cui si trova e del tempo che ha passato in quella camera da letto quando ancora dormiva, presentandoci la memoria come una sorta di muratore (oltre che tappezziere e architetto) che, con velocità supersonica, rimette in ordine l'errata primigenia percezione che questi aveva delle cose e degli spazi circostanti. Come se, agli ordini ferrei di un capo distratto - la memoria - gli oggetti si affrettassero a seguirne i dettami e si impegnassero a riprendere ognuno il proprio posto quotidiano, quello che si da per scontato che occupino...

Sembra una scena da un film di Buster Keaton. La scena di un film muto e comico in cui gli oggetti, da inanimati, prendono vita e, guidati da una memoria severa, si organizzano nello spazio per non disorientare l'io che li guarda e li ricorda (in principio) in posizioni del tutto errate o sballate.

Ma andiamo avanti: nella Seconda Parte de All'ombra delle fanciulle in fiore (intitolata "Nomi di paesi: il paese"), Proust (ovvero, il Narratore) torna a far parlare gli oggetti, riprendendo quasi alla lettera la situazione con la quale dava l'avvio alla sua narrazione dell'infanzia e di Combray. Marcel si è trasferito a Balbec, luogo di villeggiatura e di mare, in compagnia della nonna, per curare il suo cagionevole stato di salute. I due affittano due stanze in un hotel. Marcel è appena entrato e perlustra la stanza anonima e fredda dell'albergo, riflettendo proprio su come noi siamo abituati a trattare gli oggetti che ci circondano come se fossero dei fedeli alleati quotidiani che ci aiutano a mantenerci con i piedi per terra; basta cambiarne la disposizione o basta cambiare luogo, perché l'io perda le coordinate spazio-temporali che gli oggetti stessi rappresentano loro malgrado:

"E' la nostra attenzione a mettere gli oggetti in una stanza, ed è l'abitudine a toglierli e a farci spazio. E spazio, per me, non ce n'era nella mia camera di Balbec (mia soltanto di nome), traboccante di cose che non mi conoscevano e che restituirono la mia occhiata diffidente, facendomi capire, senza tener alcun conto della mia esistenza, che io disturbavo il tran-tran della loro" (id., p. 807).

Siamo al colmo: gli oggetti, nella Recherche, non solo fungono da coordinate spazio-temporali per il Narratore che ha intrapreso la ricerca del tempo perduto, ma, come qui, addirittura, si animano per guardare con diffidenza quello stesso Narratore che non li conosce e non li vede come "propri", come parte del suo "ambiente familiare". La citazione continua (e qui, più che a una comica di Buster Keaton, sembra di assistere alla visione di Toy Story):

"La pendola - mentre la mia, a casa, non la sentivo che per pochi secondi alla settimana, solo quando uscivo da una profonda meditazione - s'ostinò a tenere in una lingua sconosciuta, senza un'istante di tregua, discorsi che dovevano essere sgarbati nei miei confronti, giacché le grandi tende viola li ascoltavano senza rispondere, ma con l'espressione di chi alzi le spalle per significare che la vista d'un terzo lo indispone. [...] Ero tormentato dalla presenza di piccole librerie a vetri che correvano lungo le pareti, ma soprattutto da una grande specchiera piazzata trasversalmente alla stanza e a prescindere dalla cui rimozione sentivo che non ci sarebbe stata per me la minima possibilità di rilassamento. Alzavo di continuo lo sguardo - cui gli oggetti della mia camera di Parigi non davano più fastidio di quanto gliene potessero dare le mie proprie pupille, in quanto non erano altro che annessi dei miei organi, un'appendice della mia persona - verso il soffitto troppo alto di quel belvedere posto in cima all'albergo che la nonna aveva scelto per me [...]" (id. pp. 807-808).

Basta un diverso stato d'animo (oltre che un po' d'abitudine) per cambiare questa stessa stanza d'albergo. Il Narratore ha appena fatto la conoscenza (solo visiva, al momento) di Albertine, una delle "fanciulle in fiore" che vivono a Balbec e che stravolgeranno per sempre la sua esistenza, che questi percepisce con un nuovo sguardo e un cuore innamorato quegli stessi mobili e oggetti che, duecento pagine prima, ci ha presentati con toni tanto "grotteschi" e amareggiati:

"Di colpo, la mia camera mi sembrava un'altra. [...] Ed ecco che ricominciavo a vederla, ma, stavolta, da una prospettiva egoistica qual è quella dell'amore. Pensavo che ad Albertine, se fosse venuta a trovarmi, il bello specchio obliquo, le eleganti librerie a vetri avrebbero dato di me un'idea lusinghiera. Non più luogo di transizione, dove passavo solo un momento prima di evadere verso la spiaggia o verso Rivebelle, la mia camera mi ridiventava reale e cara, si rinnovava, perché ne guardavo e apprezzavo ogni arredo con gli occhi di Albertine" (id. p. 808).

Un fenomeno simile (animazione degli oggetti inanimati; personificazione del mobilio della stanza; percezione positiva o negativa di uno stesso luogo, a seconda dello stato d'animo con cui il Narratore osserva lo spazio esteriore) si verifica all'inizio della Terza Parte, La parte di Guermantes (vol. II, pp. 95-103 dell'ed. cit. supra).

Marcel è andato a trovare l'amico militare, Robert de Saint-Loupe, a Doncièrs, e va a dormire nell'Hotel de Flandre, un antico palazzo ristrutturato da poco, per poter stare il più vicino possibile alla caserma di lui. Se, in un primo momento, Marcel ha paura che la stanza dell'albergo gli farà lo stesso effetto di quella in cui ha passato le vacanze a Balbec, in un secondo, e quando inizierà ad esplorarlo in lungo e largo, si adatterà così bene all'ambiente che...i mobili e gli oggetti, le mura e le finestre dell'hotel cominceranno a prendere la parola per "illustrargli" le bellezze del paesaggio circostante:

"Prima di coricarmi, volli uscire dalla camera per esplorare tutto il mio fiabesco dominio. Seguii una lunga galleria che mi fece via via omaggio di tutto ciò che poteva offrirmi nel caso che non avessi sonno: una poltrona sistemata in un angolo, una spinetta, su una mensola un vaso di maiolica azzurra pieno di cinerarie e, in una vecchia cornice, il fantasma d'una dama d'altri tempi, con i capelli incipriati cosparsi di fiori azzurri e, in mano, un mazzo di garofani. Arrivato in fondo, un muro pieno nel quale non s'apriva alcuna porta mi disse con candore: "Adesso devi tornare indietro, ma, lo vedi, qui sei a casa tua", mentre il soffice tappeto, per non essere da meno, aggiungeva che se, quella notte, non fossi riuscito a dormire, avrei potuto benissimo tornarmene lì a piedi nudi, che le finestre senza scuri affacciate sulla campagna avrebbero passato - ne stessi pur certo - la notte in bianco, e che, a qualsiasi ora fossi venuto, non c'era pericolo di svegliare nessuno. E dietro una tenda sorpresi un piccolo gabinetto che, fermato dal muro e non potendo scappare, s'era nascosto in quell'angolo mogio mogio, e mi guardava spaventato col suo occhio di bue inazzurrato dal chiaro di luna". (id. pp. 96-97).

Come dimenticare, d'ora in avanti, quel muro "parlante" che invita il Narratore a sentirsi come a casa sua? Come potrò più scordarmi del tappeto che invita a passarci sopra, a piedi nudi, la notte d'insonnia? O la finestra, pronto ad accoglierci per lo stesso motivo? E che dire di quel gabinetto che, mogio mogio, ci "guarda con occhio spaventato"?

La potenza creatrice dell'immaginazione proustiana è in grado di fare veri e propri "miracoli", come far parlare le cose inanimate; di farle interagire con gli esseri umani; di fare in modo che gli oggetti (come ci insegna Remo Bodei) parlino, e, a chi sappia ascoltarli, comunichino la loro storia personale e più nascosta...

miércoles, febrero 10, 2010

Remo Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009

Con la consueta eleganza e il solito acume, il prof. Bodei ci accompagna in questo saggio alla scoperta del significato degli oggetti che ci circondano e che, in silenzio, fungono da compagni d’avventura in questo viaggio periglioso che è la vita (e il vivere). Un primo punto teorico importante riguarda proprio la definizione di “oggetto”; da distinguere da quella di “cosa” (sembrano sinonimi, ma non lo sono affatto). “Oggetto” (dal latino “objectum”) è quanto “ci sta contro”, una sorta di ostacolo, di presenza fisica che sembra schierarsi “contro” di noi, che sembra sempre sfidare il nostro intelletto; “cosa”, invece, ha la stessa radice etimologica del termine latino “causa”, qualcosa che “riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa (come mostra l’espressione ‘combattere per la causa’)” (id. p. 12).

Come studiare “oggetti” e “cose” in un mondo iper-tecnologico e così saturo di cose come il nostro, dove questi stessi artefatti sembrano essere prodotti per venire sostituiti subito da altri in una specie di “gioco al massacro” secondo il quale, non fai in tempo ad acquistare un nuovo artilugio tecnologico che, dopo due mesi, questo è diventato già vecchio, obsoleto, antiquato?

Uno dei nodi della questione riguarda proprio il rapporto tra gli oggetti e il tempo: nel mondo accelerato in cui viviamo (mondo in cui il presente ha assolutizzato ogni altra categoria temporale), anche gli oggetti sembrano aver cambiato senso e significato per noi che li fabbrichiamo (e li usiamo in fretta e dopo poco li gettiamo via, una volta dismessi dal loro uso quotidiano). Pensiamo anche ai mobili, a come sono concepite le case di oggi (in un mondo in cui il “mattone” è una fonte di ricchezza e in cui lo “spazio” si riduce sempre di più e le “case” sono costruite in modo tale da ricavare il massimo dell’energia e dell’utilità dal minimo dei metri quadrati disponibili, anche i “mobili” non sono più quelli di una volta, per dirla in tono ironico – id., pp. 71-73). I mobili dei nonni venivano addirittura tramandati di generazione in generazione; i matrimoni stessi dipendevano strettamente dai patrimoni di cui erano dotati i singoli capi-famiglia; i vestiti del fratello maggiore passavano in eredità a quelli minori; e così le scarpe, e così via…

L’eccessiva fretta sembra aver contribuito a farci dimenticare che gli “oggetti” in quanto “cose” parlano, hanno molto da raccontarci, se sappiamo ascoltarli; che gli oggetti rimangono in certo modo impregnati della storia (personale) di chi li ha posseduti e della Storia (umana) di chi li ha generati e pensati (questi passi del saggio di Bodei mi fanno pensare subito al primo libro di Claudio Magris: quell’Illazione su una sciabola in cui, appunto, una vecchia spada ritrovata in un terreno abbandonato permette al narratore-cronista-storico di ripercorre una porzione importante della storia recente della Germania condannata al disastro della Seconda Guerra Mondiale…come se da una semplice arma dimenticata tra le zolle fosse possibile riscrivere e rintracciare un passato che – pur essendo prossimo – sembra incarnare un tempo “altro” e “mitico” e, proprio per questo, percepito quasi come “fuori” del tempo cronologico…).

Diventati desueti, finiscono nei solai, nelle cantine, nel banco dei pegni, nei negozi dei rigattieri e degli antiquari, nelle discariche. Ritrovati o comprati, emanano un effluvio di malinconia, somigliano a fiori vizzi che per rinascere hanno bisogno delle nostre attenzioni” (id., p. 30).

Come fare per “ascoltarne” la storia più intima? Chi può redimerli e, applicando quella “meraviglia” che sarebbe uno dei motori primi che ci spinge alla “filosofia” – secondo Aristotele, ma anche secondo Platone – al curiosare, all’indagare le cause prime e primordiali di un certo evento, oggetto, persona se non proprio colui che li guarda, se ne prende cura, e in certo modo l’interroga, come l’artista e il filosofo stesso? Quali “attività” - se non l’arte e la filosofia - si preoccupano di togliere il velo a quelle cose concrete, a volte decrepite, altre solo consumate, che chiamiamo “oggetti”?

E’ questa la pars costruens del saggio: quella che offre (a mio giudizio, in modo a volte anche troppo utopico) la ricetta (o il suggerimento) per fare in modo che gli oggetti diventino “cose” e non solo “prodotti di mercato” che ci sommergono, ci distraggono, che “occupano” lo spazio vitale che abbiamo a disposizione nelle nostre case, facendoci a volte sentire “alieni” a noi stessi (o oggetti inerti in mezzo a oggetti di cui, spesso, si disconosce la natura e l’uso). Guardare gli oggetti come ricettacoli delle storie di chi li ha posseduti; contemplare le opere d’arte che ritraggono gli oggetti più banali e comuni per riflettere sull’Eternità e il nostro rapporto troppo spesso viziato o conflittuale con essa; riflettere sulla caducità degli oggetti stessi, per smettere di avere paura della morte (perché se è vero che gli oggetti ci sopravvivono, è pur vero che noi continuiamo a vivere dentro quegli oggetti di cui ci siamo presi maggior cura e che i nostri figli erediteranno e metteranno da parte – forse – in memoria di noi). Sono solo alcune delle soluzioni al problema (contemporaneo) della contrapposizione tra “organico” e “inorganico”, tra “soggetto” senziente e “oggetti” intelligenti (pensiamo al cosiddetto posthuman o ai tentativi di implantare nei computer sistemi di intelligenza simili al nostro cervello)…

Il saggio offre spunti interessanti anche sul versante propriamente letterario: da Leopardi a Proust, non c’è scrittore che non abbia incluso gli oggetti anche più banali all’interno di una sua opera o di una riflessione personale; da Verga a Paul Celan, non esiste autore che non abbia tratto spunto e che non abbia esercitato la propria immaginazione a partire dalla contemplazione o dalla considerazione attenta di un oggetto qualsiasi (su questo tema è ormai diventato un classico il saggio di Francesco Orlando che ricorda Bodei in nota: il bellissimo (e vastissimo) Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi, 1997).

Un libro agile, questo di Bodei, e che ci spinge a guardarci attorno e a domandarci che ci fanno tutte queste penne, questi giornali, questi libri, queste tazze e questo cellulare su questa scrivania vecchia di vent’anni almeno…E su che fine farò io, dopo che non ci sarò più e queste stesse penne, giornali, libri e tazze e cellulare continueranno a esistere senza il loro legittimo padrone…

sábado, febrero 06, 2010

À une passante: Proust ri-scrive Baudelaire
E’ un po’ di tempo che Alyssa ha smesso di leggere…Il lavoro, lo stress, il solito tran tran quotidiano (come suolsi dire). E così, l’altra sera, prima di spegnere la luce e di addormentarci, prima di dirle “buonanotte”, ho voluto leggerle, ad alta voce, un brano della Recherche (che per me ormai è diventata una specie di droga: ho bisogno di una dose giornaliera, sennò mi sembra che la giornata non sia andata per il verso giusto, come se mancasse qualcosa di fondamentale e prezioso). Il brano è questo (da “All’ombra delle fanciulle in fiore. Nomi di paesi: il paese”, pp. 863-64 dell’ed. Mondadori, Milano, 1983, nella splendida traduzione di Giovanni Raboni):
“Era perché l’avevo solo intravista che mi era parsa tanto bella? Forse. Prima di tutto, l’impossibilità di trattenersi con una donna, il rischio di non incontrarla mai più le fanno acquistare di colpo lo stesso fascino assunto da un paese grazie alla malattia o alla povertà che ci impediscono di visitarlo, o dagli squallidi giorni che ci restavano da vivere grazie alla battaglia in cui certo periremo. Così, se non esistesse l’abitudine, la vita dovrebbe apparire deliziosa a creature continuamente minacciate di morte – cioè a tutti gli uomini. In secondo luogo, se l’immaginazione è stimolata dal desiderio di ciò che non possiamo ottenere, il suo sviluppo, nel corso di questi incontri in cui le attrattive della passante sono di solito direttamente proporzionali alla rapidità del passaggio, non viene limitato da una realtà còlta nella sua interezza. Basta che stia per scendere la sera o la carrozza vada un po’ più in fretta perché, in campagna come in città, non ci sia torso femminile – mutilato come un marmo antico dalla velocità che ci trascina e dal crepuscolo che l’inghiotte – che non scarichi sul nostro cuore, a ogni angolo di strada, dal fondo d’ogni bottega, le frecce della Bellezza, quella Bellezza a proposito della quale si sarebbe a volte tentati di chiedersi se sia, a questo mondo, qualcosa di diverso da quel complemento che la nostra immaginazione sovreccitata dal rimpianto aggiunge a una passante frammentata e fuggitiva”.
C’è dentro tutto Proust, in un brano simile: la poesia, il senso del ritmo, la forza creatrice e rivelatrice che il Narratore attribuisce all’immaginazione, l’erotismo, il senso della precarietà della bellezza e della felicità, l’ironia amara e l’amara constatazione che sia l’una che l’altra sono condannate a svanire in un attimo, la certezza della morte come limite invalicabile, il tentativo a volte ridicolo, altre folle, di non pensare alla fine grazie alla forza propulsiva dell’amore, la certezza che solo con la scrittura si possa cercare di scandagliare il mistero nel quale tutti – lettori e scrittore – siamo immersi, la plasticità o fortissimo potere icastico della scrittura proustiana (non può non restare impressa nella mente l’immagine di quella donna, della passante il cui busto è tagliato a metà dalla velocità della visione o dalla luce smorzata del sole al crepuscolo), la capacità che ha di farci “sentire” quello che lui stesso ha “sentito” nel ricordare quel preciso dettaglio (colto di sfuggita), questa specie di abilità nel camminare in equilibrio sul filo del rasoio – basterebbe un aggettivo in più, una virgola messa al posto sbagliato, una pausa troppo prolungata e tutto cadrebbe giù per terra…
Le chiedo se le è piaciuto; Alyssa resta in silenzio per un po’; sembra sorpresa, leggermente turbata; poi mi dice:
“E’ bello. E rende bene l’idea”.
Ecco, Proust è uno di quegli scrittori che “rende bene l’idea”, a prescindere dall’argomento che tratti o dall’idea che la sua penna e la sua mente sfiorino. Lui sì che avrebbe potuto scriverlo quel libro che sognava Flaubert (o era Mallarmé?): un libro sul niente; il libro “totale” e “infinito” che può trarre spunto da tutto quanto finisce sotto il nostro sguardo.

viernes, febrero 05, 2010

Phone calls
1
"Non ci crederai, ma in questo momento sto ascoltando proprio lei...".
"Lei chi?".
"Quella canzone, dai, quella del film di Muccino, quella che canta Jovanotti, la danno sempre alla radio, ultimamente...".
"Ah, sì, Baciami ancora!".
"Bella, vero? Io mi ci riconosco...".
"Eh, anch'io, mi piace tanto il primo verso, com'è che dice?
"Non me lo ricordo, non la so mica a memoria, ora!".
"Un bellissimo spreco di tempo, ecco, sì, lo trovo molto proustiano, l'amore è anche questo, no? Uno stupendo, enorme, incredibile spreco di tempo...Non credi?".
"Sì, per noi, almeno, è stato questo, non credi?".
"Sei proprio malata, te ne accorgi che sei malata?".
"E tu mi vieni dietro. Fammi riattaccare, va, che devo andare a lavorare...Ciao malato!".
"Ciao malata!".

2
"Ciao Danni!!! Cazzarola, è una vita che ti cerco! Come ho detto alla Giovanna: ma com'è che sei tanto indaffarata? Me pari Berlusconi, aho! Cos'è, per parlare con te devo rivolgermi a Napolitano?".
"Ah ah! Quanto sei scemo! E' che c'ho gli esami, 80 studenti, sembra impossibile, ma è così, non ho nemmeno il tempo per scendere al bar a mangiare un panino. Anzi, sbrigati perché devo tornare su e ho ancora il panino da finire...".
"Grazie, ma quale accoglienza!".
"Scemo che sei".
"No, ti volevo dire, se vuoi, che possiamo trovarci a Livorno per questo fine settimana, chessò, magari dopo pranzo, parliamo di quelle questioni dell'Università e ci facciamo un pomeriggio di relax insieme, che te ne pare?".
"Ma la tua fidanzata è d'accordo?".
"Alyssa? No, ovviamente. Ma la convinco io, tu non preoccuparti. Mica vengo là per violentarti, no?".
"Lo so, ma è lei che è gelosa, o sbaglio?".
"Lo so, ma tu tranquilla che a lei ci penso io...Oh, a proposito: ma lo sai che un amico di Alyssa m'ha procurato una nuova cliente?".
"Lezioni private?".
"Sì, brava. Devo cominciare con una che si chiama Sara e fa la...massaggiatrice! Ti rendi conto, Danni?!".
"Un mi di niente, un voglio sape niente, guarda, cambia argomento!".
"Ma dai, che male c'è? E poi che ne sapevo io che faceva la massaggiatrice? Cioè, il mio amico dice che è proprio diplomata...in massaggi".
"Sì, vabbè, senti io ti lascio, sennò fo tardi, fammi sapere a che ora arrivi, che ti vengo a prendere in stazione".
"Ma se tu non guidi!".
"Con l'autobus, scemo!".
"Ah, mi pareva...Ok, allora domani ti confermo tutto. Un beso, Danni!".
"Un bacio, bello. Ciao".
"Ciao".

3
"Amo, domani devo andare a Livorno, vado a trovare la Daniela. Te lo volevo dire prima che torno a casa, così ti arrabbi subito e quando rientro non mi rompi troppo le scatole".
"Ma quanto sei stronzo!".
"Dai, scherzo, e poi lo sai che siamo solo amici. Dobbiamo parlare di un concorso. Roba seria, lo sai".
"Sì, ma Daniela non ti può raccomandare, lo sai".
"Lo so, per questo è amica mia. Mica vado da lei perché mi devo far raccomandare, scusa?".
"Sì, ma si da il caso che è tornata single".
"Sì, ma si da il caso che io sia fedele, malgrado tutto".
"Sì, malgrado tutto".
"A dopo. Un bacio".
"A dopo. Ciao".

4
"Buongiorno, professore! Come la va?".
"Ma quanto sei simpatica, professoressa! Che mi racconti?".
"Mi perdoni se ti dico che...ho dimenticato di nuovo la separata a casa?".
"Ma cazzo, non è possibile, Cate, sei impressionante! Ma non te lo potevi appuntare da qualche parte? Lo sai che esistono i messaggi che servono a ricordarsi le cose sul cellulare? Hai mai sentito parlare di post-it? Sai cos'è un post-it?".
"Non farmi la paternale. Te la porterò sta separata, prima o poi, dai!".
"Sì, anche perché sennò sono io che ti separo: la testa dal collo".
"Ah ah! Grande umorismo, sì. Battutona delle tue, eh?".
"Lo sai che se non avessi fatto questo mestiere sarei stato un comico o un...".
"...deejay, lo so, era il tuo sogno, sin da ragazzino. E a proposito: quando andiamo a pranzo insieme? Lo proporrei anche all'Elena, che dici, è di tuo gradimento?".
"E' deejay questa Elena?".
"No, è precaria come noi".
"Beh, allora, va bene, mi abbasso al vostro livello e vengo. Dove? Se mi dite sushi vi mando a quel paese, lo sai".
"Ma come sei provinciale! Tu sei l'unico che ancora odia il sushi e che ancora non si è fatto un profilo su Facebook! Tu e mia nonna!".
"Uhm...interessante, dovresti presentarmi tua nonna, uno di questi giorni, che dici?".
"Sì, di sicuro è più allegra e vispa di te! Ma dai, non ami il sushi, ma come si fa?".
"Ti riattacco in faccia. Cambia argomento, porta la separata e fa la persona seria".
"Ok, ma ti ricordo che sei tu quello poco serio..."
"Senti, Cate, ma com'è che oggi tutti mi prendono per scemo? A proposito, te l'hai visto Baciami ancora, l'ultimo film di Gabriele Muccino?".
"No, e non ci penso nemmeno!".
"A me incuriosisce, l'ho proposto a mia moglie, la "padrona", come la chiamo io, ma dice che non vuole andarci perché si sentirebbe troppo identificata con le protagoniste femminili...".
"Ma cosa le hai fatto a quella povera donna?".
"Io? Niente!".
"Vabbè, te credo. Senti, devo riattaccare, vado a scrivermi sulla fronte: separata, e ci aggiorniamo per la prossima settimana, ok?".
"Ok, Cate. Buona giornata e buon lavoro".
"Anche a te, ciao".
"Ciao, profe".

5
"Ciao fratè!".
"Aho, ciao. Come va?".
"No, tu come va? M'ha detto mamma che c'hai la febbre".
"Eh, sì, du lineette, domani c'ho pure n'udienza, nun posso manca".
"Ma quanto c'hai?".
"38 e mezzo".
"Ma cazzo, allora non puoi andare a lavoro, devi restare fermo a casa, sotto le coperte!".
"Ma no, non posso, è un'udienza importante, non posso mancare. Se vinco la causa, mi pagano bei soldi. E ce n'ho bisogno, lo sai...Sai quant'ho pagato il termometro? L'altro s'è perso. So sceso mo in farmacia a comprallo".
"Quanto?".
"Otto euri, te rendi conto? Otto! E' di quelli senza mercurio, come si dice, quelli elettronici...che poi, secondo me, so na sòla...vanno a pile, e se se scaricano?".
"Hai ragione, io li odio quei termometri là. Comunque, ribadisco: per me domani non dovresti andare in tribunale".
"Sì, ci provo. Poi vedo, se migliora, vado. Tanto sto in macchina. E tu?".
"Eh, io tiro a campa. Domani devo stare a scuola fino alle sette, c'abbiamo ancora gli scrutini del primo quadrimestre. Na palla che non ti dico. E dopodomani sto provando a fissare con Daniela, l'amica di Livorno".
"Ho capito".
"No, che hai capito? Ci vado per motivi di lavoro. Non pensare a male, come mi moglie".
"Vabbè, poi se la raccontamo, eh?".
"Voi maschi siete tutti uguali".
"Quanto sei scemo".
"E tre...Oggi so scemo pe tutti. Comunque, te saluto".
"Alla prossima. Stammi bene".
"Pure te, e riguardati".
"Se beccamo...".
"Sì, però avvisame, se vieni a Roma".
"Lo sai. Ciao".
"Cià".

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...