domingo, diciembre 22, 2019

Compiti per le vacanze


Si avvicina il Natale e, come ogni anno, a me inizia a prendere una certa smania di allontarmi dal mondo e dai familiari, anche se mi piace stare al mondo e adoro i miei familiari e sono anche a favore del concetto di "famiglia" quand'essa contempla la possibilità di riunirsi ogni Natale per scambiarsi i regali e farsi quelle confessioni che non si è soliti fare nei giorni lavorativi del resto dell'anno.

Si avvicina, sì, anche questo Natale e le illuminazioni natalizie e gli addobbi coi Babbi Natale che cercano d'arrampicarsi su per i cornicioni dei palazzi mi mettono una tristezza infinita; perché?, uno si domanda, guardandoli penzolare in balia del vento...perché? E poi, scusate, ma i Babbi Natale non si calavano dai tetti per i comignoli dei camini? Perché sui tetti non vedo più così tanti comignoli come quando ero bambino?

Si avvicina, oh, se si avvicina il Natale, e il fatto che quest'anno lo passi lontano dall'Italia e dai miei familiari non cambia affatto le cose, lo stato d'animo è quello: avrei voglia di rintarmi in un bunker sotterraneo in uno chalet in mezzo al bosco di una montagna sperduta e ricoperta di neve; una volta lì dentro, in una sorta di auto-esilio dal mondo esteriore, mi metterei a leggere i libri che non sono riuscito a leggere mentre facevo lezione e correggevo esami e tesi e tesine e scrivevo articoli e recensioni per gli altri e, insomma, leggevo e studiavo di tutto tranne i libri che avevo in mente da una vita... E poi via con la passione cinefila: per me il Natale è sempre stato il periodo perfetto per rintanarsi in casa e vedere i film horror, anche quelli più beceri e vecchi, anche quelli più visti e rivisti nel corso degli anni (soprattutto quelli degli anni 80, che sono gli anni d'oro del genere, come tutti sanno).

Guardo la copertina di Atti osceni in luoghi privati, di tale Marco Missiroli (uno di quei libri che avevo in lista da tempo) e, quasi per farmi dispetto, la coscienza si risveglia per ricordarmi i molti impegni presi: altro che horror, altro che letture piacevoli e rilassanti!

Svanisce il bunker e pure lo chalet; svanisce pure la montagna innevata e appare la mia scrivania del mio paese arroccato sui monti abruzzesi; sopra la scrivania una pila di saggi da recensire (per l'esattezza: 1 - sui rapporti tra cinema e letteratura; 1 - su Antonio Enríquez Gómez, scrittore converso di cui nessuno sa nulla; 1 - su un'opera teatrale minore del gigante Tirso de Molina; 1 - su Walter Benjamin e le sue Illuminazioni...); e poi 3 articoli da finire e inviare ad altrettante riviste accademiche: 1 - su un romanzo che narra fatti realmente accaduti; 1 - su un romanzo distopico di Ricardo Menéndez Salmón di cui ho scritto anche in questo "diario di bordo"; 1 - su un autore che non legge nessuno, quello stesso Juan Benet di cui ho scritto anche qui...(e il più urgente, quello che non può proprio aspettare è proprio quest'ultimo, accidenti, un autore ostico, uno scrittore che ti sfugge da tutte le parti proprio quando sembra che ce l'hai in pugno e l'hai capito e invece...col cavolo!).

E poi ci sarebbe da rivedere la traduzione e da scrivere una post-fazione di circa 20 pagine; chi mi aiuta a leggere il testo in italiano per vedere che scorre, senza troppi influssi dallo spagnolo? Un'impresa...

Arriva il Natale, sì, certo, e io avrei voglia di spegnere le luci dell'albero che mia madre avrà preparato con tanta cura; e di spegnere le illuminazioni da discoteca del presepe; e la tv che si riempie di programmi che inneggiano alla bontà universale... Sì, arriva il Natale e io sento una forte necessità di scomparire...e di non pensare più al dovere e di dedicarmi anima e corpo solo al piacere, senza nessuno attorno.

P.S.: apro l'email e trovo gli auguri della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. La cartolina, però, è davvero bella. Ed è per questo che apre questo "post".

viernes, diciembre 20, 2019

S-variare



A volte la vita ti sorprende: vivi come se fossi all'interno di un film, di una sceneggiatura scritta da un regista schizofrenico o poco attento alla verosimiglianza, un'opera teatrale in cui saltano le fasi di "inizio-sviluppo-risoluzione finale" e tu ti senti come un burattino nelle mani di un Dio crudele, sadico e con un dubbioso sense of humor.

Un raffreddore molto forte e fastidiosissimo può essere il motivo scatenante di questa vita che uno vive come se ogni sera dovesse pirandellianamente recitare a soggetto: un'amica ti scrive da Madrid e ti confessa che oggi ha alzato un po' il gomito e che "dovevi vedermi a pilates, mezza ubriaca, sbandavo e l'insegnante non sapeva che mi stesse succedendo, temeva fosse lei a spiegarsi male e, invece, no, cazzo, non era lei, ero io che tremolavo e sbandavo". Te la immagini così come si descrive al telefono e poi t'immagini in sua compagnia, due ubriachi fradici, intenti a percorrere per intero la Gran Vía mentre rimembrano il passato (un passato fatto anche di alcol e droghe leggere, di gelati e lunch nei pressi del Museo del Prado, di confessioni "hot" e di battute sconce).

Nel mentre, devi comunque finire di correggere gli esami e presentarti alla Cineteca per presentare un collega che presenta L'attimo fuggente (titolo originale: Dead Poets Society, del lontano 1989, diretto da Peter Weir; titolo in spagnolo: El club de los poetas muertos, molto più fedele all'inglese della versione in italiano) nell'ambito di un ciclo che inventasti un anno fa insieme ad un'altra tua collega cinefila; e gli starnuti e il mal di gola  e il mal di testa e l'impossibilità di ascoltare in modo chiaro e netto la voce del professore che presenta il film e che tu presenti agli spettatori non t'impedisce di captare dei ragionamenti molto interessanti, come, ad esempio, quello che il professore fa attorno ad Alphaville di Jean-Luc Godard, un film distopico e di fantascienza del 1965 e di cui tu non ricordi quasi nulla... Il professore tuo collega molto cinefilo afferma che il film è pieno di citazioni dai versi delle opere di Paul Éluard; e ti sembra tutto molto scioccante: ma come? un film di fantascienza (ambientato in un futuro oscuro) che parla dei versi di Paul Éluard? Ma come diavolo ti è sfuggito un dettaglio simile? E non ricordava, piuttosto, 1984, il film di Godard (che è in bianco e nero, quello sì, lo ricordi benissimo)?

La proiezione è un successo; ragazzi e adulti, anziani e uomini di mezza età che si esaltano ad ascoltare i discorsi di Robin Williams in piedi sui banchi (scene topiche e, non per questo, prive di quella potenza retorica che ci ammalia sempre al cinema, quando il cinema ruota attorno alle idee "forti" e - come in questo caso - esalta il potere trasformatore e rigeneratore della poesia).

Traballi all'uscita dalla Cineteca e i dialoghi che capti per strada sono altrettanti scampoli di conversazioni assurde ripotarte in quella stessa sceneggiatura teatrale (o cinematografica) scritta da un Dio cinico e senza pietà: sballotti tra coppie che si giurano amore eterno e mamme e papà con le carrozzine piene di bimbi urlanti. Le illuminazioni natalizie contribuiscono ad accentuare il senso d'irrealtà.

Poi ti butti sul letto stranamento vuoto (perché tanto silenzio in casa? Dove sono i miei figli? Dove mia moglie?) e pensi che con tutto questo silenzio potresti finalmente finire di scrivere quel racconto che iniziasti il 25 Giugno del 2019...

Poi ti svegli in un'altra città. Un gruppo di alunne (tutte molto carine) ti chiedono di farsi una foto con loro; una foto per immortalare un anno accademico nel corso del quale ti confessano che hanno imparato molto grazie a te e alle tue impeccabili lezioni di letteratura.

Poi sogni di proiettare "This is water", il discorso che David Foster Wallace dedicò ai laureandi di un'Università americana (di prestigio) nel 2005, pochi anni prima di suicidarsi; lo mostri loro in originale, con i sottotitoli in spagnolo; qualcuno prende appunti e t'ispira tenerezza; quando lo scrittore parla di "scegliere cosa pensare" ti viene in mente il film di Peter Weir sui "poeti morti"; quando poi descrive la ragione in quanto signora e padrona dei pensieri di alcuni di noi, quando Foster Wallace afferma che i suicidi sono soliti spararsi alla testa proprio per zittire per sempre questa padrona e signora che tanto può arrivare a renderci suoi schiavi, ti viene da piangere (noi sappiamo cosa è successo dopo, noi conosciamo la fine amara di Foster Wallace - anche se non ha usato un'arma da fuoco per farla finita, o questo ti sembra di ricordare quando leggesti la triste notizia sul giornale, per puro, purissimo caso, prima di diventare un lettore vorace di tutto ciò che Foster Wallace scrisse quand'era ancora in vita).

Infine, ti svegli a casa di tua suocera; tua moglie ti manda una foto da Barcellona; si vede l'ingresso dell'Università e un'enorme bandiera repubblicana (ma la Spagna è una monarchia parlamentaria, lo sanno anche i sassi).

Il raffreddore non migliora; l'udito sì. Ci senti meglio. E ripensi al fatto che il primo quadrimestre si è concluso e che da domani, 20 di Dicembre, sarai in vacanza. Magari prostrato a letto e con 38 di febbre, ma, finalmente, per Dio, in vacanza...

Chi ha scritto queste ultime puntate? Dov'è la parola "Fine"?

miércoles, diciembre 11, 2019

Che fine hanno fatto?



Mentre ascolto La luna piena cantata da Jovanotti, mi vengono in mente delle persone che ho solo intravisto per una frazione di secondi, nella mia vita, e che per motivi diversi mi hanno lasciato una certa impressione indelebile nella memoria; persone di cui non conosco il nome e che, una volta sparite dal mio orizzonte visuale, non sono mai più tornate in vita, come se fossero morte o come se fossero cadute in un buco nero (il buco nero dell'oblio? Non proprio, perché se le ricordo ancora oggi, queste persone, un motivo ci deve essere).

Dunque, rimembrando a casaccio, ecco la bibliotecaria che fuma come un turco, pacchetti di Marlboro rosse, come quelle che fuma anche mio padre... Ha il viso simpatico di una donna di mezza età (dunque, e stando agli assurdi parametri attuali, una donna sui 60 anni) e indossa il camice bianco da infermiera: mi sorride sempre, è sempre stata molto gentile con me, mi ha sempre trattato con un certo rispetto e con enorme professionalità, quando, al bancone, ho fatto una richiesta particolare o ho chiesto il favore di prolungare un prestito... 

Mesi e mesi di gesti quotidiani ripetuti ad libitum e poi, all'improvviso, il mio personale "angelo custode" della Biblioteca non c'è più: c'è una collega che la sostituisce e che allude a gravi motivi di salute (con tutte quelle sigarette!); un'altra che ammette di non sapere se lavora ancora lì da loro; un'altra che svicola la domanda, evita di rispondere, non vuole impicciarsi degli affari di una collega...cara bibliotecaria dal sorriso sempre smagliante, nonostante le mille sigarette, sarai ancora viva o sarai già finita nel regno dei più?

E poi c'è un'altra signora, questa volta completamente sconosciuta, una bionda, bella e alta, slanciata ed elegante, pur essendo casual, con cui m'imbattei tanti anni fa a Trento (era la primissima volta che mettevo piede a Trento e rimasi affascinato dai paesaggi innevati delle montagne che ti circondavano ovunque, a 360 gradi)... La seguii, per un tratto, e a un certo punto sembrava che fosse lei a seguire me, perché io cercavo la Feltrinelli e lei sembrava dirigersi proprio verso la Feltrinelli. E iniziai a fantasticare e ad immaginare un nostro incontro galante (io avevo sui 30 anni all'epoca; la sconosciuta, come la bibliotecaria, il doppio). Indossava un giubbotto di pelle nero, dei jeans consumati all'altezza delle gambe, un paio di stivali con i tacchi a spillo; avevo iniziato a trovare una scusa per attaccar bottone, ma poi non ebbi proprio il coraggio di avvicinarmi; stavo già immaginando una scena porno sul letto dell'albergo in cui alloggiavo; sentivo già il sangue ribollirmi nelle vene; poi avvistai la Feltrinelli e lei entrò da un'altra parte (Zara, Benetton, un negozio di vestiti, ora non ricordo) e io mi nascosi in una fumetteria apparsa anch'essa all'improvviso...il viso arrossito dalla vergogna, il fiato corto, la pippa mentale attorno all'incontro svanito senza essere nemmeno cominciato...come mi era venuta in mente una cosa simile?

E poi c'è una giornalista, quella giornalista. È una donna bassa e grassa dall'aspetto incupito, una persona che non trasmette serenità, anzi, una da cui ci si sente subito respinti. Entra in aula alle 9 e 10, in anticipo su tutti, anche sugli alunni; il congresso inizierà alle 9 e 30 e non capisco cosa ci faccia qui questa giornalista; mi saluta come se ci conoscessimo da una vita e, sfoggiando un sorriso falsissimo, mi dà del lei e m'inizia a fare una serie di domande sulle tematiche che affronteremo nel corso della giornata, su chi sono gli ospiti, sul perché vogliamo fomentare la lettura tra i giovani.
Io rispondo come posso, sono ancora mezzo addormentato e nessuno mi ha parlato di un'intervista da concedere prima dell'inizio del congresso. Le chiedo per chi lavora; mi risponde per una radio locale di cui non avevo mai sentito prima il nome; poi mi ringrazia e io le stringo la mano, umida e viscida, e fa sparire il microfono e un microregistratore (perché un'attrezzo simile quando i cellulari anche più banali sono dotati della funzione di "registrazione"?). Entra un mio collega e mi chiede chi sia quella donna. "Non lo so", mi sento rispondergli, con la faccia da ebete, con l'incertezza che mi spinge a chiedermi perché abbia davvero sentito l'urgenza di rispondere alle domande di una perfetta sconosciuta.
E se non lavorava affatto per la radio di cui mi ha parlato? E se non era affatto una giornalista?

Che fine hanno fatto questi tre fantasmi del passato? E perché continuo a ricordarmene? Sono tutte e tre donne; due su tre hanno l'età di mia madre (o quasi); una avrei voluto perfino portarmela a letto; l'altra mi fa pena (e se ha un tumore ai polmoni?) e l'altra mi repelle...Ma perché?

Juan Benet soleva dire che "la memoria è un dito tremante"; ed in effetti non possiamo dargli torto: il dito prova ad indicare il verso giusto, a segnalare la persona esatta con cui si è parlato, con cui abbiamo avuto un qualche minimo contatto visuale, ma non ce la fa, il dito trema, tremola, tentenna, indica persone che non coincidono più con quelle che abbiamo visto in passato, che abbiamo desiderato o temuto nel nostro passato e non c'è modo di sapere dove si sia cacciate, dove siano andate a finire, se davvero sono andate a finire da qualche parte.

domingo, noviembre 24, 2019

Il colibrì (2019) di Sandro Veronesi: un romanzo che lascia il segno, come si suol dire...


Fermo restando che sono un fan di Sandro Veronesi, e premettendo che attendo sempre con ansia e gioia l'uscita di ogni suo nuovo romanzo, dobbiamo dire che Il colibrì (l'ultimo suo parto - ci ha messo 4 anni a scriverlo, da Roma "e tanti altri luoghi", come recita l'ultima sezione del libro) non è il suo miglior romanzo, essendo - a mio modesto parere - "il" migliore "La forza del passato" (del 2000).

E però, nonostante le sue imperfezioni, nonostante le sue pecche, nonostante le sue esagerazioni, nonostante tutto, insomma, Il colibrì è un romanzo che lascia il segno, come si suol dire, e che spinge a riflettere e ad emozionarsi, a fare il tifo per Marco Carrera, l'oftalmologo protagonista degli eventi, e a non vedere l'ora di vedere come va a finire la storia di questo personaggio, essendo la suspense una tecnica che Veronesi usa e distilla al millimetro con vera maestria da scrittore che ha anni d'esperienza alle spalle (e un XY risalente al 2010...).

Ma veniamo al dunque: Il colibrì fa riflettere ed emoziona perché tocca argomenti universali che riguardano la specie umana da che Homo Sapiens è sulla terra: l'amore, la morte, i contrasti familiari e tra le generazioni, la capacità che abbiamo (o che non abbiamo quasi mai) di gestire il dolore e il lutto, la capacità che abbiamo (o che abbiamo solo a volte) di rimetterci in piedi, dopo un dolore o un lutto che sembrano paralizzarci...

E Veronesi fa questo (parla di queste cose, di questi, diciamo così, "argomenti universali", di questi nodi cruciali per ognuno di noi) con uno stile apparantemente semplice, un tono affabile, un lessico colloquiale, e invece...

E invece non è proprio così, perché basta stare un po' attenti e ci si rende conto che molti brani li scrive assumendo il tono e lo stile, la voce del Dio del Vecchio Testamento, ovvero, di un dio supremo e spietato che tutto sa e tutto conosce e a cui nessun destino umano (o sovraumano) può sfuggire...E allora uno pensa anche all'altro libro "recente" di Veronesi, che s'intitola "Non dirlo"  (del 2015) e che è una sorta di commento appassionato (da scrittore e da letterato, da intellettuale non credente e da cinefilo) del Vangelo secondo San Marco e nota che tutti i passaggi scritti per esaltare il futuro "nel" passato (o il futuro "del" passato) suonano a Vangelo o a Bibbia, fanno venire i brividi ed emozionano proprio perché a scriverli sembra essere un Essere Superiore che sta al di là del bene e del male e che non sembra preoccuparsi più di tanto per gli strazi delle marionette che usa a suo piacimento.

E poi ci sono le lettere che si scambiano "ottocentescamente" Marco e Luisa, un amore nato in spiaggia, lui poco più che ventenne, lei appena quindicenne, e andato avanti per tutta la vita, praticamente, nonostante ognuno dei due amanti abbia preso strade completamente diverse e si sia sposato con terzi e abbia avuto figli con questi terzi...una a Parigi, l'altro a Firenze... "Due deficienti", come li definisce giustamente questo narratore in terza persona e onnisciente che gioca a fare Dio... Due romantici fuori dal coro che continuano a credere a un amore platonico e che, l'unica volta che hanno modo di consumare, in albergo, evitano il tutto giurandosi sadomasochisticamente "astensione carnale" totale, un'assurdità, appunto e vista con gli occhi del presente.

Ecco: il tono che assume il narratore onnisciente e lo scambio epistolare tra Marco e Luisa; sono questi i due punti forti di questo romanzo che mi ha portato fino alle lacrime (nella scena finale e conclusiva che non svelerò, ovviamente, per non togliere il piacere a quelle due o tre lettrici che ancora mi leggono) e che mi ha fatto riflettere ed emozionare nel corso dei 3 giorni che è durata la lettura (intensa e appassionata) del romanzo.

Bravo, Sandro Veronesi...nonostante le imperfezioni o le esagerazioni, nonostante tutto. Sei stato davvero bravo a scendere così a fondo nell'animo dell'essere umano.

viernes, noviembre 22, 2019

Da Venezia


Mi scrive da Venezia una carissima collega che ammiro molto e che ho sempre considerato un simbolo di ciò che dovrebbe essere un professore e un ricercatore che s'impegna seriamente nel suo lavoro, che intende il proprio lavoro come una passione e che sa trasmettere agli studenti la sua stessa passione...

Mi descrive la situazione che vede da casa e mi vengono i brividi a pensare a quanti danni ha subito la città, una delle più ricche d'arte e di storia dell'intero paese.

Mi parla dei supermercati chiusi; delle librerie e delle biblioteche (anche pubbliche, anche della "Ca' Foscari") mezzo inondate o a rischio inondazione; dei libri che galleggiano squadernati e delle persone che non ce la fanno più a vedere la laguna sommersa dai mobili, dai materassi, dall'immondizia, dalle barche sbandate e alla deriva...

E poi mi contatta un'amica dell'adolescenza, una di quelle che vive in Spagna, una di quelle presenze amiche e amichevoli che servono a farti stare meglio, quando pensi che va tutto a rotoli...E parliamo del più e del meno, del mio lavoro e degli studenti ignoranti che sanno di non sapere e se ne vantano; poi tocchiamo un tasto scottante: i suoi rapporti con gli amanti di turno, delle brutte sorprese e delle belle esperienze (sia sessuali che sentimentali), della necessità di usare Tinder per avere un rapporto con chi t'interessa senza più l'intermediazione della discoteca o del pub, della chiacchierata davanti a una birra o a un cocktail...

E inizia a piovere ed è davvero strano che piova qui, nella città del Sud del Sud della Spagna in cui vivo e lavoro, in cui dormo e leggo, in cui scrivo, quando posso e gli impegni familiari e professionali me lo permettono (sempre meno tempo quando c'è una prole da crescere, sempre meno...).

E mi viene da pensare che forse è vero che ci avviamo verso l'inizio della Fine; ma non vorrei essere Apocalittico. Oggi a lezione abbiamo parlato di un sonetto di Francisco de Quevedo che mette sullo stesso piano (e nello stesso verso) "los pañales" e "la mortaja" (le fasce del bimbo appena nato e il sudario del cadavere). Mi ricorda un altro famoso sonetto in cui il poeta barocco compara la "cuna" alla "sepultura", ovvero, la "culla" alla "tomba". 

Immagino Venezia come una tomba enorme; una potenziale nuova Atlantide, con la Basilica di San Marco e i suoi leoni ricoperti di alghe e visibili solo ai pochi coraggiosi sommozzatori che avranno l'ardire di scendere negli abissi per contemplare la città sommersa...


Poi ricordo ai miei studenti che è venerdì, che inizia il fine settimana e che non dobbiamo mai smettere di sorridere alla vita, perché finché siamo in vita c'è speranza. Qualcuno sorride. Gli altri mi guardano seriosi. Alcuni sono già usciti dall'aula, forse stufi di ascoltare tanti discorsi tetri a partire dalla poesia di Quevedo.

Anche questo è Ottobre: la pioggia e Venezia; gli amici e i colleghi di lunga data; le lezioni che assumono tratti forse fin troppo lugubri...

domingo, noviembre 03, 2019

Parlare con i morti 



Che cosa gli dici ad un uomo che sa che è sul punto di morire, che sa di disporre, al massimo, di pochi mesi di vita ancora, quando non lo senti da 23 anni? Come trovare il coraggio di prendere il telefono, comporre il numero di sua moglie, trattenere il respiro e vedere di riuscire a parlarci? 

È mio fratello a darmi la notizia, di cui è venuto a sapere tramite un amico di un amico del Prof. È lui ad avvisarmi, mentre gironzolo con la mia famiglia in riva al fiume...

"Ho sentito anche il figlio maggiore; dice che gli farebbe piacere risentirti...sei stato uno dei suoi alunni migliori, si ricorda ancora di te, ricorda perfettamente il giorno della tua maturità, quando hai portato all'esame orale quella tesina su cinema e letteratura...".

Sì, certo. È incredibile che, appunto, dopo 23 anni, il Prof. ancora ricordi quell'evento, una giornata assurda, non si era mai visto un'esame di maturità di quel tipo, con la televisione e scene da Quarto Potere di Orson Welles commentate con passo fermo e voce affatto tremante...Non so da dove trassi tanta sicurezza e tanta forza; sì so che la Prof. d'Italiano lo disse in classe davanti a tutti: "Qui c'è solo uno che studia per la passione per lo studio" e si fermò (suspense) e fece il mio nome e io arrossii, di sicuro.

"Non ti costa niente, fagliela una chiamata". E riattacca.

Certo, non mi costa niente. Ma sono anni che non sento il mio Prof. d'Inglese, quello che mi dava i libri sotto banco (grazie a lui mi sono innamorato di James Joyce e sotto la sua spinta sono diventato cinefilo; ricordo quando ci obbligò a leggere il monologo finale di Ulysses - Molly Bloom splendida e senza punteggiatura - e quando mi passò la cassetta VHS de L'arancia meccanica di Stanley Kubrick e mi avvisò: "Mi raccomando, non dirlo a nessuno che t'ho passato questo film; sei ancora minorenne; non vorrei finire nei guai").

E quando un'amica si accorse che mi cedeva libri della sua biblioteca personale (Moby Dick, di Melville, o Wuthering Heights della Brönte) e fece la spia al resto della classe (o lo criticò aspramente, parlando di "favoritismi"), lui non ebbe remore nel dire davanti a tutti: "Dò da mangiare a chi ha fame di cultura" (oggi che sono Prof. anch'io - se ci ripenso - mi accorgo di quanto rischiosa sia stata la sua scelta e di quanto "politicamente scorretta" sarebbe apparsa oggi quella frase, ma il Prof. d'Inglese non amava rispettare le false regole del gioco, non amava l'ipocrisia, né la burocrazia, né i colleghi perbenisti...).

Cosa fare e cosa dire, dunque, quando sai che colui che non senti da 23 anni sta per emettere l'ultimo respiro; sta per abbandonare questa valle di lacrime; sta per chiudere definitivamente l'ultimo capitolo. Cosa dirgli (come stai? Mi riconosci? Sono passati tanti anni, ma io non mi sono mai dimenticato di te e dei tuoi insegnamenti...se oggi sono diventato quello che sono, lo devo anche a te, sappilo...); cosa chiedergli (e di cosa morirai? Di che malattia si tratta?); cosa rimembrargli (ti ricordi di quando mi davi i libri di nascosto? Anche quelli che non c'entravano nulla con il programma d'Inglese? E ti ricordi del mio esame di maturità? Di quando parlai dei rapporti tra cinema e letteratura a partire da Orson Welles per finire a toccare perfino La terra trema di Luchino Visconti in rapporto ai Malavoglia di Giovanni Verga? E certo che mi ricordo, mi piace immaginare che mi risponda; come dimenticare quell'esame? Parlasti anche di Apocalypse Now, in rapporto a Heart of Darkness di Conrad...Gli altri membri della commissione restarono a bocca aperta...che figurone che facesti, eh?).

E allora uno lo trova il coraggio. Non sa da dove esattamente, ma lo trova. E cerca il numero della moglie (con il macabro pensiero che a breve diventerà vedova) e schiaccia la tasteria del cellulare in corrispondenza di quel numero e attende che qualcuno gli risponda e che qualcuno dia segnali di vita...

martes, octubre 22, 2019

Nunca llegarás a nada (1961) di Juan Benet: raccontare il passato (a pezzi)

Conosciuto ed ammirato solo da un ristretto gruppo di specialisti ed happy few, Juan Benet (1927-1993) fu uno degli scrittori più sperimentali della letteratura che si scriveva in Spagna tra gli anni 60 e gli 80.

"Scrittore per scrittori", a detta di alcuni detrattori, Benet era ingegnere civile di professione e ciò, a un lettore italiano, non può non evocare la figura (imponente e mitica) di un altro ingegnere sperimentatore di forme e di linguaggi letterari, il caro e sempre interessante Carlo Emilio Gadda...

Benet iniziò i primi passi nel mondo della letteratura pubblicando a sue spese un libro di racconti dal titolo emblematico: Nunca llegarás a nada, che potremmo tradurre con "Non arriverai mai da nessuna parte" o anche "Non otterrai mai nulla". Il libro apparve per un editore che pubblicava anche saggi o libri di cucina o sulle pentole a pressione. Apparve nel 1961, l'anno in cui al cinema primeggiava Godard e la nouvelle vague. E se cito questo regista e faccio riferimento a questa corrente cinematografica è perché rileggendo in questi giorni l'omonimo racconto lungo che apre l'opera e le dà il titolo, mi è parso di notare un certo influsso del cinema nel linguaggio folle che Benet inventa per questa opera prima ricca di metafore, di salti spazio-temporali, di riflessioni pseudo-autobiografiche sulla giovenizza e su quant'è importante - quando si è giovani - viaggiare o abbandonarsi al viaggio in quanto esperienza esistenziale fondamentale per cercare di capire chi siamo...

Ecco l'incipit (che traduco al volo e, quindi, non verbatim):

"Un inglese ubriaco nel quale c'imbattemmo non ricordo dove e che ci accompagnò per svariati giorni e, forse, settimane intere nel corso di quella sfrenata follia ferroviaria arrivò a dire - dopo molte notti di poco sonno e nel corso di chissà quale moribonda, notturna ed interminabile conversazione - che non eravamo altro che dei deterrent che cercavano invano di sopravvivere. Poi disse che non capiva nulla; chiedeva perché ci impegnavamo a viaggiare senza senso (e forse è per questo che ci seguiva) e ci chiedeva di spiegargli meglio cos'è che pensavamo di fare, che, per favore, glielo dicessimo una volta per tutte, perché, altrimenti, ci avrebbe abbandonati per sempre alla nostra triste sorte".

Ecco: uno legge un paio di frasi come queste e immagina subito Jean Paul Belmondo in compagnia di chissà quale amico e di chissà quale strano individuo inglese che s'ingegna ad accompagnarli in questa "sfrenata follia ferriovaria". E il racconto è davvero come una sorta di film, con scene che ci sorprendono vuoi per lo stile (altamente poetico, oltre che estremamente colto, in alcuni brani) vuoi per la posizione che sembrano occupare all'interno della struttura della trama stessa; una trama che si fa mentre uno la legge e che, al contempo, e a differenza di quanto accadrebbe nel caso di uno scrittore "normale", si disfa e si smembra sempre di più mano a mano che ci si avvicina alla fine che, ovviamente, non risolve nessuno dei vari enigmi che si sollevano all'interno della stessa (chi è Juan, il narratore in prima persona? Chi è davvero Vicente, l'amico universitario e ricco che lo spinge a partire per un viaggio che toccherà Parigi e poi svariate città della Danimarca, dell'Inghilterra e della Germania? E soprattutto...chi diavolo è l'inglese che si aggrega alla spedizione folle?).

Uno legge Nunca llegarás a nada e capisce che, in effetti, il narratore non arriverà proprio da nessuna parte, perché il viaggio che intraprende non gli permetterà di conoscere o di apprendere alcunché (non è l'Odissea, questa, anche se per certi aspetti gli somiglia) né su di sè né sugli altri, né tantomeno sul mondo in cui si muove e abita. 

Il narratore prova a ricordare (il racconto è pieno di riferimenti proustiani alla memoria volontaria e anche a quella involontaria), ma non ce la fa: quel "non ricordo dove" si ripeterà spesso, nell'arco della cinquantina di pagine che dura la narrazione degli antefatti...e farà rima con moltissimi "forse", "è probabile", "mi sembra", "non sono certo di..." o "non sono sicuro se...".

E il lettore, allora, si diverte a perdersi nei meandri della mente di questo personaggio di cui sa pochissimo e che prova a raccontare il proprio passato anche se questo passato è a pezzi; ci sono brani in cui il confronto con il linguaggio del cinema è esplicito: i conti non tornano perché il narratore letteralmente non sa dove come e quando gli è successa una determinata avventura, non sa con chi l'ha vissuta... 

Il montaggio alternato è accelerato, a volte, e altre volte è lentissimo. Vicente e Juan passano da una sbronza all'altra, da una conversazione elegante all'altra, da una donna e dalla possibile avventura sessuale con una donna all'altra senza capire bene nemmeno in che hotel di che città si trovino...

E poi i ricordi legati a certi dialoghi, scritti con una grande maestria da parte di Benet, uno attento all'oralità, anche quando questa oralità la piega al suo stile, ovvero, anche quando la forza a plasmarsi in frasi lunghe e sintatticamente complesse (a volte così lunghe e complesse che il lettore è costretto a tornare a leggere la frase per capire dov'è il soggetto principale e il verbo che ne spiega le azioni).

A Parigi Juan s'invaghisce di una portinaia colta (o potrebbe essere anche una nobile sposata ad un aristocratico e intravista in chissà quale festa notturna) e cita Dumas; anzi, appena approda a Parigi decide di non uscire dall'hotel economico in cui ha preso la stanza e legge Dumas...

E uno allora si domanda che c'entra Dumas in un contesto così avanguardista e relativista, così caotico e apparenemente senza senso... E c'è un momento in cui Juan parla con un tale Monsieur Charles e uno dei due chiama Dumas "il mago"...

Poi l'azione aumenta; le ultime pagine sembrano proprio scritte dal Godard di Fino all'ultimo respiro; sembra di essere all'interno di un romanzo poliziesco o di un racconto di spie; qualcuno insegue Vicente (o Vicente insegue qualcuno); Juan è costretto a pedinare qualcun'altro o a lasciare l'albergo per prendere un taxi e girare a vuoto. 

Poi Benet decide che è ora di mettere il punto finale e uno si sente improvvisamente solo. Perché a dispetto del caos che imperversa nella trama di Nunca llegarás a nada, uno ha imparato ad ammirare questa voce che narra senza sapere come i pezzi del proprio passato apparenemente personale. Uno ha imparato ad apprezzare questo stile che non ha nulla di realista, ma che si avvicina molto alla verità della vita di chi viaggia per trovare un senso alla sua stessa esistenza. Uno ha imparato e si è lasciato ipnotizzare da uno stile che non ha eguali in tutta la letteratura spagnola di quegli anni. E contempla ammirato quanto coraggio ci vuole a scrivere in questo modo, senza freni e senza trama, senza schemi e senza preconcetti morali o ideologici di sorta.

"Non arriverai mai da nessuna parte": un buon titolo (quasi ironico) per un racconto che inaugura una produzione letteraria come quella dell'Ing. Benet...

viernes, octubre 18, 2019


I dubbi (eterni) del traduttore (III)



Chi si dedica alla traduzione letteraria sa bene che tradurre non è mai un atto meccanico, né automatico. Per tradurre bene un testo letterario non solo bisogna avere una padronanza enorme della lingua da cui si parte, ma anche una padronanza notevole della lingua cui si approda.
Come già raccontato in questo “diario di bordo” in qualche “post” del passato, il traduttore è uno che soffre di dubbi atroci costanti, perché essendo le lingue organismi viventi e vivi, ebbene, non c’è modo di trovare la soluzione perfetta, ci si può solo avvicinare alla perfezione, ma, per definizione, ogni traduzione è imperfetta, proprio perché sia la lingua d’arrivo che la lingua d’origine ballano all’unisono e si muovono costantemente all’interno del cervello di chi deve tradurre…(e in tali casi bisogna prestare estrema attenzione per evitare sovrapposizioni e false friends vari, soprattutto se le lingue in questione sono “sorelle”, come accade per lo spagnolo e l’italiano, o per il francese e l’italiano, ed è ovvio che per tradurre correttamente non basta il dizionario bilingue, ma bisogna fare ricorso spesso e volentieri anche a quello monolingue).
Alcuni esempi dal testo che mi sono ritrovato a tradurre in questi ultimi 3 mesi (e se il cielo mi coaudiova, l’ho finito, proprio stamattina, proprio oggi, 14 d’ottobre del 2019): in un racconto, il narratore rievoca l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e cita l’arma: un fucile semiautomatico “con mira telescópica de cuatro aumentos”. Come tradurre? A che tipo di fucile sta facendo riferimento il narratore? Quanti tipi di obiettivi telescopici può presentare un fucile semiautomatico come quello che ha causato la morte del Presidente degli Stati Uniti d’America? Ecco che per tradurre correttamente uno deve anche informarsi sull’enciclopedia che ha consultato mentalmente l’autore; uno deve andare a scovare tra le varie armi automatiche e semiautomatiche quanti tipi di fucili esistono al mondo, con quanti tipi di obiettivi si vendono e, tra tutti questi, vedere come funziona un obiettivo “con mirino telescopico da quattro ingrandimenti” (è questa la traduzione migliore che ho trovato per ora; assurde le cose che si possono imparare traducendo letteratura).
Un secondo esempio banalissimo: in un altro racconto, il narratore parla di “corbatas estampadas”: lungi dal tradurre “cravatte a stampa”, che sinceramente non vuol dire nulla, un traduttore onesto che non conosca bene il mondo della moda maschile dovrà per forza di cose informarsi e scoprire (come ho scoperto io grazie alla pagina web di Valentino) che “corbatas estampadas” indica le “cravatte a fantasia”, quelle, cioè, che presentano delle figure stampigliate e riprodotte secondo uno schema simmetrico, potendo essere la “fantasia” un disegno di Walt Disney o della Pixar, uno con tanti piccoli granchi o pesci o zebre riprodotte in loop, per così dire; cravatte, insomma, che non hanno nulla a che vedere né con quelle a tinta unita (che in spagnolo si dice “de color”), né con quelle a pois (“de puntos”), né, tantomeno, con quelle a righe (“de rayas”).
È ovvio che avrei potuto evitarmi la ricerca e tradurre (tradendo il testo) “cravatta a pois” o “a tinta unita” o “a righe”, per il semplice motivo che il lettore italiano del testo originale spagnolo ignora a che tipo di cravatte si stia riferendo in quel brano il narratore; ma è ovvio anche che, se uno legge con attenzione e scopre lentamente qual è il carattere del personaggio che indossa questo tipo particolare e determinato di cravatte, constaterà alla fine che, effettivamente, un tipo del genere non può non indossare che “cravatte a fantasia”…
Così come è ovvio e logico ed esatto dire che chi ha assassinato JFK, l’ha fatto usando proprio un fucile semiautomatico “con mirino telescopico da quattro ingrandimenti”, soprattutto se il narratore è stato fedele alla Storia e ha fatto riferimento proprio al tipo di fucile usato da Lee Harvey Oswald (che, ad oggi, è considerato come l’unico vero responsabile dell’attentato).
Tradurre vuol dire anche questo: mantenersi fedeli al testo di partenza anche nei minimi dettagli o in quei dettagli che, pur sembrando secondari a prima vista, ricoprono, in realtà, una funzione enorme all’interno della narrazione. E chissà che, alla fine, il lettore apprezzi l’attenzione che il traduttore ha posto nei confronti del testo di partenza e sappia vedere che il testo d’arrivo funziona (ancora) bene rispetto a quello originale.

P.S.: uno dei racconti s’intitola “Singladura”: se uno ricorre al dizionario spagnolo-italiano scopre che il termine indica o la distanza o la durata di una navigazione in mare (24 ore nel corso d’una navigazione); metaforicamente si può tradurre anche con “rotta”. E allora attenzione, perché dipendendo da dove porre l’accento tonico, un lettore leggerà “rotta” come sostantivo (del gergo marinaro) e un altro lo leggerà, invece, come participio passato (al femminile) del verbo “rompere”. Solo una volta intrapreso l’atto di lettura, il nostro lettore potrà capire a che tipo di significato ci si riferisce nel titolo. Leggere è anche tradurre e sviscerare da ciò che si legge il senso di ciò che si evoca. Ergo: il lettore è sempre anche un traduttore dalla sua propria lingua madre. Perché ogni lingua implica l’atto del tradurre correttamente il significato di ciò che si legge. E la letteratura è il modo più stimolante di giocare con i molteplici significati che ogni lingua nasconde.

lunes, octubre 14, 2019

Il pittore de Le città invisibili


Tra le altre cose assurde e straordinarie di questi giorni, di questo periodo in cui l'estate ci abbandona definitivamente per cedere il posto all'autunno (e uno non sa come vestirsi, preché se c'è il sole si cuoce e quando scompare si gela), vi è, senza alcun dubbio, la mia recente conoscenza di uno dei pochi pittori che ha illustrato Le città invisibili, il famoso romanzo di Italo Calvino, forse uno dei suoi migliori libri, a mio modesto giudizio.

Doveva trattarsi di una tavola rotonda, ma il pittore in questione è così bravo nell'uso della retorica, così affascinante, per il modo che ha di trasmettere i suoi ricordi personali (in Italia ha avuto modo di conoscere non solo Calvino, ma anche Fellini, Pasolini e non ricordo più se Domenico Modugno o Franco Zeffirelli), così elocuente nell'orchestrare il discorso che, alla fine, ho avuto modo di fargli solo due domandine (e nessuna delle due verteva su Le città invisibili). 

Ciò che più mi ha colpito è stato il silenzio che è sceso in sala quando il pittore ha deciso di omaggiare Roma (città in cui vive per metà dell'anno) e di farci ascoltare un brano di Gabriella Ferri, artista che pochi conoscono qui in Spagna...E così, mi sono ritrovato proustianamente catapultato ai tempi in cui anch'io (come il pittore negli anni 60) scoprivo Roma e le sue bellezze e il suo disordine e le sue strade piene di monumenti antichi e di fori e di sanpietrini e di statue d'Imperatori Romani...

La voce di Gabriella Ferri riempie la sala stracolma (mi dicono siano rimasti fuori altri 50 spettatori) e molti chiudono gli occhi, come per assaporare meglio il canto e le note, le parole e le rime di Ti regalo gli occhi miei...anche se pochi sapranno l'italiano e pochi capteranno il ritornello...

"La mia vita ti regalo / così spero scoprirai che cos'è / cos'è l'amore"..."ti regalo gli occhi miei, / i capelli, la mia bocca / le mie mani, il mio respiro"...

E uno allora si rende conto improvvisamente di quanto importante sia la canzone popolare italiana nel mondo; del fatto che, probabilmente, fra cent'anni, ci saranno ancora persone intente ad ascoltare la voce di Gabriella Ferri, o quella di Ornella Vanoni o, ancora meglio, quella incredibile ed infinita di Mina (che pure citerà il pittore subito dopo l'ascolto del brano struggente della Ferri, ma io non ho resistito alla tentazione e ho dovuto dirlo a voce alta, davanti a tutti, Mina l'ascolteremo anche fra cent'anni, la voce di Mina non morirà mai!).

Il pittore finisce il suo intervento citando Nanni Moretti e il suo Caro diario (e già mi sta simpatico, per questo secondo omaggio all'Italia e al cinema italiano), poi scroscia l'applauso, alcuni addirittura si alzano in piedi (deve essere proprio un pittore molto amato in questa zona del Sud del Sud della Spagna e del mondo).

Poi andiamo a cena insieme ad altri giornalisti e studenti e ammiratori e una signora elegante che credevo fosse la moglie del pittore e che, invece, risulta essere la responsabile della Fondazione a lui intitolata. E lì, sì, lì, seduti davanti a una birra e una focaccia farcita dall'aspetto invitante, ci mettiamo a parlare di Italia e di Roma, di arte e di bellezza, di scrittura e di pittura, senza la costrizione oraria e il formalismo d'etichetta della tavola rotonda. 

Come tutti gli artisti, anche questo pittore ha un ego enorme; ma si capisce che ha molto vissuto, che ha molto viaggiato, che ha molto riflettuto. Torno a chiedergli di Gabriella Ferri e mi racconta uno dei suoi ricordi più tristi e più vividi:

"L'ultima volta che la vidi fu a Campo dei Fiori. Era già molto  malata. Aveva il trucco pesante, lo sguardo triste, gli occhi privi del brillio dei primi tempi, quando le sue canzoni facevano furore. Allora mi venne spontaneo avvicinarmi e presentarmi, non prima, però, di comprarle una rosa, la più bella che ci fosse nei fiorai della piazza. E così, mi presentai, le dissi che ero un suo ammiratore e le porsi la rosa. Gabriella mi guardò con affetto, mi ringraziò, dandomi un bacio sulla guancia, e poi se ne andò, lentamente, avvolta in una pelliccia di visone e un foulard elegante. Pochi mesi dopo scoprii sul giornale che era morta. Fu un duro colpo. Non immaginavo che potesse succedere e, al contempo, sapevo benissimo, dopo averla vista a Campo dei Fiori, che sarebbe morta".

Il pittore avrà sui settant'anni, ben portati. Ma quando arriva a pronunciare quest'ultima frase si vede benissimo che gli cambia il volto: un'ombra di morte gli passa accanto e poi se ne va. "Brindiamo alla vita!", esclama la direttrice della Fondazione. E tutti alzano il bicchiere e fanno "cin cin" (all'italiana), invece di dire "salud!" (alla spagnola).



miércoles, octubre 09, 2019

Premi letterari

Per la prima volta in vita mia, m'invitano a partecipare alla giuria di un premio letterario molto importante nella regione del Sud del Sud della Spagna in cui mi trovo e lavoro. Decido di accettare anche se so che, a fine giugno, diventerò padre e avrò, di conseguenza, molto meno tempo da poter dedicare alla lettura.

Proprio per questo, gli altri 6 giurati mi fanno il favore di darmi soprattutto libri di poesia, raccolte poetiche brevi o che, al massimo, occupano un centianio di pagine. Nel mucchio, capitano anche 3 o 4 romanzi (un paio piuttosto voluminosi).

Leggo ovunque, anche in sala parto, anche in ospedale, mentre la mia compagna di avventure si riprende dall'operazione, dall'evento miracoloso e dal miracolo della vita che si fa strada con forza e vede la luce.

Leggo anche quando ricominciano i corsi all'Università; quando appoggio la causa di un gruppo di colleghi iscritti al sindacato e che m'invitano ad appoggiare il sindacato; quando la prole dorme, dalla mezzanotte in poi, ma anche quando è sveglia (e diventa davvero complicato intrattenerla e svoltare pagina).

E passano i giorni e passano i mesi e, finalmente, arriva il giorno tanto atteso, il giorno in cui il vincitore verrà eletto e riceverà i 5 mila euro del premio e l'applauso dei lettori. Due settimane prima, però, assisto alla lotta interna tra il bando di chi sceglie questo determinato scrittore (che, obiettivamente, si merita di vincere) e il bando di chi, per una sorta d'odio irrazionale, vorrebbe far passare il secondo classificato.

È la primissima volta che mi vedo coinvolto in una diatriba del genere ed è davvero incredibile (e anche leggermente inquietante, oltre che divertente) vedere come si scannino professori, editori, scrittori che hanno già vinto il premio in edizioni anteriori, librai e uomini della cultura e della letteratura che, si suppone, sono accomunati dalla stessa passione per i libri e baciati dalla stessa stella umanista.

Sfioriamo la rissa, ma alla fine sì, si decide a maggioranza che il vincitore è lui. E allora eccolo, il giorno in cui lo scrittore si presenta davanti al sindaco, al Rettore, alle autorità e, ovviamente, ai noi, Signori della Corte...

Lo scrittore è emozionato: legge un brano dal suo romanzo, la voce trema davanti al microfono, poi è tutto un batter di mani, un'ovazione, applausi a non finire.

Siamo tutti amici come prima; si esce dall'Aula Magna per andare a spilluzzicare qualcosa nel buffet che ci è stato gentilmente offerto da non ricordo più quale sponsor. Pacche sulle spalle, i membri della giuria (me compreso) si godono un po' di meritato relax. 

"Dio santo, quanti libri orrendi ci siamo visti obbligati a leggere", dice una.
"Che faticaccia!", esclama l'altro.
"È stata un'esperienza arricchente", affermo, tanto per dare loro ad intendere che mi sono sentito onorato dall'aver condiviso con loro questo lavoraccio.

Lo scrittore beve un po' troppo; poi mi si avvicina e mi dice che è davvero contento che tra i membri della giuria ci sia un italiano, un ispanista, un esperto della letteratura spagnola. Gli prometto che, prima o poi, scriverò un articolo sul suo romanzo. Lui sorride e continua a bere, mentre la moglie lo elogia davanti alle amiche.

Gli altri poeti, scrittori, editori e librai si scatenano a sparlar male di altri colleghi assenti. Io brindo alla vita e alla letteratura, con la speranza che l'anno prossimo nessuno si ricordi più di me, perché va bene premiare la letteratura, ma a volte leggere troppo può risultare davvero indigesto...

miércoles, septiembre 11, 2019

"Vuelta al cole" (si torna a scuola)


E così si torna a scuola (la "vuelta al cole", definiscono gli spagnoli i primi giorni del reinizio dell'anno scolastico; per estensione, la definizione viene applicata anche al resto dei lavoratori di ogni ordine e grado e a tutti i vari e svariati tipi di occupazione lavorativa).

E c'è già chi si lamenta e non vuol tornare alla routine; e c'è già chi inizia a soffrire lo stress del tran tran quotidiano...

Intanto, le previsioni del meteo minacciano pioggia torrenziale in queste regioni del Sud del Sud della Spagna: il pericolo è tale che - guarda un po' - si paventa il blocco totale di tutte le attività scolastiche (e forse non si va neppure il venerdì).

Intanto, una collega italianista m'invita a partecipare a un congresso sulla "donna scrittrice" presso la sua Università: dovrò moderare una tavola rotonda sul "fumetto in quanto genere minore" (o qualcosa di simile); accetto perché è un'amica, non prima di averle ricordato, però, che sono solo un ispanista e un cinefilo per la passione per i fumetti, ma che dal punto di vista scientifico, non è che ne sappia molto (leggo solo Dylan Dog, da anni, e seguo ogni tanto Diabolik e poco più e sempre per puro piacere, senza fini accademici). Lei mi sorride e finisce di sorseggiare la birra che degustiamo a pochi passi dalla sua Facoltà (la famosa, mitica, gloriosa Facoltà di Lettere e Filosofia). Le strade del centro si riempiono di studenti con lo zaino in spalla e con il sorriso sulle labbra. Gli universitari non vedevano l'ora di sganciarsi dai loro genitori e tornare a vivere coi loro coinquilini coetanei.

Intanto, mi preoccupo di vedere i prezzi dei voli da Alicante a Napoli, per un futuro congresso cui - si spera - riuscirò a partecipare a Febbraio presso la "Federico II", su invito di altre care colleghe... A quanto pare, non c'è proprio modo di viaggiare con un volo diretto: tutte le compagnie aeree prevedono uno scalo a El Prat di Barcellona: mi arrabbio, scalpito, continuo a controllare meglio, ma niente, non c'è proprio modo di superare lo scoglio e, quindi, prendo il biglietto più a buon mercato (136 euro, andata e ritorno) e prevedo di sprecare quasi 2 giorni interi per arrivare a Capodichino, oltre che di prendere 4 aerei in 4 giorni... La prole mi odierà; la mia compagna d'avventure, pure...anche perché lei resterà con la prole qui in Spagna, da sola...

Intanto, la rappresentante di un gruppo di donne in pensione del centro della città mi chiede se, per favore, sono disponibile a impartire una lezione sui "classici" presso la sede della loro associazione culturale; mi chiedono di parlare de Il mago di Oz: riconosco di non aver mai letto il libro (di tale Lyman Frank Baum) e di aver visto molti anni fa il film (di Victor Fleming). Scopro che il libro è apparso nel 1900; e verifico che il film è del 1939. 

"E se parlassi di un...altro classico?".
"Certo, certo, si senta libero di scegliere l'opera che più l'aggrada, professore".

E rimugino su alcune scene (famosissime e bellissime) dell'Odissea: quando Ulisse piange mentre ascolta le proprie eroiche imprese raccontate (e cantate) dall'aedo presso i Feaci; quando Ulisse scende all'Ade ed incontra il fantasma della madre; quando Ulisse, sotto le mentite spoglie d'un mendicante, torna a casa e incontra di nuovo Penelope...

Intanto, l'allerta meteo sembra essere sfacciatamente smentita da un sole che spacca le pietre. Io continuo a tradurre un libro che chissà se mai vedrà la luce in italiano. La mia compagna d'avventure continua ad accudire la prole. Qualcuno ci manda un messaggio per Whatsapp e ci dice che (cito testualmente) "formiamo una bellissima famiglia! Complimenti!"...

E tutto questo quando ancora non sono cominciate le lezioni all'Università...e non so neppure che orario avrò...

lunes, septiembre 02, 2019

Lo Zen o l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig: sabotare il sistema o riflettere per cambiare



Ultimo giorno di vacanze prima del fatidico rientro a lavoro: il 1 Settembre segna la fine del divertimento e del relax per il 99,99% degli spagnoli (ma credo che per gli italiani valga la stessa percentuale) e ne approfitto per fare quasi 20 kms in bici, verso una delle mie spiagge favorite, e un tuffo nella piscina di un'amica, con l'acqua fredda che tonifica i muscoli e il sole cocente che ci asciuga (l'erba del prato è artificiale, ma non fa niente: le palme e gli olivi - strano mix - sono veri, e l'ombra che producono è altrettanto vera e salvifica).

Arrivo alle ultime pagine di un libro che mi ha tenuto in ansia in quest'ultima settimana di mare: Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, di Robert M. Pirsing, è uno di quei libri che mi ha sempre attratto, sin da adolescente, per il titolo misterioso ed evocativo; ricordo che più d'una volta, nelle librerie all'interno della Stazione Termini, sono stato tentato dall'allungare la mano per comprarne una copia. E invece...ho dovuto aspettare più di vent'anni per immergermi nella sua lettura, dopo averlo ri-scoperto grazie a Tiziano Sclavi, che lo cita in Non è successo niente (o forse era La circolazione del sangue? O Le etichette delle camicie?). 

Ora che l'ho (quasi) finito, capisco perché Sclavi lo citi (e, forse, perché l'abbia amato): Pirsig racconta una sorta di parabola su un uomo che ha sfiorato la pazzia, per poi rinascere a una nuova vita, una vita vista con gli occhi (e la mente) di chi sa che la pazzia è una malattia che può colpire chiunque, anche una mente brillante come colui che scrive questo libro, un libro strambo, strano, a tratti poetico, a tratti fin troppo riflessivo e filosofico, un libro in cui una sorta di professore universitario si sdoppia per parlarci di un tale Fedro che si ribella al sistema (siamo negli anni 70, nell'America degli hippies e dei ribelli anti-sistema - per intenderci, e per chi abbia già visto l'ultimo capolavoro di Quentin Tarantino: nell'America delle sette sataniche di Charles Manson e dei concerti dei Beatles, di Elvis Presley e della contestazione alla Woodstock).

E il lettore paziente va avanti e non capisce mai fino in fondo se Fedro è il professore universitario dietro cui sembrerebbe celarsi l'autore o se è tutta una finzione al quadrato per riflettere in parallelo alle riflessioni che il padre e narratore in prima persona singolare sviluppa attorno alla Qualità, alla Verità, all'Arte (appunto) della manutenzione di una moto... 

La parabola assume maggiore densità e profondità se pensiamo che molte di queste riflessioni il narratore le fa in presenza di suo figlio, Charles, un ragazzino di 8 anni che si ritrova ad attraversare mezza America sulla moto (appunto) del padre...

E il lettore va avanti insieme a questi due strani figuri, senza mai sapere bene dove voglia andare a parare il narratore e l'autore in carne ed ossa che ha riversato tutto se stesso in quest'opera, si nota, si vede, si sente quanto dolore, quanto coinvolgimento emotivo, quanta furia ci sia (c'è stata) nel mettere nero su bianco certe frasi.

Cito a caso (dall'edizione tascabile Adelphi del 2011 che ho sotto gli occhi, anzi, sotto gli occhiali da sole, in riva alla piscina di cui sopra):

"La gente va in fabbrica e dalle otto alle cinque si dedica senza fiatare a mansioni assolutamente prive di senso, perché la struttura esige che sia così. Non c'è nessun 'cattivo' che li vuol constringere a vivere delle vite senza senso, è solo la struttura, il sistema, lo esige, e nessuno è disposto ad assumersi l'arduo compito di cambiare la struttura solo perché non ha senso.
Ma smantellare una fabbrica, o ribellarsi contro un governo, o rifiutarsi di riparare una motocicletta solo perché essa è un sistema, è attaccare gli effetti invece delle cause. Il sistema vero è la nostra costruzione del pensiero sistematico, la razionalità stessa, e se si smantella una fabbrica lasciando in piedi il sistema di pensiero che l'ha prodotta, questo non farà che dare origine a un'altra fabbrica" (id., p. 104).

È un brano che dà da pensare, se lo rapportiamo al nostro secolo, all'era di internet e dei social, ma anche delle immigrazioni di massa e della povertà estrema di una grossissima parte della popolazione.

Idem per quest'altra citazione:

"La scuola insegna a imitare. Se non si imita l'insegnante si prende un brutto voto. Qui al College, evidentemente, lo si faceva in modo più artificioso, senza averne l'aria, dando ad intendere all'insegnante di aver còlto l'essenza del suo insegnamento per svilupparla con idee proprie. Era così che si conquistava il massimo dei voti. L'originalità, invece, poteva anche portare alla bocciatura. Tutto il sistema di votazione metteva in guardia contro di essa" (id., p. 193).

E chi di mestiere fa l'insegnante sa quanto ciò sia ancora vero oggi, nel 2019, forse ancora più di ieri (1974 l'anno di pubblicazione del libro)... Quant'è pericolosa, perniciosa, inutile, l'imitazione di ciò che dice o pretende di dire l'insegnante; quant'è molto più produttiva l'originalità...ma quando mai si premia l'originalità di uno studente all'interno delle gabbie della scuola o dell'Università?

Domani sarà il 2 Settembre: ci si saluterà affettuosamente, prima di tornare alla solita routine fatta di esami, correzione di esami, ricevimenti, lezioni, congressi, elaborazione di articoli, saggi, seminari, etc. etc.

Godiamoci quest'ultimo giorno di vacanza prima del ritorno alla realtà...

jueves, agosto 22, 2019

Viaggio sentimentale, di Viktor Sklovskij: sulla Rivoluzione Russa (e i disastri della guerra in generale)


È molto strano leggere questo Viaggio sentimentale del critico e teorico della letteratura Viktor Sklovskij circondato da biberon, pannolini e cianfrusaglie varie tipiche della fase dello sviluppo di un neonato di pochi mesi. 

Si percepisce tutto lo sfasamento tra la condizione di chi ha presenziato una guerra (lo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre in quell'enorme puzzle di Stati che poi passerà a chiamarsi URSS) e quella di chi non ne ha mai vista una in diretta, se non attraverso il filtro della televisione, del cinema e - appunto - della letteratura. 

Siamo davvero fortunati, noi nati in un'epoca in cui le guerre sono viste attraverso il rettangolo di uno schermo al plasma. E proprio per questo risulta scioccante leggere questa sorta di libro di memorie di un uomo che abbiamo imparato a conoscere all'Università attraverso il famoso saggio di Tzvetan Todorov I formalisti russi (1965) e di cui non sospettavamo minimamente il profilo militare, l'impegno in prima persona nel corso della Rivoluzione d'Ottobre, nota anche come Rivoluzione Russa.

E non serve essere uno storico di quell'epoca, non è necessario conoscere tutti i dettagli di quell'evento tragico per seguire le alterne e tristissime vicende di Sklovskij nel corso del conflitto, tra viaggi in carrarmato, a cavallo, su mule sfiancate dal freddo glaciale o a piedi, attraverso la steppa finlandese (perché è in Finlandia che finisce il viaggio "sentimentale" di quest'uomo che ha rischiato la vita trovandosi nel bel mezzo del Caos di quegli anni).

Ecco una delle tante descrizioni quasi cinematografiche del critico che rivalutò tra i russi l'opera e l'importanza delle opere letterarie di Laurence Sterne:

"Alcuni non portavano altro che un piccolo mantello di feltro dalla forma curiosa, tagliato in modo che all'altezza delle spalle spuntavano come due moncherini imploranti.
Ai mendicanti eravamo abituati. Attorno a ogni accampamento vagavano bambini sui cinque anni con indosso solo uno straccetto nero simile a una camiciola; avevano gli occhi pieni di pus e cosparsi di mosche.
Curvi su se stessi, con il gesto meccanico di un animale stanco, andavano a rovistare tra i rifiuti nella speranza di trovare qualcosa di commestibile. Di notte si radunavano attorno alle cucine e si scaldavano. Alcuni, soprattutto i più grandi, erano stati presi nei reparti come inservienti; gli altri morivano lentamente e in silenzio, così come può morire un essere umano dall'infinità capacità di sopportazione" (id., p. 128).

Come dimenticare quei bambini sui cinque anni circondati dalle mosche e con il pus che gli fuoriesce dagli occhi? Come non rapportare quest'immagine atroce a quelle che ci provengono dall'Africa più povera (o anche dalla Siria più martoriata?).

Ecco il risultato di un'esplosione di una bomba, ecco come ci si comporta, dopo che una bomba ha svolto inesorabilmente, implacabilmente, il suo compito mortifero e letale:


"Dopo l'esplosione i soldati, accerchiati dai nemici, mentre aspettavano un convoglio si sono messi a raccogliere le membra dei loro compagni e a ricomporne i corpi.
La raccolta è durata a lungo.
Naturalmente le parti di molti corpi sono state confuse.
Un ufficiale si è avvicinato a una lunga fila di cadaveri allineati.
L'ultimo era stato messo insieme con i pezzi avanzati.
Aveva il torso di un uomo robusto. Gli era stata accostata una piccola testa, e sul petto erano appoggiate due esili braccia, tutte e due sinistre.
L'ufficiale lo ha osservato abbastanza a lungo, poi si è seduto e ha iniziato a ridere a crepapelle...a ridere...ridere..." (id., p. 159).

Ciò che più colpisce, di un simile brano, a mio modesto parere, non è tanto la risata dell'ufficiale, quanto l'uso che il narratore fa dell'avverbio: "Naturalmente", come se fosse davvero "naturale" e, quindi, "normale", ricomporre i pezzi delle vittime dell'esplosione confondendo i resti delle stesse.

Ecco come ci si sente nel ricoprire il ruolo della spia, così necessario e utile, così ambiguo e pericoloso, quando si è in guerra (nel mentre, Sklovskij ne approfitta per farci vedere come non perda mai di vista il suo ruolo di studioso della letteratura; che coraggio, davvero, scrivere sotto le bombe, nel bel mezzo di un conflitto a fuoco, in mezzo al freddo e alla scarsità di cibo e di legna):

"È bello perdere la propria personalità. Dimenticare il proprio cognome, le proprie abitudini. Inventarsi un personaggio e credere di essere lui. Se non fosse stato per la scrivania, per i lavori nel cassetto, non sarei mai più tornato a essere Viktor Sklovskij. Stavo scrivendo, allora, L'intreccio come fenomeno di stile. I libri necessari per le citazioni, squadernati e divisi in gruppi di una ventina di pagine, me li ero portati così, a frammenti.
Per scrivere c'era solo il davanzale" (id., p. 188).

Chi si dedica allo studio della letteratura di mestiere, chi lavora nell'ambito accademico, sa benissimo quanto sia importante disporre del materiale giusto per le citazioni giuste. E quanta tenerezza ispira Sklovskij in questo brano! È quanto accade anche a un altro suo amico:

"Un mio amico, del quale all'università si diceva avesse tutti i crismi della genialità, viveva al centro di una vecchia stanza fra quattro sedie coperte di tela cerata e tappeti. Vi s'infila sotto, riscalda l'ambiente col fiato e vive così. Ci aveva fatto arrivare anche la luce elettrica. Là scriveva un lavoro sulle affinità della lingua malese con il giapponese. Di convinzioni politiche era comunista" (id., p. 216).

Mi fa venire in mente Antonio Gramsci: lo scrive varie volte nei Quaderni dal carcere: ciò che più gli manca sono i giornali, le riviste scientifiche, i libri su cui studiare (e Gramsci aveva uno spettro d'interessi accademici notevolissimo: dalla glottologia alla storia, dall'economia alla filosofia, passando per la letteratura italiana e non, ovviamente).

Come dimenticare, dunque, quest'ennesima scena di lotta per la sopravvivenza e di speranza nella cultura e nella conoscenza in un mondo che crolla a pezzi? Come non evocare i disastri della guerra, di tutte le guerre? (L'ufficiale che ride dei pezzi smembrati del cadavere rimontato "male" fa pensare anche al Kilgore di Apocalypse Now, il generale che obbliga i suoi marines a fare surf anche nel corso di un bombardamento anti-vietcong). 


Libro travolgente, a tratti noioso per l'eccesso di dati che ci offre l'autore, autobiografico e critico, anzi, iper-critico nei confronti del nuovo assetto politico disegnato dai bolscevichi; libro carico d'energia e di disperazione, questo Viaggio sentimentale è capace di aprirci gli occhi, in quest'inizio del XXI secolo, sugli orrori che ha prodotto il XX secolo che ci siamo lasciati alle spalle.

Una lettura dura, appassionante, strana, se uno la affronta circondato dagli ammenicoli tipici della crescita e l'allattamento di un neonato. Una lettura che scuote, in questo finale d'Agosto di quest'estate anomala...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...