jueves, marzo 30, 2017

VERO


Il tempo passa, lo sanno tutti, e però ci sono delle persone che sembrano mantenersi a galla sopra la superficie liquida dei giorni, dei mesi e degli anni (che passano senza pietà, senza senso, senza compassione per le nostre paturnie o i nostri dolori più intimi). Sono persone che sembrano restare perennemente presenti allo scopo di salvarci e di riscattarci nel momento peggiore, quello in cui ci sembra di affogare e di non riuscire più a venire a galla. Veronica (“Vero” per gli amici) è una di quelle amiche che per me esistono e resistono al di là del tempo (e anche dello spazio, perché io vivo nel Sud e lei a Madrid capitale).

Arrivo prima di lei e la receptionist (vestita in modo elegante, tutta di nero, ovvero, total black style) mi chiede in cosa può essermi utile. Le dico che ho una stanza prenotata a nome di Vero; verifica che è così e mi chiede se preferiamo una camera doppia con letto matrimoniale o con due letti separati. Un italiano e un’argentina che s’incontrano in un hotel. Sulla mia carta d’identità, all’altezza dello “stato civile”, c’è scritto “coniugato”; nel passaporto di Vero di sicuro non appare la scritta “single” (né, tantomeno, quella che recita “ufficialmente findanzata”). Chissà cosa penserà questa fanciulla… Di sicuro, pensa che siamo due amanti che si nascondono nel suo hotel per fare sesso selvaggio da ora (le 10:30 del mattino) fino a notte fonda. Le rispondo, con tono neutro, fermo: “Letti separati”. Lei mi sorride e procede alle operazioni di rito, poi mi offre la chiave, con un sorriso ancora più grande (quant’è difficile far capire all’opinione comune che due amici, anche se di sesso opposto, possono perfino dormire nello stesso letto e non succederà mai nulla, almeno fino a quando, tra i due, si manterrà quella distanza di sicurezza che dettano le norme implicite in un rapporto di amicizia vero, quando ci si rispetta e ci si preoccupa per l’altro, quando il tuo amico, quello che hai davanti, è parte di te e della tua vita, quando il sesso è l’ultima cosa a cui pensi, quando lo vedi ridere o soffrire, piangere o saltare di gioia, quant’è difficile rompere certi schemi e preconcetti, la mia “compagna d’avventure” l’ha capito subito che tipo di rapporto abbiamo io e Vero, è il suo ragazzo che ha protestato e all’inizio si è opposto, Vero ha dovuto spiegargli che abbiamo percorso gli ultimi 172 chilometri del Camino de Santiago e che abbiamo condiviso sudore, crampi, storte, lacrime e risate, durante quell’avventura, e solo allora se n’è fatto finalmente una ragione).

Nemmeno il tempo di poggiare la valigia e di aprire la finestra del balcone per vedere il panorama su Valencia, quand’ecco che suonano alla porta. Ci abbracciamo come due fratelli separati alla nascita. La sollevo da terra (Vero è bassina e pesa poco, un fuscello tra le mie braccia nerborute) e lei grida il mio nome facendo spaventare i due vecchietti della stanza di fronte alla nostra.

Poi la faccio accomadare su uno dei due divanetti predisposti accanto al balcone, nel mezzo un tavolinetto di marmo su cui predispongo la seconda colazione: una pera, una banana, due barre di cioccolato Milka, un pacchetto di crackers, un panino con prosciutto, formaggio e pomodoro (e una goccia d’olio extravergine d’oliva) e…una bella bottiglia di vino rosso della mia Regione (14,5 gradi, bello intenso, sapore deciso, retrogusto fruttato, sembrano fragole o mirtilli).

Ovviamente, abbiamo così tante cose da dirci che non sappiamo da dove cominciare. Era da due anni che non ci vedevamo. C’è l’imbarazzo (della scelta).
“Bello il panorama da qui sopra, non trovi?”.
“Bellissimo”, mi fa lei, sorseggiando il primo di una lunga serie di bicchieri. Ha le labbra carnose. La pelle più scura di come la ricordavo, sembra quasi mulatta. E con gli anni assomiglia sempre di più alla bellissima Inma Cuesta (cfr. foto supra).
“E come va il lavoro?”.
“Uno schifo, come sempre”, dice sorniona (Vero è molto caustica e anche assai sarcastica).
“E la tua storia d’amore?”.
A questa domanda non mi risponde subito. Il viso si rabbuia. È solo un attimo, dura un istante. Poi torna a sorridermi e mi dice che non lo lascerà mai, che non potrebbe lasciarlo, dopo 10 anni di rapporto.
Bevo anch’io un bel sorso di vino forte. E le spiego che, a volte, proprio i rapporti più longevi sono quelli destinati a finire, se non si cambia insieme, se tu cambi e l’altro resta troppo legato al suo “io” di tanti anni fa, se l’evoluzione (per così dire) non avviene in entrambi allo stesso ritmo e verso la stessa direzione.
“Tu l’hai mai tradita tua moglie?”.
A Vero non posso non dire la verità. Rispondo. E lei suggella la mia risposta con una laconico: “La verità s’insegue, sempre”. E poi finiamo a parlare del futuro, dei figli (“ti ci vedi nei panni di una mamma?”; “e tu che padre saresti?”; “te l’immagini la Domenica mattina circondati nel lettone matrimoniale da tanti pestiferi pargoli?”; “sai cambiare i pannolini?”) e dell’ignoranza generale che circola per le strade delle nostre città (“l’unica religione in cui credo è quella della conoscenza”) e della difficoltà di scendere a patti con tanta gente non solo incolta, ma anche ignorante e volgare, e del fatto che siamo entrambi comunque due stranieri, due espatriati (gli argentini, in questo, sono davvero come gli italiani: viaggiatori nati, nomadi che si adattano ad ogni clima, e Vero: “quando sei straniero, lo sei per tuta la vita”), e del fatto che ci appoggeremo l’uno all’altro se, in futuro, dovesse succederci qualcosa di brutto (una separazione, un divorzio, una malattia grave)…


Poi ci lasciamo alle spalle la stanza con le coperte sconvolte e la bottiglia vuota e il panino smangiato e ce ne andiamo a fare i turisti per caso per il centro storico di Valencia. Siamo tornati adolescenti; lei con la cartina in mano (le è sempre piaciuto guidarmi, come se fosse il mio GPS personale) e io con la macchina fotografica buona, quella semiprofessionale, intento a captare ogni minimo angolo artistico della città vecchia. E quando s’alza un vento polare inaspettato ci abbracciamo, o meglio, l’abbraccio forte, come a volerla proteggere dal freddo improvviso e lei: “Mi piace che mi proteggi”. E io non dico nulla. Amici da quasi 16 anni. Una delle amiche più care che ho. Una gran fortuna. Una grande opportunità. Una delle cose belle della vita.

miércoles, marzo 15, 2017

Miguel de Cervantes & William Shakespeare: tra i Morti e i Dormienti




Come notava giustamente il bravo Salvador de Madariaga (una delle figure di intellettuale tra le più eleganti e iluminanti del panorama spagnolo della prima metà del Novecento), il capolavoro cervantino è tale anche perché cambia. Come teorizza e spiega bene nel suo saggio Guía del lector del Quijote (apparso negli anni 20, ristampato nel 2016 dalla casa editrice “Stella Maris” in onore del quarto centenario della morte di Cervantes), il libro cambia non solo per ciò che succede tra il 1605 e il 1615 (il successo della Prima Parte e l’apocrifo di Avellaneda spingono Miguel a darsi da fare e a sfruttare al massimo la sua vena immaginativa, anche per smentire l’operazione di mercato subdola del suo concorrente), ma anche per ciò che accade ai due protagonisti, per cui Don Chisciotte si “sanchifica” e Sancho Panza si “chisciottizza”. È un fenomeno evidente anche dal punto di vista del linguaggio. A furia di camminare insieme per le lande desolate della Mancha, a forza di chiacchierare tutto il tempo, i due finiscono per “mescolarsi” l’idioletto, oltre che il modo di pensare e di vedere (interpretare) la realtà. Più ci avviciniamo verso la fine della trama e più Sancho spera davvero di cambiare il proprio “status” (e il governo dell’Isola di Barataria gli offre perfino l’illusione di aver cambiato “classe sociale” d’appartenenza) e, al contempo, e in modo inversamente proporzionale, più Don Chisciotte si fa cupo e triste, proprio perché non crede più alle chimere che gli dettano gli amati “libros de caballería”, diventando sempre più (pericolosamente) saggio, ovvero, realista.

Riguardo al primo fenomeno di metamorfosi, Madariaga ci offre vari esempi di frammenti in cui Don Chisciotte abusa dell’uso dei “proverbi” (tipico modo di parlare del suo umile scudiero) e, in parallelo e al contrario, Sancho abusa dell’uso altisonante e aulico del “linguaggio letterario” (che è il modo tipico di parlare del suo folle padrone).

Ebbene, in uno di questi brani Sancho sembra dimostrare un’acume, un’intelligenza, uno spirito critico, oltre che d’osservazione, degni di uno Shakespeare (e non serve ricordare che il “manco de Lepanto” e il “Bardo” di Stratford-Upon-Avon condivisero la stessa temperie storica e culturale, finendo col coincidere perfino nella data di morte, quel fatidico 23 d’Aprile del 1616 che – a detta dei biografi e degli esperti di entrambi gli autori – li vide abbandonare per sempre questa nostra triste Terra).

Ecco il brano in questione (lo traduco, male e al volo, dal testo originale, ovvero, dal cap. 68 della IIª Parte):

“Non lo capisco – replicò Sancho –; so solo che, finché dormo, non ho paura, né speranza, né pena né gloria; e sia lodato colui che inventò il sonno, manto che copre tutti gli umani pensieri, prelibatezza che toglie la fame, acqua che fa fuggire la sete, fuoco che riscalda il freddo, freddo che tempera l’ardore e, infine, moneta universale con la quale si può comprare ogni cosa, bilancia e peso che rende uguali il pastore al Re e lo stolto all’edotto! C’è solo un aspetto che rende brutto il sonno, a quanto ho sentito dire, e cioè che si rassomiglia alla morte, perché tra un dormiente e un morto c’è poca differenza”.

Ecco, inutile sottolineare quanto sia abile qui Sancho a manipolare il linguaggio a fine retorici (qui il contadino ignorante dimostra una ars retorica davvero all’altezza di quella che sfodera Don Chisciotte). Ciò che più mi colpisce è un altro aspetto, e cioè, il tema della Morte, rapportata (paragonata) qui al sonno, una specie di benedizione divina proprio perché, quando dormiamo, ci liberiamo, in un certo senso, dal peso dei doveri della vita da svegli: quando si dorme, come osserva giustamente Sancho, non si patisce la fama, non si ha più sete, né freddo, né caldo (ed è così, il corpo assume una temperatura standard dimenticandosi – letteralmente – del clima dello spazio esterno che lo circonda in quel momento). Ma Sancho Panza non si ferma qui: oltre a parlare bene del sonno, a farne l'elogio, lo compara con la Morte ed è per via di questa comparazione che ne sottolinea anche un aspetto – come dire? – negativo: i dormienti somigliano (in maniera perturbante?) ai morti; ed è proprio così, quando siamo stesi in orizzontale su un letto siamo fin troppo simili ai nostri "simili" quando sono ormai cadaveri.

Ora: a parte il fatto che questa comparazione (o similitudine) potrebbe avere origini antichissime e remotissime, a me colpisce il fatto che qui Sancho (assumendo il linguaggio “elevato” ed aulico del suo padrone) sembri echeggiare proprio William Shakespeare, il contemporaneo di Miguel de Cervantes (che peccato che non si siano mai incontrati! Sarebbe stato certamente interessante vederli a chiacchiera l’uno di fronte all’altro).

Pensiamo a un primo riferimento evidente: nell’Atto II, Scena I del Macbeth, Lady Macbeth scuote suo marito, che si è appena reso colpevole di aver ucciso il Re legittimo e i suoi rivali per la conquista della Corona, e cerca di tranquillizzarlo. Macbeth presagisce che, da quel momento in poi, non riuscirà più a dormire (teme che i fantasmi dei morti gli appariranno in sogno per ricordargli il suo ignobile gesto). Lady Macbeth gli risponde:

“The sleeping and the dead
Are but as pictures”.

Che possiamo tradurre proprio come Sancho: “I dormienti e i morti non sono altro che immagini”, che è concetto ben diverso dal comparare i morti e i dormienti come fa lo scudiero cervantino. In tal senso, Shakespeare è più “oscuro” di Cervantes. La comparazione è qui totalmente implicita e accomuna (nel giro di soli due versi) “sleeping” (dormienti, ma anche “il Sonno” o “il dormire”) con “the dead” (i morti, ma anche, in senso letterale, “la Morte” o “il morire”). E chissà quanti fiumi d’inchiostro avranno fatto spargere questi versi (più avanti Lady Macbeth torna a sottolineare l’apparato visuale o visivo della comparazione:

“[…]'tis the eye of childhood
That fears a painted devil”.

Che possiamo rendere con queste parole in italiano: “è l’occhio dell’infanzia [o anche: dell’infante, oppure: del bambino che è in te] che ha paura [o anche: che teme] di un diavolo dipinto [o anche: solo immaginario, perché solo “dipinto”]).

Insomma, il “Bardo” vuole dirci che Macbeth ha paura perché sta sovrapponendo due immagini che possono esser paragonate entrambe a un quadro dipinto: morti e dormienti sono solo “fantasie”, cose immaginarie; o anche: comparare i morti ai dormienti è qualcosa di spontaneo, quasi automatico, ma una cosa è un morto (che non si sveglierà più) e un’altra ben diversa è un dormiente (che sì che tornerà a stare in piedi e a camminare). L’errore di Macbeth è tutto qui: crede che i morti (le persone che ha appena ucciso) possano tornare in vita (perché solo “dormienti”). Ma così non è. Il fatto è fatto. Non si può più tornare indietro (ed è per questo che Lady Macbeth gli sottrae la daga con la quale ha ucciso quegli innocenti per “sporcarsi” anche lei del sangue dell’assassino; è come se Lady Macbeth volesse esplicitamente diventare co-autrice del delitto, assassina in contumacia con il marito).

Ma tornando a Sancho Panza: quando paragona il Sonno a una “bilancia” e a un “peso” che rende uguali il povero e il Re, l’ignorante e il dotto, sembra che stia evocando altre tragedie shakespeariane, in particolare, quei due o tre drammi storici (o cosiddetti “storici”) in cui il “Bardo” fa in modo tale che il Re di turno soffra d’insonnia e cominci tutta una tirata per dire esattamente il contrario di quanto va qui dicendo il nostro caro scudiero, e cioè, che il Re è il più sfortunato di tutti perché, a differenza dei suoi sudditi, deve vegliare per il bene di tutti, deve essere sempre pronto a vigilare sulla propria nazione, quando, invece e al contrario, il povero morto di fame non deve preoccuparsi di nulla e può dormire sonni tranquilli dentro la sua capanna fatta di paglia.

Ecco, questo tipo di ragionamento appare in modo molto curioso e quasi negli stessi termini in almeno tre casi: penso a Richard The Third (Riccardo III), penso a Herny The Fourth (Enrico IV) nella sua Prima e nella sua Seconda Parte e penso forse anche a Henry The Fifth (Enrico V).

Ecco i versi finali di uno dei primi monologhi di Enrico IV nell’omonima tragedia (II Parte, Scena I dell’Atto III):

“Then, happy low, lie down!
Uneasy lies the head that wears a crown”.

Che possiamo tradurre in italiano con queste parole: “Felici, dunque, quelli che giacciono di sotto! [oppure: che vivono in basso]. Scomoda giace la testa di chi indossa [o anche: di chi porta] una corona”. E ciò prorio perché il fatto di essere il Re impedisce allo stesso di dormire sonni tranquilli (come se detenere il Potere implicasse il soffrire – per sempre? – d’insonnia; e non ha tutti i torti Shakespeare a pensare una cosa del genere, perché chissà quanti “potenti” – come Enrico IV – soffrono la stessa malattia cronica proprio perché preoccupati di manterlo il Potere che hanno; chissà a quanti nemici devono pensare, da quanti occhi malvagi devono guardarsi le spalle, l’indomani mattina….).

Ecco: Sancho Panza sembra aver letto questo monologo di Shakespeare, ma per smentirlo. Secondo lui il Sonno rende uguali tutti, ricchi e poveri, superbi ed umili, Re e straccioni, proprio come…la Morte (Totò la chiama “a livella”, proprio per questo motivo).


E insomma: probabilmente né il “manco di Lepanto” ha mai letto le opere del suo contemporaneo, né, probabilmente, il “Bardo” ha mai letto le opere del suo collega spagnolo. Una cosa è certa: ci sono temi e tematiche che si riprensentano in modo simmetrico tra l’uno e l’altro classico. Come il fatto che il Sonno somigli alla Morte. O come il fatto che il Sonno, come la Morte, possa renderci tutti uguali (tutti vittime, in un certo senso) o, al contrario, possa visitare senza problemi le case dei più poveri e tenersi a debita distanza dalle corti dei Re più potenti (e, proprio per questo, più facili prede dell’insonnia). William & Miguel. Cervantes & Shakespeare. Nel mezzo: noi, morti in potenza, dormienti quotidiani…

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