jueves, julio 28, 2011

Quando si vive in un paese straniero

E' una piacevolissima sensazione quella che si prova quando ci si trova a camminare per le strade di un altro paese, lontano dal nostro, lontano dalle nostre radici (dagli affetti familiari, dagli amici e dalle persone che ci conoscono, dalle strade che conosciamo a memoria e che ci portano sempre dritti a destinazione). E' bello sapere che qui, a Madrid, nessuno mi conosce (o almeno, sono pochi quelli che sanno della mia esistenza e - soprattutto - della mia presenza a Madrid in questi giorni). Ci si scopre diversi: "io non sono più io" quando sono a Madrid (o a Parigi, o a Berlino, o in un'altra qualsiasi città diversa da quella in cui vivo stabilmente). E allora, uno si sente libero di fare quello che, magari, stando a casa, non farebbe mai (come scattare delle foto assurde a degli assurdi cartelli pubblicitari o manifesti cinematografici di film altrettanto assurdi - la Spagna, più ancora dell'Italia, si lascia placidamente invadere dalle americanata; Spagna resisti! No ai "Puffi" in 3D, per cortesia!).

Il cervello agisce e reagisce ad una velocità superiore: o almeno, questo è quello che mi capita, quando passeggio per le strade del centro e non riesco a non captare spezzoni di conversazioni dei passanti o delle persone che mi trovo vicino, è come se il cervello fosse continuamente attento a captare le frasi e a tradurle dallo spagnolo all'italiano (diventano importanti anche i dialoghi più insipidi - o che, a casa nostra, in Italia, non avremmo degnato di un ascolto, nemmeno di uno involontario... come ieri sera, quando mi sono imbattuto in una madre sulla cinquantina che diceva alla figlia quindicenne qualcosa del tipo: "Che cosa vuoi? Cosa pretendi? Che cambi interamente?").

Non solo: quando uno vive da solo e vive all'estero, quando uno vive per molto tempo all'estero e frequenta a lungo una lingua straniera, inizia davvero ad essere "un altro", perché capita che si possa iniziare a sognare in lingua (a me è capitato, anche se sono solo 9 giorni che sono in Spagna: ho sognato di avere una discussione con un prof. che conosco nel suo studio della "Complutense"; parlavamo e discutevamo in lingua, una roba veramente alienante). E ci si domanda come sia possibile o quante strade nascoste o sotterraneo conosce il nostro inconscio, che ci fa parlare un'altra lingua in sogno...

E' bello anche perdersi, andare a zonzo senza meta, quando si vive da soli all'estero. E se questa cosa potrebbe farci arrabbiare se ci succedesse a casa, nella nostra patria, ci alletta e ci stimola, quando ci succede "fuori", all'estero, quando c'è ancora molto da vedere di una città che si conosce sì, ma non così a fondo come la nostra (sempre ieri sera mi è capitato d'imbattermi in un vecchio locale in cui andavo a ballare con le mie amiche qualche anno fa, un locale che è una sorta di discoteca in cui suonano soprattutto musica latino-americana; ritrovata così, per puro caso, senza volerlo).

Certo è bello, ancora più bello, quando, in una città che non è la nostra, ci si da appuntamento con i vecchi amici e si dispone di tutto il tempo per stare con loro a chiacchierare o a riaggiornarsi (come ti va? Sei poi riuscito a fare il lavoro che sognavi? Ti sei poi sposato? Sei divorziato? Non mi dire! E tu? Come stai? Quanto tempo che non ci vediamo...).


E allora la città, il paese straniero, ridiventano all'improvviso il set abituale della nostra vita quotidiana, qualcosa che fa da sfondo alle nostre giornate, qualcosa di assolutamente familiare, che ci culla e ci ospita e ci fa stare bene...

lunes, julio 25, 2011

Tu rostro mañana, di Javier Marías: saper leggere il volto delle persone, o dei "traduttori di vite"


Non ricordo più in quale occasione (e in quale articolo) lo scrittore spagnolo Javier Marías (più volte nominato tra i candidati più quotati nella corsa al Nobel per la Letteratura) disse che l'attività del romanziere si assomiglia per molti aspetti a quella della spia: chi inventa una storia, un po' come un investigatore privato o un agente segreto, deve appunto "inventare" (ovvero, dall'etimologia latina, "trovare", "scovare", "rintracciare") uno sviluppo eventuale, verosimile, potenziale alla storia che va costruendo e intessendo per il lettore; è vero pure che ci sono romanzieri che hanno "tutta la storia in mente"; ma ci sono pure quelli che "trovano" (e poi "scoprono") la storia senza sapere bene dove questa li porterà; inventano nel momento stesso in cui danno avvio ai fatti (e predono in mano la penna); scoprono insieme al lettore che legge la storia dove questa li potrà portare (mi viene in mente Cervantes: il Quijote doveva all'inizio essere soltanto un racconto breve; per l'esattezza, doveva finire all'altezza dell'attuale cap. VI; poi, la storia si è evoluta tanto - grazie al personaggio che, poco a poco, prendeva corpo nella mente dello scrittore - che è diventata un romanzo in due tomi); mi viene pure in mente Laurence Sterne, il cui Tristram Shandy si è allargato così tanto che l'autore irlandese non sapeva più come fare per chiuderlo; o penso anche a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, dell'ing. Gadda, un'altro romanzo complesso e infinito...). E, dunque, è piuttosto normale, leggendo il suo capolavoro, Tu rostro mañana (trad. it."Il tuo volto domani", a cura di Glauco Felici per i tipi di Einaudi - 3 volumi apparsi tra il 2002 e il 2007, per un totale, nell'ed. originale, di circa 1600 pagine), imbattersi in un narratore-protagonista che, in modo improvviso e alquanto inverosimile, entra a far parte di un gruppo di lavoro interno ai servizi segreti britannici (il MI5 e il MI6 - il primo si occupa di politica e sicurezza interna, mentre il secondo si occupa di spionaggio e controspionaggio estero). 

Jacques Deza (ma il narratore viene chiamato anche Jack, Jacobo, James, Iago) diventa, senza quasi volerlo, un impiegato di questa sorta di agenzia segreta (all'interno delle agenzie suddette) perché molto abile a "tradurre" il volto dei sospettati: sa leggere tra le righe e sa intravedere come pochi il carattere e le potenzialità degli individui che il suo capo, Mr Bertram Tupra, gli mostra da dietro i vetri di una specie di "cabina" o "vagone" di un treno. Jacques Deza conosce o intuisce o ipotizza con un minimo margine di errore se colui che ha davanti è un codardo, un killer spietato, una persona vendicativa o una pronta a cedere di fronte a minacce o ritorsioni violente.

Ci sono due scene - particolarmente efficaci, anche perché particolarmente crude - in cui Deza inizia a scoprire anche il risvolto negativo del mondo che frequenta (e non solo: inizia a capire anche che, più che un dono, questa sua capacità di "pre-scienza" può diventare una condanna; a nessuno di noi farebbe mai piacere poter intuire cosa pensa davvero la persona che abbiano di fronte). Una appare nella metà del secondo volume (intitolato in spagnolo "Baile y sueño", cioè, "Ballo e sogno") e l'altra, invece, appare all'inizio del terzo vol. ("Veneno y sombra y adiós", cioè, "Veleno e ombra e addio").

Nella prima scena il lettore si ritrova insieme a Deza all'interno di un bagno per disabili di una discoteca alla moda del centro di Londra: il suo capo, il temibile, perspicace, sempre molto pungente e ironico Tupra (una delle figure più misteriose dell'intero romanzo) sta per staccare di netto la testa dal collo di un diplomatico spagnolo rozzo e molesto; Tupra estrae dall'interno del suo impermeabile una spada e la solleva sulla testa del povero malcapitato per ben due volte, fingendo di sgozzarlo; Deza rimane impietrito di fronte a tanta violenza e si domanda perché oggi, nel XXI secolo, ci sia ancora qualcuno pronto a sfoderare una spada per raddrizzare i torti e piegare chi non ci da ascolto o ci crea solo problemi (la scena - come ammesso dallo stesso Marías - è una sorta di citazione o allusione all'episodio delle spade levate in aria nel corso del duello tra Don Chisciotte e il biscaglino di cui si narra sul finire del cap. VIII della Prima Parte; solo che l'azione si interrompe proprio sul più bello, nel momento della massima tensione narrativa, e potrà riprendere solo al cap. IX, solo dopo che Cervantes ci racconta di come sia riuscito a trovare il proseguimento di quel duello su uno "scartafaccio" trovato per caso al mercato di Toledo - l'interruzione di Javier Marías è altrettanto efficace: dovranno trascorrere varie pagine, prima che il lettore scopra davvero come andrà a finire - e vedrà come la spada di Tupra è brandita solo per spaventare a morte la vittima, e non per eliminarla sul serio).

La seconda scena, invece, vede Jacques Deza a casa di Tupra, subito dopo l'episodio del bagno dei disabili: è notte fonda, Deza è arrabbiato con Tupra, ma il capo ha ancora qualcosa da mostrare al suo allievo (o impiegato); si tratta di alcuni video terribili in cui il lettore scopre come lo Stato stesso (anche quando si definisce o si presenta come democratico) costruisce il proprio potere e mantiene saldo il rispetto della legge tramite il ricatto, la manipolazione e l'applicazione "pervertita" della legge stessa. Sono immagini frammentate, spezzoni quasi horror in cui vediamo personaggi famosi (o politici e rappresentanti dell'autorità) darsi alla droga, all'alcol, alla violenza gratuita, al sesso estremo, alle bassezze più truci che essere umano possa commettere.

Quando ci si avvicina alla fine di questa "opera-mondo", il lettore inizia a chiedersi cosa potrà mai fare, come potrà mai agire, allora, uno come Jacques Deza, uno 007 di questo tipo, un agente in grado di captare anche dal minimo gesto le intenzioni del prossimo: in un mondo in cui il male, la violenza e il sopruso costituisco ciò che Tupra stesso definisce "el estilo del mundo", come ci si può difendere? Cosa può fare il lettore che, insieme a Deza, va "inventado" (ovvero, "trovando", "scovando" e "scoprendo") la storia di una discesa agli inferi da cui sembra molto complicato risalire?

Tu rostro mañana è un romanzo costruito sul dubbio, con una prosa che ipnotizza, e che spinge il lettore a porsi domande cui è molto complicato trovare una risposta. Se è vero che anche noi, come Deza, sappiamo a volte "leggere il volto" delle persone che abbiamo dinanzi; se è vero che anche noi possiamo diventare "traduttori di vite", è pur vero che il mondo in cui viviamo ci impedisce troppo spesso di vedere chiaramente dove sta la verità (e dove il bene); oltre che di evitare la falsità (e il male). Anche perché i due poli, le due sfere d'azione, convivono (da sempre) dentro di noi. Nessuno conosce davvero il proprio volto (né quello presente, né quello che avrà in futuro).

miércoles, julio 20, 2011

Madrid: una città che ha ritmo nelle vene (delle sue strade)

Dopo quasi meno di un anno, sono di nuovo a Madrid, la mia seconda casa, la città che più mi piace al mondo, dopo Roma...

Madrid è una città cosmopolita, trafficata, ma non caotica; rispetto allo stress che dà Roma, Madrid è una sorta di paradiso terrestre; e così pure rispetto alla gente. Qui sorridono tutti; o almeno, non c'è così tanta gente incazzata come a Roma. Se mi limito a stamattina, e mi metto a fare il confronto (fatale) tra Roma e Madrid (due capitali di due dei paesi più importanti e ricchi dell'UE - almeno fino a pochi minuti prima della "crisi"), le differenze sono lampanti (e anche piuttosto allarmanti e tristi per l'Italia).

Ore 6,50: il trenino per Fiumicino Aeroporto è già in ritardo di 5 minuti. Il punto però è un altro: non è un trenino, usare il diminutivo per il carro bestiame che vedo spuntare all'orizzonte e che sembra fare fatica anche a compiere l'ultima curva è un complimento eccessivo; "ini" sono i sedili, così stretti che le ginocchia di due passeggeri che si trovassero l'uno di fronte all'altro cozzerebbero inevitabilmente (e con grande fastidio da parte di entrambi). Sembra di stare su un treno merci; su un carro di povere bestie condotte al macello; non c'è aria condizionata e la gente che prende il "trenino" per andare a lavorare suda e pazienta, pazienta e suda e mi domando: "Ma come fanno? Come fanno a sopportare ogni giorno una cosa simile?". 

Va aggiunto un dettaglio: il "trenino" l'ho preso da Roma Tiburtina per evitare di pagare 14 euro (che è il prezzo del "Leonardo Express" che si prende da Termini). Il mio, di biglietto, l'ho pagato quasi la metà (8 euro) e i tempi di percorrenza sono gli stessi (così come le fermate della "via crucis").

Altro piccolo dettaglio: del controllore nemmeno l'ombra. Lo capisco, se vuole evitare le proteste della gente. Ma tanto qui sembra che non protesti nessuno; forse il controllore è in un vagone nascosto dove funziona l'aria condizionata. O forse è sceso da solo alla seconda fermata perché non sopportava più l'afa.

Ore 13,05: Madrid, aeroporto di Barajas. Aria condizionata ovunque; la segnaletica che ti indica dove andare a prendere la Metro è chiarissima. Il biglietto per spostarsi (senza treni né taxi né bus) da Barajas al centro della città costa 2 euro. La Metro è incredibilmente moderna per occhi italiani come i miei (abituati alle povere Linee A e B di Roma capoccia). Non solo: qui i passeggeri chiacchierano. Sorridono. Qualcuno ride. Non sembrano pecore al macello: non sudano e non hanno il volto tirato. Si percepisce nell'aria che la città è viva. E la gente che vi abita vivace.

Madrid è una città che ha ritmo: la musica è onnipresente, per strada, nei negozi, nei supermercati (e certe volte il volume alto dà pure fastidio), dalle case private della gente. E il ritmo si percepisce nel modo in cui gli spagnoli e tutti gli altri cittadini che vivono a Madrid sfruttano la strada per farne luogo d'incontro, di svago, di pure e semplice divertimento.

A Madrid è facilissimo imbattersi in terrazze di bar e caffetterie piene di vecchiette che bevono birra e magari giocano anche a carte; o di intere famiglie che mangiano il gelato e chiacchierano a voce alta degli affari loro. A Madrid ho visto tre ragazzi neri fare il tip tap in centro e ricevere l'applauso generale dei passanti (qualcuno ha provato pure ad imitarli). E ho visto anche una ragazza coi rasta che cantava a squarciagola la sua canzone preferita ascoltata via cuffiette dall'Ipod (e che se ne tornava a casa in minigonna, da sola, a mezzanotte - senza avere paura, a quanto dava a intendere).

Insomma: a Roma devi uscire con lo scudo per difenderti dal prossimo e indossi la maschera del dolore rassegnato; a Madrid puoi uscire a qualsiasi ora e col sorriso sulle labbra perché tanto, prima o poi, un motivo per sorridere (o per ballare o per urlare a squarciagola il tuo pezzo preferito) lo trovi sempre.

viernes, julio 15, 2011

Sotto stress? Forse forse...(brevissima relazione sull'Italia di oggi, mentre la si attraversa tutta da Nord a Sud e viceversa)

Saranno ormai una decina di giorni che giro l'Italia, come mio solito, e più passano i giorni che spendo su pullman e treni e più mi convinco del fatto che l'Italia dei politici che ci governano poco o nulla ha a che vedere con l'Italia vera, fatta di gente che, come me, tira a campare per portare a casa la prosaica pagnotta ed è pronta a sopportare file, code, smargiassi, tirapiedi, mafiosi, leccapiedi, rompicoglioni, falsi e ipocriti, maneggioni e lestofanti di ogni sorta pur di fare quello che più ci appassiona (anche se è vero che è complicatissimo fare il lavoro che ti appassiona - e pochissimi ci riescono).

In questa settimana ho conosciuto molta gente nuova del Nord e del Sud Italia: e non è vero neppure che ci siano tutte queste differenze, quando le persone che incontri sono "persone", aperte e disponibili al dialogo, anche se l'accento che si adotta è diverso (ci sarà qualcuno, ogni tanto, che si sveglia la mattina e ricorderà a Bossi e co. che la Padania - in quanto stato - non esiste? Ci sarà qualche anima pia che li avvisi?). Ho visto, parlato, scambiato pareri su lavoro, e prospettive future per il lavoro (del futuro) con gente che va dai 20 ai 40 anni d'età e tutti mi hanno fatto riflettere su una cosa triste: nessuno ha più fiducia o molta speranza nel futuro. Ma una cosa è chiara: c'è ancora molta, molta gente disposta a lottare per realizzare i suoi sogni (e non in un altro paese, ma hic et nunc, qui e ora, in Italia, nel 2011). Ragazzi e ragazze col sorriso sulle labbra che, quando chiedi loro che lavoro facciano, ti rispondono: "Sono disoccupato", e lo fanno con un sorriso che sembra spegnersi, ma poi resiste, hanno il volto segnato, molti si sentono inutili, o impotenti, o inadatti a fare più nulla, e molti continuano a lottare: "Ma domani porto altri curricula, la situazione deve cambiare, non può piovere per sempre".


Agli esami orali della mia materia arrivano ragazzi che non sanno più mettere in fila due parole: sbagliano le congiunzioni dei verbi, tentennano, si ingarbugliano, forse non sanno nemmeno più cosa vuol dire leggere un libro e capirlo, e qualcuno lo boccio, e qualcuno lo promuovo con il massimo, perché sì, esistono anche quelli che continuano a studiare e ad avere curiosità intellettuale per le cose che non conoscono; a una grande maggioranza di persone poco o scarsamente preparate (e qui bisognerebbe indagare a fondo cosa si fa per la scuola e cosa la scuola fa davvero per questi ragazzi) fa da contraltare una piccola, selezionata minoranza di ragazzi in gamba, brillanti (i futuri cervelli in fuga del paese?).

E mentre ripenso a come è stato bello conoscere anche quell'amico regista che fa film horror a basso costo e a come è stato emozionante recitare in un suo corto (particina: ero il morto, morivo alla seconda inquadratura, senza avere nemmeno il tempo d'esclamare una parola), e mentre rifletto su quanti chilometri ancora m'aspettano, e mentre il caldo di questi giorni m'impedisce anche solo d'accendere il computer per vedere un film o ascoltare un po' di musica (Radiohead a palla), penso a quanto è difficile vivere oggi in modo degno in questo paese, e a quant'è bello, comunque e nonostante i mille problemi, vedere che in giro c'è gente completamente opposta a Berlusconi e co., che cerca di fare bene il proprio mestiere, che cerca di non farsi incantare dalle chiacchiere della gente (cfr. supra fotogramma del grande Buster Keaton - in mezzo agli "imbonitori"), e che prova a realizzare i propri sogni in mezzo a situazioni complicate e tristi e a problemi secolari che chissà se un giorno riusciremo mai a risolvere e a scrollarci di dosso... 

domingo, julio 03, 2011

Quando la moglie è in vacanza (1955) di Billy Wilder: l'eterna lotta tra istinto e razionalità

Ieri sera, con imperdonabile ritardo, quand'era l'unico film di Billy Wilder che mancava al mio personale appello, ho visto finalmente Quando la moglie è in vancanza, film del lontano 1955, interpretato da Tom Hewell e dalla fantastica (e, qui, in forma più che mai smagliante) Marilyn Monroe.


Il film ha una trama semplice e lineare e ciò che lo rende (ai miei occhi) altamente interessante è proprio il fatto che il regista sia riuscito a creare un film brillante e mai noioso, interessante e mai lento sulla base di una trama tanto semplice e tanto lineare. 


Un "uomo medio", un impiegato che di mestiere "erotizza" titoli e copertine di romanzi classici e non, si ritrova da solo, come la maggior parte dei maschi americani che vivono a Manhattan, dopo aver accompagnato moglie e figlioletto alla stazione: loro si daranno alla pazza gioia delle vacanze; lui resterà a gestire il lavoro e la casa, cercando di far fronte all'afa della metropoli.


In realtà, questo "uomo medio" o borghese modello ci assomiglia parecchio: è il tipico frustrato che non fuma e non beve perché così vuole il medico; il tipico marito che sopporta le prediche della moglie per il comune quieto vivere; il tipico lavoratore che sogna una vita migliore. E il bello è che sogna ad occhi aperti: prima un dialogo in terrazza con la moglie appena partita (il dialogo è esilarante: sia perché lo spettatore sa bene - lo vede con gli occhi - che quella moglie è solo un fantasma o proiezione mentale del protagonista, sia per le parole che lui rivolge a lei, con l'intenzione di suggerirle che in passato è stato un playboy di spicco, uno cui le donne piovevano tra le braccia e senza volerlo, uno che le donne le ha perfino rifiutate in nome della fedeltà al sacro vincolo del matrimonio...); poi una serie citazionista di avventure romantiche con fanciulle procaci che non sono altro che una serie di omaggi a scene da film famosi (e qui, più che il protagonista è Billy Wilder stesso a sognare ad occhi aperti e a omaggiare alcuni film del passato - recente e lontano - da lui amati).


Quando la moglie è in vacanza è un film sul cinema: sulla potenza dell'immaginazione; sulla capacità tutta terrena che abbiamo di forgiarci un'altra realtà quando quella che viviamo e in cui siamo costretti a vivere ci sembra brutta, triste e affatto allettante.


Il punto è che a un certo punto è la realtà stessa a far sognare ad occhi aperti Richard Sherman (questo il nome del personaggio dell' "uomo medio"): al piano superiore del suo palazzo va ad abitare in affitto "la ragazza" (nel corso del film non sapremo mai come si chiama), interpretata dalla prorompente Marilyn Monroe, qui chiamata ad incarnare un tipo di donna che conosciamo tutti: la svenevole fanciulla un po' ingenua e un po' scemarella che tutti (i maschi eterosessuali) vorrebbero portarsi sull'altare (oltre che - magari anche prima - a letto).


Sherman la invita a bere qualcosa da lui; ha l'aria condizionata, e del wiskey. Comincia a bere e a fumare, contravvenendo agli ordini di medico e moglie; suona un motivetto musicale davvero divertente al piano con la ragazza; e poi prova a baciarla e a toccarla con un certo impeto, finendo con il far cadere entrambi per terra.


Siamo tutti stressati dalla dicotomia costante e continua tra "senso" e "ragione", tra "istinto" e "razionalità". C'è poco da fare. Nessuno si salva. Nemmeno un marito fedele e modello come Sherman. Dubbi su dubbi, anche quando, la sera successiva, riesce a convincere la ragazza ad andare al cinema insieme (per vedere un filmuccio horror di serie B - Il mostro della laguna?): basta una grata da cui fuoriesce dolcemente l'aria della metropolitana sottostante per sollevare la bianca gonna di lei e offuscare la vista al borghese che non sa che pesci pigliare (ecco uno dei rari casi di "scena cinematografica" che ricordano o hanno visto tutti, anche coloro che non hanno mai visto - per intero - il film).




I dialoghi sono sempre veloci, divertenti e acuti; l'ironia maliziosa che li permea fa sorridere lo spettatore contemporaneo; certe invenzioni o trovate scenografiche ci fanno pensare a com'era bello quel cinema degli anni 50 e a quanto dovevano essere felici gli spettatori che andavano a vedere questo tipo di film nei cinema americani di quegli anni lì (cfr. la "scala che non porta in nessun posto" dell'appartamento di Sherman e che, invece, risulta condurre proprio all'abitazione del piano superiore della ragazza - la quale, una volta scoperto come fare per aprire la botola, si presenta in casa in vestaglia semi-trasparente; la scusa è sempre la stessa: "tu hai l'aria condizionata, su da me si soffoca dal caldo; posso restare a dormire da te? Anche il divano mi va bene").




Unico neo che ho riscontrato (e che forse ci possiamo spiegare rapportando il film e i contenuti maliziosi dello stesso al clima culturale e sociale di quell'America lì di quegli anni 50 lì) è il finale. Un po' ci dispiace che Sherman si mantenga per tutto il tempo fedele alla moglie in vacanza; e suona davvero inverosimile che non ci scappi nemmeno un bacetto con lingua, vista la bellezza della ragazza che Sherman si trova davanti... Ma erano altri tempi, altri luoghi e un'altra mentalità... Oggi siamo sicuramente più cinici, più freddi e meno romantici di una volta, anche quando si lotta tra "istinto" e "ragione".

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...