domingo, febrero 24, 2019

Ulisse. L'ultimo degli eroi di Giulio Guidorizzi: un mito infinito


Ci sono opere letterarie destinate a permanere negli anni e nei secoli; opere che non perdono il loro fascino e che - anche a distanza di anni o di secoli - sembrano parlare proprio di noi, proprio a noi...lettori di quest'inizio del XXI secolo.

Una di queste opere è senza alcun dubbio l'Odissea di Omero; secondo alcuni, il primo poema epico della tradizione occidentale, ma anche il primo romanzo della letteratura europea. Si tratta di un "classico" che - per riprendere la famosa espressione di Italo Calvino - "non ha smesso di dire ciò che aveva da dire". Dentro c'è tutto o, meglio, c'è tutto ciò che ci rende esseri umani: l'amore, la passione, la guerra, la violenza, il tradimento, la nostalgia, gli affetti più puri e quelli più ambigui ed inclassificabili, l'ansia di conoscenza e la paura di sapere troppo...

L'Odissea è talmente potente, nei suoi contenuti, ma anche e, forse, soprattutto nel suo stile, che un lettore "attento" ed "inquieto" di oggi può riuscire a ri-narrarla coinvolgendo il lettore in una doppia ri-lettura: quella del testo originale, da un lato, e quella di un testo del tutto inedito in cui, a prendere la parola, sono quei personaggi (molti) che, in Omero, non ce l'avevano o parlavano poco o appena avevano modo di farsi sentire...

Ecco: è questa la doppia operazione che porta a termine (in modo egregio ed entusiasmante) Giulio Guidorizzi in Ulisse. L'ultimo degli eroi (Torino, Einaudi, 2018), un libro che si cala talmente tanto nell'Odissea da riuscire a farcene assoporare sfumature inattese o inaspettate, dettagli che forse nemmeno Omero aveva intenzione di svelarci del tutto, retroscena che si aprono sullo scenario principale e ci riportano indietro nel tempo, a quei giorni in cui l'Odissea la scoprimmo per la prima volta e la leggemmo tutta d'un fiato (anche quando non capivamo il senso di certi versi o di certe parole, ma non importa, a volte non bisogna capire tutto per apprezzare la grandezza di un'opera letteraria che ci parla di noi).

Io Giulio Guidorizzi l'ho scoperto grazie ad un altro lettore "inquieto" ed "attento", anzi, grazie al lettore più "attento" ed "inquieto" che conosca, ovvero, Piero Boitani (che ad Ulisse ha dedicato alcuni dei suoi saggi più belli, a partire da L'ombra di Ulisse che ebbi la fortuna di studiare a Villa Mirafiori, quando, studente di Lingue e Letterature Straniere, andavo a seguire le lezioni del Prof. Boitani, affascinato dal suo modo di leggere e interpretare i testi  - da Omero a Joyce, passando per Dante e Milton e T.S. Eliot e Borges e Shakespeare e tanti altri: quanto acume, quanta sensibilità, quanta erudizione e quanta passione ci metteva in quelle memorabili lezioni!).

E come non poteva essere altrimenti, Guidorizzi dedica il Prologo dell'opera proprio a Piero Boitani: "Il ritorno di Telemaco" s'intitola il primo testo che ci viene incontro in questo libro, un poema in cui è il figlio d'Ulisse a parlare in prima persona e a lamentarsi dell'avversa sorte... E già da qui capiamo che sarà proprio questa tecnica: cedere la prima persona narrante a tutti gli altri personaggi protagonisti (o co-protagonisti) dell'Odissea a rendere la lettura di quest'opera contemporanea un salto all'indietro (nel passato remoto delle nostre origini) e, al contempo, un salto in avanti (verso il futuro in cui ancora oggi si possono proiettare e capire le avventure dell'Odissea).

Impossibile riassumere le scene clou di quest'opera in cui si rivivono quasi in diretta gli affanni e le tribolazioni dei parenti più stretti dell'eroe (il primo, ma anche l'ultimo eroe della nostra tradizione culturale, perché dopo di lui si potrà - appunto - solo ri-scrivere il passato e l'opera che lo contiene, come dimostra Boitani nel saggio succitato). Mi limiterò a citare alcuni brani che mi hanno fatto venire voglia di andare avanti con lentezza: sì, perché non volevo arrivare all'ultima pagina, mentre leggevo questo testo; perché è stato bellissimo permanere per giorni e giorni all'interno di questo stesso testo, scritto con una delicatezza e una passione che non si trovano spesso nelle opere che costellano la letteratura contemporanea.

Ecco, dunque, Telemaco che s'imbatte in Nestore, vecchio compagno di battaglia di Ulisse. Il narratore ci dipinge la scena dell'incontro tra i due e riflette su cosa significava (all'epoca, per i greci) trattare bene un'ospite:

(p. 25): "Un ospite, uno xénos, è un dono degli dèi, insegnavano i vecchi ai più giovani. A chiunque un giorno sarebbe potuto capitare di essere accolto. Lo straniero doveva essere ospitato, e gli si dovevano offrire doni. E lui a sua volta poi avrebbe ricambiato. Nessuno appartiene soltanto a se stesso e alla sua famiglia, oltre questa cerchia ci sono altri uomini cortesi e generosi: lì si formava la rete delle amicizie e delle alleanze che si propagavano di generazione in generazione".

Ecco, basta leggere frasi come queste, alzare gli occhi dalla tastiera del pc (o dal foglio di carta, vergato a mano con la matita) e accendere le notizie del telegiornale, per rendersi conto di quanto attuale sia questo messaggio e di quanto venga calpestato oggigiorno nel Mediterraneo dei nostri antenati, di gente come Omero o Nestore, Telemaco o Ulisse...

E poi c'è la maga Circe, che ammalia e trasforma i suoi amanti in maiali o altri animali, ma con Ulisse è lei ad essere "ammaliata" e "stregata":

(pp. 57-58): "Ulisse sa come si raccontano le storie, parla e le parole escono dolci dalla sua bocca, in quella lingua strana che possiede tante parole per dire le cose; poi d'improvviso tace e ne pensa altre, migliori, mi guarda con i suoi occhi neri pieni di astuzia, e ricomincia a parlare. Mi ha raccontato cose vere e cose false per molte notti, dopo avere fatto l'amore, e su di noi la luna si è chinata molte notti ad ascoltare i nostri bisbigli, mentre eravamo sdraiati sull'erba morbida, e i fiori del mio giardino ci facevano da letto. Le notti sono dolci, qui, non soffia mai il vento".

E come dimenticare una descrizione così poetica, in un momento così passionale; e come non ricordare il finale: anche Penelope resterà a bocca aperta e vorrà ascoltare senza pause le storie che Ulisse inizierà a raccontarle dopo aver fatto l'amore (dopo 20 anni di assenza) su quel letto matrimoniale incavato nel tronco dell'albero che farà da "segnale" per il "riconoscimento" tra i due...

E poi c'è la discesa all'Ade, dopo le Sirene e dopo Calypso (che, come Circe, ha cercato di trattenere l'eroe a sè, offrendogli addirittura l'immortalità, ma Ulisse non ha ceduto, preferisce essere mortale): qui è lui a parlare in prima persona, è una delle poche scene in cui Ulisse si impossessa della voce narrante; Ulisse ha appena ascoltato la misteriosa profezia di Tiresia, quand'ecco che vede il fantasma della madre:

(p. 123): "Il mio cuore si riempì di dolore, e anche ora pensandoci le lacrime mi vengono agli occhi. Volli abbracciarla e mi gettai verso quella figura pallida che mi guardava e sembrava che solo i suoi occhi fossero vivi; volli abbracciarla, ma le mie braccia l'attraversarono come se fosse fatta di aria e me le trovai strette al petto. Tre volte tentai senza riuscirci. Quella è la sorte di chi muore: la carne si disfa, resta solo una bianca ombra senza forza, l'esistenza delle anime lì è un perenne dormiveglia, come quando ti ridesti per qualche istante dal sonno e poi cadi ancora preda dell'incoscienza".

Scena terribile, che ci lascia a bocca aperta e ci spinge verso gli abissi ontologici di ciò che chiamiamo (ancora oggi) vita e ciò che chiamiamo morte...

E poi c'è Penelope, la paziente, che ha dovuto tenere a freno l'ansia di potere e la lussuria dei Proci, senza sapere se e quando sarebbe tornato l'uomo di cui si è innamorata, il padre di suo figlio...

Ecco come ricorda il loro primo incontro amoroso; ecco come si sfoga, riflettendo su come i ricordi non svaniscono per sempre, perché l'oblio non scalfisce tutto il nostro passato:

(p. 175): "Siamo discesi e lì, sulla spiaggia, dove finisce l'onda, tra la terra e il mare, ci siamo abbracciati; sul fianco sentivo la carezza dell'acqua che si rompeva lieve sulla spiaggia, e le mani di Ulisse sul mio corpo bagnato. Fu quella volta, credo, che concepimmo Telemaco.
Questi momenti mi tornano di continuo in mente, e nel cuore ho il rimpianto che siano stati troppo pochi e passati. Se gli dèi potessero restituirmi qualcuno di questi attimi! Invece no, stanno solo nella mia memoria, e quando sarò morta quelle emozioni moriranno anche loro, non ci potrà mai essere nessuno che le ricorderà. Quante cose ingoia la morte! Non solo i corpi, ma, peggio di tutto, gli istanti, i ricordi e le emozioni che ognuno ha vissuto attimo per attimo e sono solo suoi, e svaniranno nel nulla. Il corpo è uno soltanto, le emozioni innumerevoli e tutte andranno perdute".

E ci fa tenerezza, questa Penelope che parla e riflette, perché mentre leggiamo i suoi pensieri profondi sappiamo che non è così, che non è vero quello che dice, proprio perché ne stiamo leggendo i pensieri, la letteratura può trattenere i pensieri e i ricordi, perfino quelli di personaggi che non sono mai esistiti e non hanno mai camminato sulla Terra, ma Penelope continua, anche se còlta dal dubbio:

"Forse c'è un luogo anche per queste cose, non è possibile che ricordi così vivi da sembrarti veri scompaiano come soffi di vento. Solo i poeti sanno fermarne alcuni; io ho cercato di mettere le mie sensazioni sulla tela, ma quando le racconti o le tessi sono diverse, non potrai mai trattenerle così come sono comparse nel tuo cuore".

E allora uno pensa a quanto ingegno dimostri anche Penelope; a come il tessere la trama della tela sia (tra le altre cose) metafora della scrittura di finzioni; a come Giulio Guidorizzi sia riuscito a far rivivere la scrittura di Omero; a come la vera letteratura ci aiuta a non perderci e a non perdere di vista la nostra umanità.

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