jueves, enero 20, 2011

L'amore per l'altro

Che poi tutta questa storia dell'amore (per maggiori informazioni leggere Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust) potrebbe anche essere solo un falso problema, un rompicapo che ci fabbrichiamo con le nostre stesse mani solo per tenerci occupati a riempire l' “ego” (il nostro cosiddetto “io profondo”) dell'immagine che ci siamo fatti dell'altro; altro che modelliamo a nostro uso e consumo, di cui ci facciamo di solito un'idea sbagliata, proprio perché lo idealizziamo, lo ricreiamo in base alle nostre aspettative, alle nostre ansie, alle nostre ambizioni più tenaci o ai nostri sogni più irrangiungibili e pervicaci.

Ed è quindi ovvio che, a un certo punto (cfr. anche quel delizioso romanzo “giovanilistico” che è Paris Trance di Geoff Dyer), l'altro si stanchi, si scocci, si stufi, insomma, di stare lì a farci da spalla, da calco, da “immagine di quello che più desideriamo in questa vita”, da “specchio in cui vogliamo rispecchiarci ogni mattina al nostro risveglio”. Io personalmente non ci trovo niente d'interessante, nulla d'allettante, nel fare lo specchio o l'immagine riflessa di qualcun'altro. Ed è da questa divergenza (l'altro così com'è davvero e l'altro così come io lo sogno o lo desidero o auspico che sia) che poi scoppiano le crisi che poi portano ai divorzi (o alle separazioni o, più semplicemente e più tristemente, al calo del desiderio, alla rottura del rapporto, all'addio per sempre tra i partners). Quando io torno a stare da solo e l'altro torna ad essere, finalmente, se stesso (ovvero, e giocando un po' con le parole – facciamo un po' i Palazzeschi pazzi della situazione -: “altro da ciò che io credevo che fosse per me”, diverso da quell' “altro” che io gli ho cucito addosso, sbagliando e facendolo allontare per sempre da me).

Il trucco dov'è, allora? C'è davvero un trucco? Non lo so. So solo che sarebbe tutto molto più semplice e più facile (sarebbe tutto forse meno doloroso e deludente) se ci sforzassimo di accogliere e guardare l'altro per quello che è – rispettandolo per quello che è, inclusi i difetti o le caratteristiche che lo allontanano da noi e che, di fatto, ce lo rendono così “altro”, ovvero: così “diverso” da noi.

sábado, enero 15, 2011

Il cimitero di Praga di Umberto Eco: una spia che spiega i "buchi neri" della Storia

E' da un po' che porto avanti un'inchiesta tra amici e conoscenti: la domanda è sempre la stessa: "Ma a te piace Eco?". La risposta è quasi sempre negativa: conosco gente che non è riuscita a finire Il nome della rosa (o che, invece, è arrivata fino alla fine, ma non lo sopporta - e fatica a sopportare Umberto Eco). Così come conosco gente che pensa che con Il nome della rosa e, ancor di più, con L'isola del giorno prima, Eco abbia contribuito non poco a seppellire il (più volte dato per morto) genere romanzesco (che sia morto è una notizia infondata; il successo dei romanzi "best-seller" sta lì a dimostrarcelo ogni giorno). 

Io devo confessare che ho sempre provato un sottile piacere nel leggere i romanzi di quest'autore, e per varie ragioni: una, ad es., è la presenza costante del fenomeno (o tecnica narrativa) della cosiddetta "intertestualità": non c'è romanzo di Eco che non si costruisca attraverso un complesso sistema di echi / citazioni / allusioni / pastiches tra opere diverse (di autori diversi) scritte in epoche diverse (ovviamente). E' il piacere della meta-letteratura (o letteratura al secondo grado - o terzo, o anche quarto): ogni libro rimanda ad altri libri che, a loro volta, alludono ad altri libri ancora... (alcuni reali e realmente pubblicati, altri, addirittura, inventati - come nei racconti (o "finzioni") di Borges)...

L'ultima fatica, Il cimitero di Praga (Milano, Bompiani, 2010) non fa eccezione a questa regola. Roberto Recchioni (di cui seguo le disavventure sul suo bel blog di fumetti e non solo - vedi ad latere il link a "Dalla parte di Asso Merrill") l'ha definito (giustamente) un libro "oscenamente colto" (o "erudito"). Ed è così: sono centinaia i riferimenti colti a fatti di cultura (libri, giornali dell'epoca, enciclopedie, inventari, immagini e illustrazioni per libri rari e antichi, eventi storici, documenti vari etc. etc.). Ciò che colpisce di più, però, e a mio parere, sono i "pezzi" che compongono la trama: il protagonista (il piemontese Simonini) sembra essere sempre presente nei momenti più oscuri o enigmatici o inspiegabili della Storia (con la S maiuscola). E non è un caso, perché di mestiere fa la spia, ovvero: il delatore al servizio del miglior offerente (non ha scrupoli morali di sorta a passare informazioni al nemico - politico o religioso esso sia - se questo è pronto a offrirgli più denaro di quanto pattuito col primo committente). Simonini inventa documenti falsi; sa copiare le firme degli altri come pochi altri al mondo; è in grado di penetrare negli anfratti della legge dello Stato (qualunque sia il suo colore o la sua bandiera) per depistare indagini, incolpare innocenti o provocare la morte dei nemici (sa travestirsi e diventare "abate Dalla Piccola" - e non mi dilungo sui risvolti anche narrativi di questo "sdoppiamento di personalità" tra il chierico e il laico). E questo è interessante: Eco, attraverso la voce (e la maschera) del suo personaggio, ci fa intuire una cosa che, spesso, ci sfugge: ogni Stato (anche - forse, soprattutto - quelli cosiddetti "democratici") si regge non solo e non tanto su regole comuni e condivise, sulle leggi scritte e custodite in una qualche Costituzione, sulle forze armate che devono mantenere l'ordine pubblico dell'intero Stato, ma anche e soprattutto sul "gioco sporco" condotto dallo Stato stesso, tramite ambasciate e consolati, sia contro gli altri Stati (che potrebbero diventare nemici o emuli e concorrenti) sia contro gli oppositori interni (quelli che, magari come i garibaldini durante la caduta del Regno Borbonico, sognano un'Italia unita da Nord a Sud). Simonini svolge il ruolo del delatore che lo Stato usa a proprio uso e consumo e al fine di manovrare gli altri (è sempre successo e sempre succederà - anche se poi ci si indigna quando uno come Julian Assange costruisce un sito come "Wikileaks" e rende questi "giochi sporchi" pubblici o "visibili" da tutti gli altri cittadini ignari delle dinamiche interne ai vari Stati o governi al potere).

Ancora più curioso risulta l'obiettivo principale che sembra accomunare le varie e variegate imprese di Simonini: il suo scopo di una vita è debellare, annientare, cancellare dalla faccia della terra il Nemico per eccellenza: gli ebrei, di cui gli narra il nonno da bambino e verso cui nutre un timore quasi atavico. Simonini si convince (e per farlo genera e inventa anche prove ad hoc) che gli ebrei siano i registi che stanno dietro alle trame più nascoste dei massoni di tutto il mondo; che gli ebrei sono pronti ad eliminare i rivali religiosi; che gli ebrei sono e saranno sempre guidati da quella brama di denaro e di potere che gli altri (nemici politici e religiosi) si sono affrettati a cucire loro addosso in nome di atteggiamenti inequivocabilmente "razzisti".

Cosa ancora più curiosa: Simonini si trova sempre al centro dell'azione quando quest'azione è un giallo di cui - ancora oggi - non si conoscono bene i risvolti: c'è quando Ippolito Nievo, l'autore di Confessioni di un italiano salta in aria insieme alla nave che lo sta riportando in Nord Italia; c'è quando, a Parigi, scoppiano le rivolte dei Comunardi; c'è ancora quando sale alla ribalta dei giornali il famoso "caso Dreyfuss"; c'è anche quando si tratta di rendere pubblici e "smerciare" nelle librerie di ogni dove i famosi e famigerati Protocolli dei savi di Sion (quell'accozzaglia di prove false e tendenziose che daranno poi una base teorica ai "programmi scientifici" portati a compimento dagli antisemiti per eccellenza, ovvero: Hitler e i nazisti).

Insomma: è come se Eco, attraverso Simonini, si sia divertito a scandagliare e illuminare quei "buchi neri" della Storia recente (dalla fine dell'Ottocento ai primissimi anni del XX sec.) che ancora ci toccano e ci riguardano da vicino e che ancora fanno parlare di sé (perché noi deriviamo - anche senza esserne coscienti - da quei "buchi neri" e da quell'insieme di attentati, follie omicide, programmi strampalati che poi hanno segnato le due Guerre Mondiali e, conseguentemente, i due totalitarismi più violenti e beceri che l'Umanità abbia mai conosciuto).

Ovvio che un ebreo che leggesse Il cimitero di Praga senza la lente dell'ironia e della "meta-letteratura" potrebbe anche offendersi o, addirittura, imputare all'Autore le frasi scritte dal Narratore e/o dal Protagonista narrante; ma commetterebbe lo stesso errore di chi, andando al cinema a vedere Inglorious Basterds di Quentin Tarantino, tacciasse il regista americano di "antisemitismo" o, addirittura, di "revisionismo storico". L'autore non è un ipocrita; e non c'è falso moralismo o ambiguità morale da parte di Eco nel tratteggiare il suo anti-eroe antisemita. Tant'è vero che Eco sembra voler sottolinearlo anche nell'appendice intitola "Inutili precisazioni erudite", lì dove ci ricorda che: a) se è vero che Simonini è un personaggio di finzione, ma costruito a partire anche da personaggi storici e realmente esistiti, è pure vero che: b) Simonini "è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi".

Ed è in queste parole che si scorge forse il potenziale messaggio didattico che un romanzo come questo (che di didattico ha ben poco; di ludico, parecchio; di didattico o "didascalico" molto molto poco) potrebbe trasmetterci: attenzione, perché è vero che quello di cui si racconta è passato, ma il passato potrebbe tornare in vita in futuro; non facciamo gli stessi errori del passato; di chi è vissuto prima di noi e non ha saputo scorgere i vari Simonini che tramavano nell'ombra...

In sintesi: Il cimitero di Praga non solo non mi ha annoiato (e mi ha riconfermato tutta la mia stima verso Eco), ma mi ha anche divertito molto (con l'eleganza dello stile, l'ironia "superiore" del Narratore e - perché no? - anche con le evidenti, iperboliche "esagerazioni" del suo Protagonista antisemita ante-litteram, canaglia di natura fino alla morte e nuova incarnazione del Demonio quando afferma che "l'odio è la vera passione primordiale" e che, addirittura, "l'odio riscalda il cuore").

Un'altra zappata sui piedi del genere "romanzo"? Non lo so (lascio ai posteri l'ardua...).

domingo, enero 02, 2011

Il punctum nei film

Come ogni fine d'anno, anche questo Dicembre 2010 mi sono rintanato in casa per fare scorpacciata di film di qualità (o che il mio fiuto riteneva tali) e, devo dire, non mi è andata male, anzi, mi è andata di lusso, come suolsi dire.

Ho visto, nell'ordine, i seguenti "capolavori":

a) A single man, di Tom Ford (USA, 2009);
b) Jarhead, di Sam Mendes (USA, 2005);
c) Il marchese del Grillo, di Mario Monicelli (Italia, 1981).

Mi hanno appassionato tutti e tre e tutti e tre in modi diversi; sono film che raccontano storie distanti anni luce l'una dall'altra; eppure... guardandoli attentamente mi sono accorto che tutti e tre ce l'hanno qualcosa in comune, ed è qualcosa che, forse, accomuna tutti i grandi film, e cioè (vediamo se riesco a spiegarmi), il fatto che tutti i grandi film presentano, a un certo punto, una scena "memorabile" o che si fissa in maniera indelebile nella mente dello spettatore come a sintetizzare l'intero contenuto del film. Una scena, ma in realtà può trattarsi anche solo di una singola inquadratura: ed eccole, le scene o inquadrature che, a un certo punto della trama, interrompono il flusso temporale della stessa e spingono lo spettatore a riflettere su quello che Roland Barthes chiamò (per applicarlo alla fotografia) il punctum (riprendendo dal latino il termine), ovvero: il "punto focale", l'elemento visivo che attrae l'occhio dello spettatore (in questo caso, dello spettatore di film, e non solo di quello di fotografie) e lo spinge irresistibilmente a concentrarsi su quel "particolare" significativo che da un senso al tutto (gli esempi di punctum che fa Barthes si possono leggere nel suo studio ormai classico: La chambre claire).


A single man (interpretato dal bravissimo Colin Firth) narra la storia di un professore di Lettere che deve far fronte al lutto della scomparsa del suo compagno di una vita (15, per l'esattezza, gli anni della loro felice relazione). Il film è davvero bello e disperato; anzi, bello perché assolutamente disperato (voglio dire: il regista riesce a trasmettere a ogni singola inquadratura quel senso di angoscia, di smarrimento, di apatia che colpisce chi ha perso una persona cara e desidererebbe raggiungerlo sparandosi un colpo di pistola in fronte). Il punctum, o scena "focale", o scena "clou" che spezza la narrazione e ferma la storia, si ha quando il professore raggiunge a casa sua un'antica amante (Julian Moore, anche lei angosciata, per il divorzio dal marito) e i due si mettono a ballare sulle note della canzone "Green Onions" dei Booker T & MG's... E' un momento di apparente allegria; festosità; ironia; è tutto sospeso, e per un attimo, né il professore né la sua amica divorziata pensano più alle loro angosce personali; ballano e la telecamera sta loro addosso come ad avvolgerli; è un momento, appunto; dura poco, poi cadono a terra entrambi esausti dal ritmo forsennato del ballo e ricominciano a parlare del dolore e del lutto, della morte e di come finì (male) la loro relazione, quando lui, evidentemente, non era ancora così omosessuale da non disdegnare le attenzioni dell'amica; non svelo cosa si dicono subito dopo questo balletto in camera; ma è chiaro che quel balletto incarna proprio "il momento prima della tempesta".

Jarhead è uno dei film di guerra più belli e riusciti che abbia visto negli ultimi anni; Sam Mendes (quello di American Beauty e di Revolutionary Road) cita il Kubrick di Full Metal Jacket e il Coppola di Apocalypse Now per parlarci della Guerra del Golfo e della famosa operazione "Desert Storm", riprendendo "in diretta" e "da vicino" le violenze psicologiche, i disagi, la rabbia dei marines chiamati all'uopo per servire l'Esercito e la loro Nazione. Qui, a mio giudizio, il punctum arriva in uno dei momenti più drammatici dell'intero film, quando i soldati si vedono piovere letteralmente sulla faccia e sulle uniformi una lenta pioggerella del petrolio dei pozzi bruciati dagli iracheni. In mezzo a questo caos fatto di fuoco, fiamme, lapilli e cielo oscurato dal petrolio, il protagonista, Anthony Swofford, s'imbatte improvvisamente in un cavallo, privo del padrone e in preda alla paura. E' un cavallo arabo, bellissimo, e ricoperto anche lui del liquido nero. Il marine si ferma (ma ripeto, in questo caso, nei casi delle scene "clou" ricche di "senso", è l'intero film a fermarsi) per carezzarlo e rasserenarlo, per dirgli che presto tutto finirà, che andrà tutto bene... Un'apparizione quasi fantasmagorica, una specie di "illusione ottica" in pieno deserto in cui l'animale smarrito serve all'essere umano per tranquillizzare se stesso e pensare che quell'Apocalisse, prima o poi, finirà... E il cielo tornerà a schiarirsi... Davvero una scena bellissima, e commovente.


Il marchese del Grillo è uno dei pochi film di Monicelli che - mea culpa - non avevo ancora visto. E qui c'è tutta la poetica del grande regista recentemente scomparso in quel modo assurdo, e brutto, e triste, che sappiamo... Il marchese del Grillo del titolo non è altri che un nobile romano squattrinato che, per vincere la noia, si da alla pazza gioia; passa il tempo a tramare scherzi di pessimo gusto; a mescolarsi tra la plebe, travestendosi da ubriacone che frequenta le peggiori bettole di Roma capoccia; a fare l'amore con la serva o la governante di turno; a far vivere a un vero ubriacone (suo sosia) una vita che questi potrà solo sognare. Alberto Sordi è da Oscar; la regia è impeccabile; l'ironia amara è ai massimi livelli. Il punctum che ti fa fermare a guardare attentamente il film (la scena che ferma il film per lasciarsi guardare essa stessa e a lungo) la troviamo nel momento in cui il marchese viene incarcerato e poi, subito dopo, scarcerato dalle guardie che, appunto, lo scambiano per uno qualunque, un morto di fame qualunque dei tanti che passano il tempo a giocare a carte e ad ubriacarsi nelle più malfamate trattorie romane. Il capitano che lo scagiona - perché lo ha riconosciuto - redarguisce severamente una delle guardie; e il marchese, rivolgendosi agli altri astanti, ai poveracci, alla gente di borgata, si ferma e prima di salire in carrozza dice: "Perché io so io e voi nun siete un cazzo" (citato a memoria, ma la sostanza è questa). E' una frase che spiega tutto il film; ma ciò che è più interessante notare (ciò che spinge lo spettatore a fermarsi a riflettere e a bloccare per un minuto il normale scorrere delle inquadrature) è la faccia e il tono con cui Alberto Sordi la pronuncia: strafottente, ma anche serio; ironico, ma anche amaro. Sembra quasi suggerire che lui non è poi così convinto d'essere migliore di loro; sembra quasi (e dico: quasi) che gli dispiaccia "non essere un cazzo" come loro.


E le riflessioni da farsi sarebbero troppo lunghe per non annoiare ancora di più il paziente (improbabile) lettore di questo post (ma sul tema del punctum al cinema ci tornerò; e poi in fondo il cinema non è altro che "fotografie" in movimento; deve avercelo pure lui, sto "punto" che colpisce, e frena, e rallenta o sgancia la scena dal resto per spiccare e brillare di luce propria, proprio come accade con l'arte della fotografia)...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...