sábado, enero 30, 2021

 30/1/2021


Questa sera ero indeciso se finire di leggere un capitolo dal bel saggio Antropologia delle immagini (2002) di Hans Belting o se continuare a perlustrare la mente "maniaca" e alquanto "nabokovkiana" del narratore in prima persona de La storia di mia moglie (1957) di Milán Füst (regalo graditissimo di un caro collega di Budapest, un ispanista ungherese che traduce anche Camilleri e ha un dominio assoluto dell'italiano, del francese, dell'inglese e del tedesco - non ricordo se sapeva anche il russo e se aveva iniziato a studiare anche l'arabo -).

Belting mi stava facendo ragionare sul corpo come luogo della memoria e luogo che, oltre a conservarle, le immagini le produce (quelle che nascono dai sogni, ad esempio; o quelle che ricaviamo dal passato attraverso la memoria e il ricordo - cita Proust, ovviamente, come non citarlo se si parla della triade immagini-memoria-ricordo?).

Füst, invece, mi spingeva a riflettere su come è assurdo l'amore e su quanto può essere distruttiva la gelosia: "Perché l'indifferenza ci mantiene intatti, la passione invece ci umilia" (cit., p. 201 dell'ed. Adelphi - un lavorone quello della traduttrice, Marinella D'Alessandro, che non conosco affatto ma che ammiro da subito per come riesce a rendere, in italiano, il fraseggio simpaticamente folle e assurdamente attorcigliato di questo marito preda della bestia dagli occhi verdi che Yago scatena nella mente di Othello).

Poi, di colpo, la realtà è entrata prepotentemente di scivolata e mi ha fatto lo sgambetto, e steso al tappeto: mia madre mi confessa che mio padre non sta tanto bene; una mia cara amica di gioventù mi avvisa che ieri è morta la madre di un nostro comune amico, quasi un fratello, per me, uno che è finito col diventare direttore in una banca di Liverpool...

L'ultima volta che ci siamo visti fummo felici: suo fratello ci aveva invitati a cena in uno dei ristoranti più belli e lussosi del centro della città (lavora nell'ambito alberghiero; conosce un sacco di gente importante; ha fatto affari coi vips); io avevo un mucchio di cose da raccontare loro sul mio lavoro all'Università; lo chef non la finiva di illustrarci le innovazioni dei suoi piatti, accompagnati da vini mai bevuti prima in vita mia (molti argentini, qualcuno americano).

Poi un messaggio su Facebook, scritto in inglese da un parente, finisce di stendermi a terra: il mio amico non mi aveva mai detto che, prima di sua madre, ha perso anche un cugino, per colpa del virus, e uno zio, causa infarto fulminante.

E allora, il 30 di gennaio del 2021, la sera, mentre la prole dorme o sembra che stia dormendo, uno si domanda che senso abbia tutto questo fare ricerca, tutto questo leggere, tutta questa letteratura...che senso ha Nabokov con le sue farfalle e la sua insonnia, o Moresco col suo Chisciotte redivivo e affatto folle o Belting con le sue analisi superbe delle maschere mortuarie...Che senso ha il romanzo di Milán Füst quando fa dire al suo narratore pazzoide frasi come questa?

"D'altra parte, se questo mondo non è fatto per l'uomo, allora per chi lo è? E perché dovrei prendermela se uno spirito superiore si diverte e gode nel vedere le inutili lotte della mia vita?" (id., p. 141).

Se il mondo non è fatto per noi, se la nostra anima è (sempre e da sempre) condannata a smarrirvisi, che senso ha lo stare su questa Terra?

Poi penso che l'ultima volta che io e il mio amico ci siamo salutati, davanti al mio hotel, nella periferia di Liverpool, vicino a un McDrive, ci siamo ripromessi di vederci in Spagna e che gli avrei fatto assaggiare le prelibatezze della cucina spagnola e che l'avrei invitato in uno dei posti più tipici del centro della città del Sud del Sud della Spagna in cui vivo e che suo fratello era anche lui invitato, claro que sí...

E chissà che tutto questo non accada. Prima o poi. Anche se il mondo non sembra un luogo ideale per l'essere umano. Anche se la nostra anima sembra sempre smarrita...

viernes, enero 29, 2021

 Il Chiosciotte di Antonio Moresco


Uno che conosce Antonio Moresco da anni, un lettore che lo segue dai suoi esordi, uno che ha amato la sua trilogia composta proprio da Gli esordi, Canti del caos e Gli increati, uno che ha ammirato anche l'onestà intellettuale e la critica spietata che del mondo letterario ed editoriale e culturale italiano offrono le bellissime Lettere a nessuno, sa già che prima o poi sarebbe finito con il ri-scrivere o con il re-incarnare il mitico personaggio cervantino. Antonio Moresco è Don Chiosciotte fin nei tratti somatici, come si evince chiaramente dall'immagine di copertina, in cui appare con un assurdo cappello pieno di piume colorate e in camicia da notte.

E così, era (quasi) inevitabile che Antonio Moresco pubblicasse questo nuovo Chisciotte (Milano, SEM, 2020), un libro stranamente breve, se guardiamo i romanzi pubblicati anteriormente, e stranamente a metà tra la scrittura narrativa più immaginifica e creativa e scoppiettante dell'autore (quella scrittura che il lettore affezionato considera, ormai, come un marchio di fabbrica, la cifra stilistica che lo rende uno scrittore unico) e la scrittura apparentemente veloce e neutra di una sceneggiatura.

E il punto è proprio questo: e cioè che quello che ci ritroviamo a leggere non è né un romanzo in senso stretto, né tantomeno una sceneggiatura nuda e cruda, bensì un mix originale tra i due generi (ma sappiamo anche che Moresco ama scardinare i generi e andare oltre le etichette di comodo - o che rendono più facile la classificazione - le succitate Lettere a nessuno sono anche il diario "dal sottosuolo" di uno scrittore che non riesce a pubblicare? Sono satira? Sono anche un ritratto della società e della cultura italiana del XX secolo? Che sono le Lettere a nessuno?).

Ciononostante, Chisciotte si legge tutto d'un fiato, anche perché leggendolo lo si vede, lo si visualizza in modo pregnante e a tratti davvero cinematografico: il lettore viene catapultato in modo così violento e veloce nel mondo "altro" del protagonista da non avere problemi a visualizzare tutti e tutto, i personaggi secondari e gli spazi descritti all'interno di un manicomonio (di una grande città forse italiana di cui non ci verrà mai detto il nome) che si chiama proprio "Miguel de Cervantes Saavedra"...

Ed ecco dunque la girandola dei personaggi, ognuno assurdo a suo modo e ognuno "poetico" a suo modo; c'è il primario, che Moresco vede bene nei panni di Walter Siti, che non fa che dondolarsi su un'altalena che pende dal soffitto; c'è Emily Bronte seduta perennemente sul water perché ha la colite; c'è un nano che fa i pesi (Giacomo Leopardi) e un individuo dalle orecchie enorme attaccate alla testa da due mollette (Franz Kafka); e poi c'è Dulcinea, che è tutta ingessata, tranne che all'altezza della vagina (e qui c'è uno dei grandi meriti della scrittura spericolata di Moresco: proporre una riflessione - anche se solo "en passant" - sulla sessualità (forse repressa) di Don Chisciotte e sulla rappresentazione fin troppo finta e idealizzata di Dulcinea del Toboso); e poi c'è Pinocchio, che dal romanzo di Collodi finisce in questa storia del XXI secolo; e la Piccola Fiammiferaia (che non si chiama proprio così, ma che è evidentemente la personificazione moderna della protagonista della famosa fiaba di Andersen); e poi c'è lui, ovviamente, Chisciotte, che non fa che contemplare gli altri, passeggiare nelle stanze del manicomio, spiare i personaggi ammirati e quelli temuti, spiare, soprattutto, la monaca che fa le abluzioni a Dulcinea (e lui confonde la "gnocca" con la "bocca" - il dialogo in cui spiega a Sancio la sua scoperta scioccante è davvero comico - erano anni che non ridevo a crepapelle leggendo un libro). E ad accompagnare Chisciotte nelle sue scorribande notturne c'è ovviamente anche Sancio, un infermiere giovane pieno di piercing e di tatuaggi tamarri, uno che pensa solo a dormire e a mangiare o a masturbarsi al pensiero di Dulcinea quando Chisciotte entra nei dettagli e gliela descrive nell'atto di sussurrare parole che non riesce a pronunciare (di nuovo, la vulva come la metonimia della bocca).

Non svelerò i punti nodali della trama, proprio perché in questa occasione Moresco costruisce una storia stringente, veloce, più "classica", se vogliamo, rispetto ai suoi romanzi "di sempre".

Sì, invece, mi azzardo a riportare uno dei primi dialoghi tra il primario e Chisciotte:

"Lei ha perso la ragione inseguendo queste chimere!", prorompe. "Come gli altri poveri folli che hanno scritto quei libri che le hanno divorato il cervello facendole scambiare per realtà l'immaginazione. Queste cose non esistono, non hanno più posto nel mondo, se mai l'hanno avuto. Si metta il cuore in pace. Anche gli scrittori di questa epoca l'hanno finalmente capito, sono diventati realistici, ragionevoli, si sono fatti furbi, intrattengono i lettori nel tempo che precede la loro e la nostra morte, stringono alleanze utili, si posizionano nelle istituzioni culturali, nei media, cercano di ricavare più che possono da questa cosa sorpassata a cui non crede più nessuno, pensano alle loro carriere, a come scalare posizioni, a come rimpinguare le loro carte di credito... Nessuno si aspetta più niente, a nessuno interessa più niente di questa sua pazzia. Lei è rimasto solo. Si guardi attorno: nel nostro tempo contano solo le quantità, i numeri, l'economia, la finanza,  gli spostamenti fulminei di capitali, i cavi oceanici, i missili, i droni, l'informazione drogata, le rapide comunicazioni in rete che si cancellano le une con le altre e colonizzano il tempo umano... cellulari, smatphone, messaggini, apriporte a distanza, chat, pastiglie erettive, vibratori..." (id., p. 20).

Si tratta di un "quadro della situazione" che Moresco ha già denunciato e descritto più volte in passato; si tratta di una posizione materialista, realista, e anche alquanto nichilista-disincantata contro cui occorre lottare e chi meglio di Chisciotte per cercare di remare contro, di usare la letteratura e l'immaginazione come armi che ci permetteranno di "sfondare" la rappresentazione mimetica della realtà per cercare di smontarne gli ingranaggi nascosti, le pecche più volgari, gli aspetti più ingiusti? Chi meglio dell'anti-eroe cervantino per usare la finzione per parlare della realtà da punti di vista innovativi, più originali, più inaspettati?

Non il miglior libro di Moresco, ma un libro che saprà trasportare il lettore verso un mondo "alla rovescia" in cui gente come Dante, Milton, Dostoievskij, Melville e i citati Kafka, Leopardi e compagnia bella diventano altrettanti Chisciotte o cavalieri erranti pronti a riportare un po' di bellezza e di coraggio in un mondo che ne ha tremendamente bisogno (oggi più che mai, potremmo dire con Moresco).

P.S.: sulla stampa si mette in risalto che per il ruolo di Dulcinea Moresco avrebbe già pensato a Valentina Nappi, la famosa pornoattrice. E io m'immagino come potrà essere il film, se davvero riusciranno a trovare un produttore pronto ad accettare la sfida di convertire in film il libro...Walter Siti come primario è perfetto; Carla Benedetti come la Madonna (la statua semovente della stessa) è perfetta; Sancio chissà chi potrebbe essere; Chisciotte, l'abbiamo già detto sopra, è lui...Antonio Moresco, in carne ed ossa, con la mente sempre allerta e l'immaginazione più sfrenata sempre pronta a ribaltare i rapporti tra verità e menzogna.

domingo, enero 24, 2021

 I Lacci di Starnone e la versione di Daniele Luchetti





E insomma, la vita è davvero strana: una collega m'invita a partecipare ad un ciclo su "Cinema & Romanzo" e mi "assegna" Caos calmo di Antonello Grimaldi tratto dal famoso romanzo del mio caro Sandro Veronesi e con il mio sempre ammirato Nanni Moretti, io accetto, la Cineteca pure e poi...il virus ci obbliga a posticipare e, infine, a convertire l'evento da "presenziale" a "online": dovrei registrare una mini-introduzione di 15 minuti, al posto della presentazione in Sala A, quella più grande (50 i posti a sedere con l'obbligo di mascherina e il distanziamento sociale prima che i contagi toccassero quote preoccupanti anche qui, nella città del Sud del Sud della Spagna in cui scrivo).

Poi, un'altra collega, una collega della mia collega italianista, mi dice che Caos calmo non è disponibile "in chiaro" e "online" e mi chiede di pensare ad un altro film. 

La mente mi corre subito a PPP (Pier Paolo Pasolini): uno dei pochi registi coraggiosi che ha trasposto il Decameron di Boccaccio al cinema; e se, invece, proponessi qualcosa di più contemporaneo? Un'amica mi suggerisce Gomorra, da Saviano, certo; un'altra mi fa l'esempio di Romanzo criminale, ma io non ho mai letto De Cataldo (anche se il film non mi dispiacque). E se puntassi sui classici? Di nuovo, dopo Pasolini, la mente viaggia verso Luchino Visconti, ma Senso, no, quello non posso sceglierlo io perché l'ha già scelto qualcun'altro e Il Gattopardo, miodio, cosa dire di un film così spettacolare in relazione a un romanzo così importante e innovativo? Non me la sento (e scarto La terra trema, perché se non è "in chiaro" Caos calmo, figuriamoci La terra trema - una delle versioni più liriche e potenti che si possa immaginare in rapporto al testo di partenza, I Malavoglia di Verga...).

Poi, per caso, mia sorella mi suggerisce Una questione privata, da Beppe Fenoglio: non ricordavo affatto che i fratelli Taviani avessero portato sul grande schermo uno dei capolavori della letteratura italiana di tutti i tempi, ma leggo le critiche e non sono molto positive. 

Poi, facendo zapping su internet, m'imbatto in Lacci, di Daniele Luchetti, tratto dall'omonimo romanzo del 2014 di Domenico Starnone.

Io e la mia compagna di avventure decidiamo di vederlo, ben consci del fatto che verremo interrotti dalla prole. Ho letto il romanzo nel marzo del 2016. Ma non ne ricordavo la trama. E subito sorgono i dubbi: perché Lacci mi fa stare male? Perché la Vanda invecchiata interpretata da Laura Morante mi ricorda qualcuno che ho conosciuto in passato? Perché tremo all'idea di diventare come il protagonista (interpretato da giovane da Luigi Lo Cascio e da anziano dal sempre bravo Silvio Orlando)? Perché, alla fine del film, mi resta un vago sapore d'amarognolo?

Sulla prima pagina del romanzo ho segnalato questa frase: "[...] si sono nascosti l'uno all'altra, ma non senza lasciarsi la mincaccia di scoprirsi in ogni momento" (p. 132). È una frase terribile, spaventosa, che ora non ricordo perché mi colpisse tanto, ma che riletta a distanza di anni e dopo aver visto la trasposizione di Luchetti nel 2020 (poco prima che scoppiasse la pandemia), ebbene, questa frase, composta da queste parole, assume tratti ancora più minacciosi, mi sembra ancora più apocalittica...

Non penso di optare per Lacci, se alla fine parlerò nel ciclo "Cinema & Romanzo"; il film non mi ha appassionato, non mi ha emozionato, è solo riuscito a farmi venire l'ansia di fronte a un futuro che potrebbe vedermi nei panni di uno che lascia moglie e figli per poi tornare a casa e convivere per 30 anni con una donna che chissà se ama davvero (e come sarebbe stata la sua vita se, invece, fosse rimasto con l'amante? Quanti se e quanti ma ci facciamo quando decidiamo d'intraprendere una strada e di abbandonarne inevitabilmente un'altra).

A letto, lei lo nota che sono in ansia e mi dice di calmarmi e che c'è tempo , c'è ancora tempo, non serve che ora mi metta a cercare su internet o sul dizionaro del cinema (il Mereghetti è sui monti abruzzesi, qui ho solo il Morandini). 

E a volte penso a quanto è bella e affascinante. E a quanto sono fortunato a condividere il mio tempo con lei...

E altre volte penso a quanto è labile il confine tra la felicità e la disperazione, tra la salute e la malattia, tra la vita e la morte...

miércoles, enero 20, 2021

 Un incubo assurdo (tanto per cambiare)





Stanotte ho avuto un incubo assurdo (tanto per cambiare); ho sognato che un caro amico d'infanzia del paesino sui monti abruzzesi in cui sono nato partiva in vacanza in nave diretto in Sardegna. Lo faceva per distrarsi dopo un lutto terribile: la scomparsa di sua moglie, una bella donna che gli aveva dato due bellissime figlie (lo sono davvero, nel piano della realtà, sia la moglie che le figlie). 

Nel sogno io non capivo: gli chiedevo come fosse successo. E allora il mio amico scoppia a piangere, disperato, mi abbraccia e mi spiega, tra le lacrime, che la moglie è morta mentre lo tradiva con un altro, un collega di lavoro, che a forza di giocare con uno dei suoi seni glielo ha strappato con le mani fino a farla dissanguare.

Provo a ragionare: sono ancora all'interno del sogno e provo a capire: seno; mano; sangue; collega; tradimento; amico d'infanzia. Che c'entra? Com'è possibile morire per un seno strappato? Sono angosciato. Disperato. Abbraccio ancora più forte il mio amico che, appena entrano in scena le due figlie, smette e si asciuga il volto con un fazzoletto. Poi parte, alla volta della Sardegna. 

Mi sveglio con la schiena che mi fa male. Sono a pezzi. Sconvolto e distrutto dalla notizia, tanto che vorrei scrivere un messaggio all'amico d'infanzia in questione, ma poi mi fermo. Non avrebbe senso e, probabilmente, non farei altro che spaventarlo (a nessuno piace sentir parlare degli incubi degli altri e se poi questi ruotano attorno alla morte e al tradimento della propria moglie, beh, allora ancora meno...).

Che significa? Perché un incubo del genere?

Intanto, dall'Italia, mi arriva il pacco coi libri che mi sono autoregalato: Chisciotte di Antonio Moresco e Le giovani parole di Mariangela Gualtieri. Prima d'andare all'Università leggo al volo qualche poesia di quest'autrice scoperta grazie a Jovanotti: "Preghiera a sua madre perché muoia" mi sconvolge ancora di più dell'incubo. Vi si leggono versi come questi:

"Muori ma', / muori stanotte dolcemente, / fra un respiro, fra i sogni, / e non restare nella carne / non intrattenerti ora, non distrarti / da questo andare imminente / tu sorridente mia, tu dolce, / tu signora allegra che non scendi più le scale".

Perché quest'incubo? E quant'è brava Mariangela Gualtieri? Quanto smuove la sua poesia?

martes, enero 19, 2021

 Rosemary's Baby (1968) di Roman Polanksi e l'Abruzzo



È ovvio che solo ad una seconda (o ad una terza) visione, lo spettatore (cinefilo) si accorge delle sottigliezze, dei piccoli dettagli, dei messaggi cifrati o nascoti (o nemmeno poi tanto nascosti) del film. È ciò che accade quando si ha a che fare con i "classici" e - diciamolo subito - Rosemary's Baby di Roman Polanski lo è.

Un esempio banale: quando Mia Farrow (o Rosemary) si ritrova dal ginecologo, sfoglia una rivista, un numero del Time e qual è il titolo? Quello che vedete in foto... Siamo già in una fase avanzata del film; la povera donna incinta sospetta già del marito e dei vicini di casa, forse membri di una setta satanica o forse indemionati e stregoni essi stessi ed è ovvio che sul Time non può non parlarsi della "morte di Dio", no?

E poi c'è la battuta dei due coniugi, gli allegri e vispi vecchietti che diventano amici della coppia protagonista del film e che si prendono una piccola vacanza: lasceranno l'America per andare in Europa e...tra tutte le città europee qual è quella che cita proprio il marito? Insieme a Dubrovnik e a Mallorca, appare Pescara...Pescara?! Sì, Pescara, la città abruzzese sulla costa adriatica in cui - da bambino e da adolescente - ero solito andare in vacanza insieme ai miei e agli amici... Ma perché proprio Pescara? Quali connotati demoniaci o esoterici ha intravisto un polacco emigrante negli USA come Polanski quando gira quello che è il suo primo film americano? (dopo averne girati altri in Inghilterra e dopo che ne girerà altri ancora in Francia?).

Ecco, io questo riferimento alla terra abruzzese proprio non me lo so spiegare...



E poi c'è l'autocitazionismo: come non pensare a Il coltello nell'acqua (1962) guardando questo fotogramma? E quando Mia Farrow cammina nei corridoi di una casa che si sta trasformando in carcere, come non ricordare la Catherine Deneuve di quell'altro capovoloro che è Repulsion (1965)? L'acqua come elemento simbolico in cui la protagonista (o i coprotagonisti) corrono il rischio di affogare; le pareti della proria casa come cornici di un delirio o confini labili tra realtà e finzione (e a proposito di case inquietanti, come non riandare con la mente e la memoria a L'inquilino del terzo piano, del 1976, dove sarà lo stesso Roman Polanski a gettarsi dalla finestra perché vittima degli scherzi e delle microviolenze dei vicini?).

E poi c'è il finale: quando Mia Farrow scopre la verità e si avvicina alla culla del bambino (ricoperta da addobbi a lutto) che le è stato sottrato e...scopre l'orrenda verità (che non vediamo - un'ellisse perfetta, sconcertante e che trasmette ancora più angoscia allo spettatore in ansia di vederlo, codesto neonato figlio di Satana...)


Film sconsigliatissimo alle donne incinte o a chi soffre di cuore, alla terza visione dimostra di essere ancora un'opera che sconvolge e perturba lo spettatore, che lo spinge a riflettere e ad avere una paura tremenda del Demonio. Film che dimostra ancora una volta come Polanski sia tra i pochi registi al mondo a saper giocare tra "horror" e "grottesco" senza mai scadere nel kitch

Film che vidi per la prima volta a Roma e di cui non capii nulla perché per la quasi interezza dello stesso m'intrattenni in sollazzi di tutt'altra natura con Alyssa, quando s'era giovani e si sudava allegramente insieme...

domingo, enero 17, 2021

Gli esami col virus


È la prima volta, in vita mia, che mi capita di fare gli esami nel bel mezzo d'una pandemia mondiale. Il virus lo si nota da subito, sin dall'appello: studenti in fila indiana, distanziati di un metro l'uno dall'altro, stranamente seri, dietro le mascherine che cancellano i nostri sorrisi o le nostre espressioni a metà tra la preoccupazione e la disperazione.

Un'alunna mi avvisa: appena finisco, devo consegnare e andare subito via perché sono in trattamento. Chemioterapia. Le faccio l'in bocca al lupo (sia per l'esame sia per la sua condizione di salute). Sorride. O meglio: intuisco che mi sorride, in quei pochi secondi che ci separano tra la consegna del testo e l'elaborazione dell'esame scritto.

Un'altra studentessa mi chiede se, una volta abbondonata l'aula, dovrà disinfettare la sua sedia e la postazione in cui si è accomodata. C'è un flacone e un rotolone di carta assorbente: non so cosa dirle né ricordo se quel tipo di operazioni le svolge la donna delle pulizie. Nel dubbio, le dico di sì, certo, ogni alunno, una volta consegnato l'esame, dovrà ripulire con il liquido disinfettante la porzione di banco occupata per fare l'esame.

Due colleghi sottolineano il successo dell'operazione: esami in presenza, per ora è andata bene. Qualcuno fa notare che lunedì dovrà fare comunque un paio di esami orali e "online" a due studenti col virus. Anch'io ne ho una, aggiungo. Domani l'esaminerò tramite videoconferenza. Ma in che mondo viviamo? Come siamo finiti qui? Perché ci siamo ridotti così?

Le più giovani indossano jeans stretti e scarpe da ginnastica, come se fare l'esame fosse un mero tramite, un'operazione di routine, come fare la spesa o pagare una bolletta alle Poste. Una più matura, madre di famiglia, non ho dubbi, mi sorride con gli occhi luminosi e mi ringrazia. Di cosa? Non lo so. Il collega dell'aula di fronte alla mia mi fa notare che donna elegante che è, che portamento, che signorilità. 

Poi andiamo tutti via. C'è un vigilantes che ci controlla la temperatura anche all'uscita. Ma perché? C'è una mamma che fa cenno alla figlia: è venuta a prenderla in auto, non si fida dei mezzi di trasporto pubblici. Un tram languisce all'ultima fermata, che è proprio quella che si trova di fronte all'Università. Il conducente mi guarda e, forse, mi sorride anche lui. Due piccioni si disputano poche molliche di una pizza rancida nei pressi del bidone della spazzatura. Uno stormo d'uccelli attraversa il cielo limpido invernale a velocità ridotta, come se viaggiassero al rallentatore. È venerdì mattina, il calendario indica il 15 di gennaio 2021 e noi siamo ancora alle prese con un virus che non si sa quand'è che riusciremo davvero a debellare. Né se - nel corso di questo nuovo anno - ci darà un minimo di tregua. Intanto, i morti aumentano, i contagiati pure. Speriamo aumenti anche il numero dei vaccinati e che il rimedio sia davvero il vaccino.

martes, enero 05, 2021

 Basilisco, di Jon Bilbao




Uno ci prova a farsi scivolare addosso il mal di testa e l'angoscia esistenziale che associa alle feste comandate; prova anche a non pensare al virus che ci impedisce di viaggiare e di tornare in Italia a rivedere (e, soprattutto, a riabbracciare) i parenti e gli amici; uno ci prova a essere positivo e ottimista, ma poi quando ci s'imbatte in Jon Bilbao, ecco che tutti gli sforzi sono vani, il mondo è davvero un labirinto da cui è impossibile fuggire, un carcere che prevede sempre la massima pena, un enigma irrisolvibile in cui la parola "fine" è solo l'inizio di qualcosa di peggio o di più doloroso...

E di che parla Basilisco (Madrid, Impedimenta, 2020), l'ultimo libro di Jon Bilbao (un autore  spagnolo relativamente giovane che ho scoperto relativamente da poco - ancora ricordo con i brividi sulla schiena la sua raccolta di novelle El silencio y los crujidos, del 2018)? È difficile rispondere a una domanda del genere quando si ha a che vedere con Jon Bilbao: si tratta di uno scrittore che si sente a suo agio sia sulle distanze corte (racconti e novelle) sia su quelle lunghe (romanzi e/o racconti lunghi: qual è la differenza tra una novella e un racconto lungo? Ai posteri l'ardua sentenza). Dunque, uno scrittore che quando scrive lo fa a prescindere dai generi letterari così come si è soliti concepirli; uno scrittore puro e di razza che quando scrive rischia tutto e si butta a capofitto in quello che sente l'urgenza di narrare (sì, perché si avverte questa urgenza quando uno legge Jon Bilbao).

Basilisco inizia come un romanzo ambientato nella nostra contemporaneità (la storia è quella di un ingegnere che vorrebbe fare lo scrittore e che è in aperta crisi matrimoniale con sua moglie e soffre a causa dello stress di crescere due figli ancora molto piccoli) e prosegue come un romanzo western o ambientato ai tempi della conquista dell'oro e della terra da parte dei cowboy americani così come li abbiamo conosciuti (e sappiamo riconoscerli) attraverso il cinema e il Mito americano della Frontiera.

Come si fa a riesumare il western in pieno XXI secolo? Ecco, uno dei meriti di questo romanzo è proprio questo: Jon Bilbao ci riesce, senza scadere mai nella parodia, né, tantomeno, nell'omaggio nostalgico o postmoderno. Qui uno legge e respira davvero la polvere e la fame di uomini che non sanno letteralmente dove li porterà la loro ansia di conquista, la loro brama di potere (ripeto: e dell'oro e della terra: le due cose vanno di pari passo).

Al centro della trama: una grotta, una sorta di enorme e apparentemente infinito buco nero scavato nella terra e che sembra condurre proprio al centro del pianeta. Un luogo sinistro e angosciante in cui è facile perdere i sensi e perdere il senno. Un luogo di cui, soltanto verso la fine del romanzo, il lettore attento potrà apprezzare tutto il valore simbolico e i significati nascosti. 

E non manca la poesia, in un testo pieno di violenza (qualcuno potrebbe pensare a Quentin Tarantino, che pure è tornato a rivitalizzare quel genere al cinema; ma no, qui si tratta di una violenza più sottile, meno esplicita e non per questo meno dura e scioccante). Non mancano, dicevo, brani in cui si apprezza lo sforzo dello scrittore di trascendere la consequenzialità degli eventi narrati per fermarsi a riflettere sulla bellezza di certi paesaggi e di certe frasi, di certi dialoghi e di certi panorami, il tutto attraverso un linguaggio altamente lirico e pregnante.

Basilisco è la prima lettura del 2021 e, almeno da un punto di vista strettamente letterario, partiamo col piede giusto. Non c'è dubbio. Chissà se e quando verrà tradotto in italiano. Una cosa è certa: Jon Bilbao farà parlare di sè. E non solo in patria. 

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...