sábado, marzo 31, 2012

Antonio Tabucchi, Pessoa e il cimitero "dos Prazeres"


La casualità della vita, la vita delle casualità che ci possono capitare a ogni pie' sospinto... tanto che risulta alquanto inutile, o assurdo, o anche vano, farne l'elenco (chi di noi non ne ha vissute; chi di noi non può darne testimonianza).

"Si dà il caso", si dice, normalmente: ed è così, il caso si dà, noi lo riceviamo (passivi; non dipende da noi che il caso si dia o ci capiti - a volte, tra capo e collo - come per quel passante, quel turista americano, mettiamo, che si trova in una città straniera, italiana, mettiamo, e passa sotto la finestra di un'anziana che, casualmente e non volendolo, fa cadere il vaso dei fiori che finisce proprio sulla testa del malcapitato - e anche sulla parola "malcapitato" si potrebbe riflettere a lungo - e quest'ultimo, poverino, muore, e uno dice: "ma tu guarda! Se fosse passato sotto quella finestra un minuto prima, o un minuto dopo; se, invece di venire a Roma, in vacanza, fosse andato a Perugia o a Parigi o a New York").

E a proposito di morte: è stato il caso a volere che l'altro ieri, 29 Marzo del 2012, mi trovassi in Portogallo, a parlare di un autore spagnolo nell'ambito di un congresso internazionale che riuniva vari esperti in materia, e che, proprio quel giorno, seppellissero Antonio Tabucchi nel cimitero "dos Prazeres" a Lisbona... E già prima di prendere l'aereo pensavo: che strano, andare nella stessa nazione, nella stessa città addirittura, in cui Tabucchi è ormai già un cadavere; non avere più modo di sentirlo parlare dal vivo (come mi era capitato di fare all'interno della Feltrinelli di via de' Cerretani a Firenze, qualche anno fa, in compagnia di un altro autore a me molto caro, Enrique Vila-Matas) e avere a disposizione, ormai e per sempre, soltanto i suoi libri per sentirne riecheggiare la voce... 

Ma la cosa più strana di tutte è stata un'altra, casuale, come sempre: non ricordavo che nel mio intervento per quel convegno avrei citato proprio il famoso (e monumentale) cimetero "lisboeta" "dos Prazeres" (ovvero, "dei Piaceri", tradotto letteralmente - e che bel nome per un luogo lugubre come un cimitero...) e che, quindi, mi sarei trovato a parlare, anche se in un altro contesto, dello stesso posto in cui, quello stesso giorno, Antonio Tabucchi sarebbe stato calato in una fossa per riposare per sempre in pace...

E allora è stato quasi automatico, quasi inevitabile, per me, mentre facevo il mio intervento davanti a una quarantina di studiosi, e subito dopo aver citato il cimitero "dos Prazeres", citare a mia volta anche il nome dell'autore di Sostiene Pereira, e ricordare che Tabucchi veniva seppellito in quello stesso cimitero proprio quel giorno (e qualcuno ha sorriso, in mezzo al pubblico, e qualcun altro non credeva alla sue orecchie e qualcun altro ancora ha fatto una faccia strana, a metà tra il rammarico e la tristezza, la sorpresa e la perplessità).

Quando ho finito di parlare, sono partiti i soliti applausi di rito. Poi, in serata, una collega che viene dall'Università di Canterbury, nella Nuova Zelanda (la congressista che ha fatto il viaggio più lungo di tutti per raggiungere il Portogallo: due giorni e mezzo di trasbordi), mi ha fatto notare l'ennesima casualità: dentro quello stesso cimitero di Lisbona giace anche Fernando Pessoa. E quando me l'ha detto, non potevo crederci. Ma se è così, mi piace pensare che Tabucchi riposa (per l'eternità) nello spesso spazio in cui giace uno dei suoi autori preferiti; ed è facile immaginare anche che a partire dal 29 Marzo del 2012 Tabucchi e Pessoa potranno finalmente chiacchierare faccia a faccia, senza limiti di tempo, e confrontarsi sulle loro ossessioni letterarie, e discutere animatamente di libri, dei loro libri e di quelli degli altri che tanto hanno amato, imitato o emulato...nei secoli dei secoli...

sábado, marzo 24, 2012

Non sono io che me le cerco


Mentre fuori è scesa la notte e si è messo a piovere a dirotto, mentre sistemo i libri che mi sono portato da Roma (e che devo ancora sfogliare) e rimetto a posto il telefono dopo una lunga chiacchierata con Dany, una delle mie amiche più care e longeve, mi ritornano in mente due scenette che ho presenziato di recente e che, a quanto pare, sembrano fare "rima" tra loro, a prescindere dal fatto che si siano svolte in due città diverse e con due donne diverse (oltre che d'età diversa, anche di carattere diverso, di un diverso taglio degli occhi e dei capelli, dotate ciascuna di un diverso senso del dovere o del piacere...).

Scenetta n. 1: Salerno, nei pressi della libreria Feltrinelli, e a pochi passi da una delle migliori pizzerie della città.

Luisa è una dottoranda che conosco da Settembre; in realtà, ci siamo incrociati all'Università solo un paio di volte ed entrambe le volte solo per dirci le solite tre o quattro frasi fatte e domande di rito (come va? come procede la tesi? e quando la discuti? e tu che fai? e quand'è che parteciperai a quel convegno? hai fatto molte lezioni fino a oggi? e gli esami? quanti erano gli iscritti?). 

Oggi, però, qualcosa è cambiato, Luisa è piuttosto "espansiva", non appena mi vede mi si butta al collo, mi abbraccia con una foga che mi lascia alquanto a bocca aperta, non abbiamo tutta questa confidenza, non so come mai si comporti in questo modo così disinvolto, per un momento la mia vanità viene solleticata e il mio orgoglio maschile stuzzicato fino a spingermi a ipotizzare un certo interessamento che esula dalla pura e semplice conoscenza formale o amicale, chissà che non gli piaccia, chissà che mi vuole raccontare questa qua, oggi...

"Como sono contenta di vederti, sai?".
"Anch'io! Andiamo a mangiare una pizza qui a fianco? Fanno una pizza con mozzarella di bufala che è la fine del mondo", propongo, galante e gentile.

Luisa accetta immediatamente, non se lo lascia ripetere due volte e mi prende sottobraccio. Non capisco. Resto di stucco. Luisa è bella, davvero, una gran bella ragazza, con i capelli neri ricci ricci e lunghi raccolti (stamattina) in una lunga coda e con gli occhi verdi luminosi, uno sguardo ingenuo e, al contempo, malizioso (o capace di malizia, se ci s'impegna, se decide che è giunto il tuo momento e che è giunta l'ora di accalappiarti... di farti suo schiavo per sempre...). E approfitta subito della situazione per parlarmi dei fatti suoi, di un suo cruccio, di un problema che la turba, noto delle occhiaie, in effetti, Luisa deve dormire poco, ultimamente, altrimenti non si spiega quest'aria stanca, come di qualcuno che ha rinunciato a vivere a pieno ritmo, anche se si sforza di sorridermi ogni due minuti, sì, dai, andiamo a mangiare la pizza con la mozzarella di bufala, io l'adoro la mozzarella di bufala...

E comincia a confessarmi che non sa che pesci pigliare: è fidanzata da 12 anni con lo stesso ragazzo (12 anni? Strabuzzo gli occhi, e non credo alle mie orecchie - nel frattempo, tanto il mio orgoglio che la mia vanità maschile vanno a farsi fottere), è in crisi, è stata a New York per studio per un paio di mesi e lì la crisi (e i dubbi) sono aumentati.

"Luisa, ascoltami, sono più grande di te, ci sono passato: è normalissimo che tu sia in crisi, dopo 12 anni con la stessa persona, sei umana, voglio dire, è normale che se vai a New York e avevate già litigato...".
"Ma non è solo questo il punto...", dice, con tono amareggiato; fa la faccia triste, è un unico dubbio ambulante, questa ragazza che ho davanti, con questi occhi così belli e splendenti, nonostante la stanchezza e l''insonnia...Dio, che bella che sei, Luisa...

E mi confessa che lì, a New York, mentre faceva le sue ricerche su Faulkner e il romanzo americano degli anni 30-40 si è invaghita di un altro, uno studente di Filosofia, un turco che vive a Manhattan e che sì, insomma, si sono baciati... E ora si sente chiaramente in colpa...

"Ma allora lo vedi, sei normale, è normale che tu l'abbia baciato, non si può pretendere di essere fedeli a una persona quando, magari, c'è crisi e l'amore è cambiato, o non c'è più passione, e l'amore diventa qualcos'altro, ben venga questo flirt con il turco, ben venga un po' di cambiamento, no?" (e intanto sia il mio orgoglio maschile che la mia fatua vanità si sono impiccati al lampione della piazzetta che vediamo entrambi dal nostro tavolino imbandito).

E Luisa continua, si confessa, non si ferma più, è un fiume in piena, e ogni tanto sembra sull'orlo di piangere in un pianto consolatorio, uno sfogo, penso, mi sta "usando" come fossi un fratello maggiore, o un padre, un confessore o uno psichiatra, questa ragazza si sente in colpa e non sa come lasciare il fidanzato storico, non sa come mettere fine a una storia durata anche troppo, e si sta confessando con me perché non ha mai trovato il coraggio di parlarne con la sua migliore amica, che potrebbe giudicarla e condannarla moralmente, mentre io sono un quasi-perfetto-sconosciuto, a me non mi conosce, non sa chi sono, sa solo che siamo "colleghi", e mi sento anche un po' in imbarazzo a ricoprire il ruolo di quello che dà consigli, ma sì, ci sono passato anch'io, anch'io, quando ero sul punto di rompere con la mia ex storica mi sentivo una merda, mi sentivo in colpa, e poi i suoceri, e i genitori, tua madre e tuo padre che si aspettano che vi sposiate e invece tu te ne tornerai a New York, a fare i tuoi studi nella "National Library" e ad amare un altro, un turco, è normale, credimi, Luisa, il consiglio che posso darti è: non starli a sentire, segui il tuo destino, non pensare al tuo ragazzo storico, non stare a sentire le voci della gente, non è detto che tu debba sposarti, se non te la senti, non trovi?

E avrei tanto voglia di abbracciarla e, di fatto, Luisa mi abbraccia, mi si stringe forte al petto, con la testa sul petto, quando, finite le nostre margherite con la bufala, mi dice "grazie", grazie per averla ascoltata, grazie per averle detto ciò che ho appena detto, grazie tante, davvero, sei un bravo ascoltatore, non mi ero mai aperta così tanto, nemmeno con la mia migliore amica... 

Scenetta 2. Livorno. Nei pressi della Terrazza Mascagni, all'ora del tramonto (tutto molto bello, e tutto molto romantico).

Marta mi prende per mano. Siamo amici da circa un annetto buono. Ci vediamo di rado, perché io non vivo più in Toscana e lei, per lavoro, viaggia molto tra Milano e Roma. L'ultima volta, di fatto, ci siamo visti a Roma, e abbiamo mangiato al volo e insieme da "Spizzico" (una schifosissima pizza "plastificata", rispetto a quelle che si possono degustare a Salerno). 

Mi prende per mano, Marta, e io strabuzzo gli occhi e mi dico: "Wow, sta succedendo proprio a me, chissà ora che mi vuole dire, o chissà che vuole fare, a quest'ora della sera, quando il sole è una palla rosso fuoco che sta per calare definitivamente sull'orizzonte e il mare è calmo e le onde rumoreggiano como loro solito sbattendo sugli scogli pazienti, chissà se, entro questa sera, non ci baceremo, con la lingua, con trasporto, con passione...".

"Ti ricordi dell'ultima volta? Di quando ti parlai di "lui", del mio "lui"?". Ecco, penso, ci risiamo, Marta deve parlarmi del suo "lui", e non immagina minimamente che a me possa dare fastidio, va bene essere amici, ma perché parlare sempre di quel coglione del suo amante? Un uomo sposato che le promette che lascerà la moglie e che, invece, e come da copione, preferisce stare con un solo piede in due staffe (come tanti)?

"L'ho lasciato, ieri, definitivamente, sai?". Toh! Mi verrebbe da esclamare, e poi da esultare, ma non lo faccio per rispetto (io rispetto le mie amiche, su questo non ci sono dubbi, sono ancora un cavaliere, quando voglio...).

"E come è successo?". E Marta comincia a raccontare, lei che è così sicura di sé (il contrario di Luisa, la dottoranda) si spoglia e si mette a nudo davanti alla mia coscienza, mi parla dei dubbi e dei mille ripensamenti, mi guarda le vene della mano destra che mi stringe come se potesse cadere da un momento all'altro e io fossi l'unico essere umano a cui aggrapparsi in quel momento, e mi parla di come e quando e perché è successo (lei non ce la faceva più a sopportare una situazione del genere, era stufa di sentirgli fare tante promesse mai mantenute e iniziava a farle schifo sapere che, dopo aver scopato con lei, magari la sera stessa, tornava a casa per adempiere ai suoi doveri coniugali con l'altra, la povera illusa, la povera ignara, e il racconto si riempie di dettagli scabrosi, e Marta ricorda ogni singola frase detta con rabbia al suo amante ipocrita e bugiardo, un contafrottole, uno buono a nulla, e ogni tanto le scappa qualche parolaccia, mi fa ridere Marta, quando s'arrabbia e fa la faccia incazzata, e poi mi lascia la mano, smettiamo di passeggiare sulla Terrazza Mascagni come due fidanzati, e infine si domanda - e mi domanda - retoricamente: "Ma ti rendi conto che stronzo? Te ne rendi conto?", e io non posso che fare di sì con la testa, annuisco e penso: "Nemmeno stasera ci baceremo, e forse è un bene, io sto a Sud, lei a Nord, e viaggia più di me, sarebbe complicato vedersi, anche solo per un rapporto di stampo puramente passionale o sessuale, è bella Marta, bionda, occhi azzurri, il contrario di Luisa, la dottoranda, una donna più grande, una donna fatta, che ha la sua indipendenza economica e che, pur sembrando così forte e disinvolta, ha dovuto sudare le famose sette camice prima di prendere l'unica decisione giusta, e mandare affanculo quel pezzo di merda d'un ipocrita adultero...).

E mettendo a confronto la scenetta 1 con la scenetta 2 mi viene da pensare e mi viene da dire che non sono io che me le cerco, non so perché, non so come mai, ma sono loro, le donne, a venire da me a raccontarmi le loro cose più intime e dolorose, sono loro che mi fanno le loro confessioni, e forse mi vedono come un tipo tranquillo, un amico cui è possibile raccontare certe cose, con cui è possibile condividere certi dubbi esistenziali, uno di cui ci si può fidare... E mi viene in mente anche quell'altra frase, di un'altra (l'ennesima) amica giornalista: "Quando una ti guarda pensa subito: "Questo qui non può farmi del male"... e però sei uomo, si sa che prima o poi anche tu farai lo stronzo"... E continuo a riflettere su queste parole e a pensare (auto-giustificandomi): "Non sono io che le me cerco, ragazze, siete voi che venite a raccontarmi le vostre cose di vostra spontanea volontà, io mi limito ad ascoltare, lo sapete, no?" (domanda retorica, come altre in questa storia...)

miércoles, marzo 21, 2012



L'incantatore: le magie dello stile nabokoviano





L'incantatore (Milano, Adelphi, 2011), così s'intitola (nella traduzione italiana del figlio Dmitri) il racconto che anticipa Lolita, il capolavoro di Vladimir Nabokov. Scritto nel 1939, a Parigi, mentre l'autore è costretto a letto per un “violento attacco di nevralgia intercostale” (dalla 'Prima nota dell'autore'), L'incantatore è un racconto lungo che ipnotizza il lettore sin da subito, sin dall'incipit, in cui si parla di lascivia, depressione, lussuria, stupro, depravazione, desiderio smanioso. Ma sarebbe un racconto morboso solo se ci fermassino a leggerlo in superficie; come sempre quando si tratta di Nabokov, lo stile conta molto di più del contenuto; il “come” molto di più del “cosa” si racconta.

Prima domanda: chi narra cosa? Un narratore esterno in terza persona, sarebbe la risposta più facile e banale.

Eppure... ci sono piccoli squarci, all'interno della trama, in cui possiamo scoprire una indiscutibile vicinanza tra questo narratore-testimone esterno e il fantasma dell'autore in carne ed ossa; quando il quarantenne innamorato delle dodicenni entra in casa della donna che gli permetterà di stare a più stretto contatto con la sua “ninfetta”, ecco che la voce del testimone oculare si incrina e subentra quella di un altro (chi? Nabokov? L'innominato protagonista pedofilo? Chi parla, in questo caso?):

“[...] uno di quei visi che vengono descritti senza che si possa dir nulla delle labbra e degli occhi perché il solo fatto di menzionarli – anche ora, qui – sarebbe un'involontaria contraddizione della loro totale insignificanza” (p. 35 dell'ed. succitata).

E' nell'inciso che si crea lo squarcio (o si apre un varco): il narratore sta dicendo che la donna è priva di vero fascino; che non andrebbero descritti neppure i suoi occhi né le labbra, tanto sono insignificanti: nemmero ora, né qui, sarebbe necessario descriverli. E lecitamente il lettore si potrebbe domandare: perché? E soprattutto: quando? Dove? A quale “ora” si riferisce quell' “ora” e a quale “qui”? Chi narra cosa e quando e dove?

L'incantatore è la storia di una passione estrema (anche disturbante, a tratti; impossibile restare indifferenti davanti alle elucubrazioni di un individuo così freddo, nella sua voglia di conquistare l'innocenza della dodicenne che diventa “oscuro oggetto del desiderio”) e, al contempo, quella di un tentativo: decifrare correttamente la realtà, non farsi ingannare dai sensi o dagli altri, superare gli scherzi del destino. E allora ecco che il racconto viene intervallato da diverse metafore libraie o libresche, oltre che geometrico-matematiche: il mondo come libro che va interpretato; la realtà come manoscritto di difficile decifrazione o come insieme di formule che vanno calcolate con esattezza e precisione infinitesimali.

Alcuni esempi:

[di fronte alla “matrigna” della sua Lolita – una donna matura preda di una malattia incurabile e che – egli spera – prossima a morire] “e ascoltava l'epopea della sua malattia, collazionando varianti e interpretando con grande acume le più recenti corruzioni del testo” (p. 38)... come se si potessero davvero collazionare varianti davanti al racconto (nostalgicamente triste) di una malata terminale...

[pensando ai futuri piaceri da consumare con la bambina] “Adesso intanto, oggi, un refuso del desiderio distorceva il senso dell'amore”... come se quel suo desiderio ossessivo fosse un qualcosa di lecito e non un obbrobrio; come se il desiderio creasse refusi – e chi potrebbe mai correggerli, i refusi del desiderio?

[Tornando a casa, di notte, con la speranza di non ritrovarsi tra i piedi la donna malata – esca fondamentale per arrivare alla preda] “Quando tornò a casa l'appartamento era buio – gli balenò la speranza che lei stesse già dormendo ma, ahimè, la porta della sua camera era sottolineata, con la precisione di un regolo, da una sottile lama di luce”(p. 54)... e qui è davvero inutile parafrasare o commentare l'immagine quasi “proustiana”: quella lama ci trafigge, come fa con il protagonista (la sinestesia è figura retorica preferita di Nabokov: con una sola frase, lo scrittore ci immerge in una atmosfera di cui sentiamo quasi l'odore, oltre che l'aspetto visivo, tattile e sonoro)


[mentre la ninfa si trova in uno stato di dormiveglia] “Allora, dando inizio a poco a poco all'incantesimo, cominciò a passare la sua bacchetta magica sopra quel corpo, quasi sfiorando la pelle, torturandosi con l'attrazione che ispirava, con la sua tangibile vicinanza, con le fantastiche comparazioni consentite dal sonno di quella ragazzina nuda che egli misurava, per così dire, con un regolo incantato […]” (pp. 83-84)... e qui è davvero inutile spiegare a cosa alluda questa volta il regolo, strumento di precisione, di calcolo, elemento visivo che permette all'autore di giocare con l'ennesima metafora geometrica (matematica?) e con il sesso (o il desiderio sessuale).

La realtà è un gioco di specchi in cui l'incantatore prova a trovare la strada d'uscita (alle sue pulsioni più animalesche) e in cui la bambina è la vittima innocente che ignora il pericolo che sta correndo in compagnia di questo strano individuo.

La realtà si sdoppia, anche numericamente: a p. 47 l'uomo entra in casa e vede la “moglie” intenta a chiacchierare con una vicina di casa. Annoiato, l'uomo prende un giornale, anche se è incapace di leggere o decifrarne le righe. “Prese un giornale (del 32 del mese)”, dice il narratore esterno. E il lettore si domanda se abbia letto bene, dubitando si tratti di un refuso (quale mese ha 32 giorni?). E in questa nebbia vaghiamo insieme al protagonista, fino alla scena catartica della stanza d'albergo, quando tutto precipita: parole, sensazioni, pulsioni, obiettivi, macchinazioni, metafore, godimenti presunti e reali, sogni ad occhi aperti e incubi incessanti...

viernes, marzo 16, 2012


Tempus ruit (pare ancora...)



E' da quasi un mese che non aggiorno questo blog; mi viene in mente la frase di Cervantes, quando, anticipando le probabili critiche o le domande dei curiosi lettori e per giustificare in qualche modo la lunga pausa intercorsa tra la stesura de La Galatea (1585) e quella della "Primera Parte" del suo Don Quijote (1605) scrisse: "Ho avuto altri affari da sbrigare" o "Sono stato occupato in altre questioni"...

Ho letto anche poco, ultimamente. E non ho libri nuovi da recensire (sì, ne ho comprati, come L'incantatore di Vladimir Nabokov, grazie alla suggestiva recensione di Gabrilù sul suo blog "NonsoloProust"; e Nanà, di Zola, su consiglio affettuoso della mia cara amica Danny - anche lei gli ha dedicato una recensione; devo ancora leggerla). Ma, appunto, ho avuto poco tempo per vivere attraverso le pagine di un buon libro (e la cosa mi manca, lo ammetto).

In compenso, ho vissuto parecchio, a ritmi sinceramente accelerati.

Ho mangiato un hambuger al McDonald in compagnia di una mia vecchia alunna di scuola, incontrata per caso alla Stazione Termini, e non ho resistito alla tentazione di aiutarla col bagaglio (un'enorme e pesantissima valigiona a fiori in perfetto stile Woodstock), come fossi un cavaliere errante d'altri tempi o come fossi il suo maggiordomo in giacca e cravatta (o, più semplicemente, come fossi suo padre); ho passeggiato sul Lungarno di Pisa insieme alla mia ex, rimembrando i bei tempi andati e sviscerando al chiar di luna le cagioni principali che hanno fatto sì che il nostro rapporto finisse in un baratro per non riprendere mai più quota (eravamo caduti in basso e nessuno dei due ha avuto mai la forza necessaria per tornare a viaggiare a quote più normali; le ho fatto notare la targa in cui si dice che Leopardi preferiva il Lungarno pisano a quello fiorentino; lei ha sorriso e poi mi ha  abbracciato stretto stretto); ho assaggiato dell'ottimo Chianti a Firenze, nei pressi di Santa Croce, la mia piazza preferita (con Dante che domina e osserva tutti), in compagnia di una collega che insegna Letteratura Inglese all'Università di Potenza. E ho sentito citare un mio articolo alla presentazione delle mie prime due traduzioni (dallo spagnolo all'italiano) nella magnifica Biblioteca Universitaria della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Pisa, quando meno me l'aspettavo (a citarmi, un prof. dell'Università di Milano, incredibile a dirsi...). E ho commentato una volta una simpaticissima riflessione di "V." (for "Vagina") nel suo blog assai divertente "memoriediunavagina", in merito al tema: "come resistere all'assenza degli ex", o meglio: "come un film può ricordarti immediatamente che il tuo ex non c'è più" (e la malinconia è dietro l'angolo; ti guarda sorniona; sorride infingarda; è pronta ad afferrarti per il collo e a non lasciarti più andare via). 

E poi mi sono ritrovato a parlare di mestruazioni con una amica giornalista (molto battagliera, un cervello sopraffino) davanti a un ottimo piatto di ravioli al ragù in un piccolo ristorantino in stile "toscano" ad Avellino, ridente cittadina dell'entroterra campano, in cui, a quanto mi dicono, c'è un'altissima percentuale di giovani che si tolgono la vita (il suicidio come unica salvezza agli inverni rigidi ed infiniti di quella città; o sarebbe meglio dire: alla mancanza di prospettive lavorative certe o a sbocchi occupazionali anche precari). 

E ho preparato l'aperitivo a B., una mia cara amica attrice che studia Lettere a Napoli e sogna di vivere recitando al Piccolo o alla Scala (sogniamo in grande, noi, mica pizza e fichi). E l'ho perfino ascoltata recitare pezzi tratti da La signora delle camelie o da Questa sera si recita a soggetto (poi abbiamo stemperato l'atmosfera cantando a squarciagola "Amore disperato" di Nada - i magnifici anni 80). E ho perfino ballato con B., un pezzo di Lou Reed, di quando ancora cantava coi Velvet Underground (solo che non ricordo più come s'intitolava quel pezzo, magnifico per smaltire una sbronza, o distendersi sul divano a contemplare il soffitto, con una sigaretta accesa in bocca o sospesa tra indice e medio). E ho visto un film di Wim Wenders, del 1977 (l'anno in cui ho visto la luce), con uno stranissimo Dennis Hopper (doppiato malissimo in italiano) e con un giovanissimo Bruno Ganz (stranamente somigliante a Valerio Mastrandrea, in quel film)...come s'intitolava? Ah, sì, L'amico americano (o Der Amerikanische Freund, nel titolo originale), un film ispirato allo stesso romanzo che poi ispirerà pure Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella e Il gioco di Ripley di Liliana Cavani - entrambi ancora da vedere). E lo vedevo seduto in uno striminzito stanzino di un piccolissimo pub di Salerno in compagnia di una critica d'arte contemporanea che sembrava mia nonna per il suo modo di non capire i film e il suo continuo chiedermi: "Ma lui chi è? Da dove esce fuori?" o "Ma lui è il marito di lei?" o "Ma ora perché lui muore?" o "Ma come mai ammazzano pure il controllore?" (indimenticabile quella scena "keatoniana" sul treno; una strage infinita compiuta da due pupazzi che non sanno nemmeno come tenere in mano la pistola)... 

E ho fatto lezione a un centinaio di studenti che non sanno che le mie occhiaie nascono da insonnia e che, molto probabilmente, ancora non sanno cosa significa soffrire d'insonnia... E ho visto, come al solito, il tempo scorrere...fuggire via...senza fare mai ritorno. E come dicevano gli antichi: "Tempus ruit" (ancora pare)...indefinitamente...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...