martes, octubre 22, 2019

Nunca llegarás a nada (1961) di Juan Benet: raccontare il passato (a pezzi)

Conosciuto ed ammirato solo da un ristretto gruppo di specialisti ed happy few, Juan Benet (1927-1993) fu uno degli scrittori più sperimentali della letteratura che si scriveva in Spagna tra gli anni 60 e gli 80.

"Scrittore per scrittori", a detta di alcuni detrattori, Benet era ingegnere civile di professione e ciò, a un lettore italiano, non può non evocare la figura (imponente e mitica) di un altro ingegnere sperimentatore di forme e di linguaggi letterari, il caro e sempre interessante Carlo Emilio Gadda...

Benet iniziò i primi passi nel mondo della letteratura pubblicando a sue spese un libro di racconti dal titolo emblematico: Nunca llegarás a nada, che potremmo tradurre con "Non arriverai mai da nessuna parte" o anche "Non otterrai mai nulla". Il libro apparve per un editore che pubblicava anche saggi o libri di cucina o sulle pentole a pressione. Apparve nel 1961, l'anno in cui al cinema primeggiava Godard e la nouvelle vague. E se cito questo regista e faccio riferimento a questa corrente cinematografica è perché rileggendo in questi giorni l'omonimo racconto lungo che apre l'opera e le dà il titolo, mi è parso di notare un certo influsso del cinema nel linguaggio folle che Benet inventa per questa opera prima ricca di metafore, di salti spazio-temporali, di riflessioni pseudo-autobiografiche sulla giovenizza e su quant'è importante - quando si è giovani - viaggiare o abbandonarsi al viaggio in quanto esperienza esistenziale fondamentale per cercare di capire chi siamo...

Ecco l'incipit (che traduco al volo e, quindi, non verbatim):

"Un inglese ubriaco nel quale c'imbattemmo non ricordo dove e che ci accompagnò per svariati giorni e, forse, settimane intere nel corso di quella sfrenata follia ferroviaria arrivò a dire - dopo molte notti di poco sonno e nel corso di chissà quale moribonda, notturna ed interminabile conversazione - che non eravamo altro che dei deterrent che cercavano invano di sopravvivere. Poi disse che non capiva nulla; chiedeva perché ci impegnavamo a viaggiare senza senso (e forse è per questo che ci seguiva) e ci chiedeva di spiegargli meglio cos'è che pensavamo di fare, che, per favore, glielo dicessimo una volta per tutte, perché, altrimenti, ci avrebbe abbandonati per sempre alla nostra triste sorte".

Ecco: uno legge un paio di frasi come queste e immagina subito Jean Paul Belmondo in compagnia di chissà quale amico e di chissà quale strano individuo inglese che s'ingegna ad accompagnarli in questa "sfrenata follia ferriovaria". E il racconto è davvero come una sorta di film, con scene che ci sorprendono vuoi per lo stile (altamente poetico, oltre che estremamente colto, in alcuni brani) vuoi per la posizione che sembrano occupare all'interno della struttura della trama stessa; una trama che si fa mentre uno la legge e che, al contempo, e a differenza di quanto accadrebbe nel caso di uno scrittore "normale", si disfa e si smembra sempre di più mano a mano che ci si avvicina alla fine che, ovviamente, non risolve nessuno dei vari enigmi che si sollevano all'interno della stessa (chi è Juan, il narratore in prima persona? Chi è davvero Vicente, l'amico universitario e ricco che lo spinge a partire per un viaggio che toccherà Parigi e poi svariate città della Danimarca, dell'Inghilterra e della Germania? E soprattutto...chi diavolo è l'inglese che si aggrega alla spedizione folle?).

Uno legge Nunca llegarás a nada e capisce che, in effetti, il narratore non arriverà proprio da nessuna parte, perché il viaggio che intraprende non gli permetterà di conoscere o di apprendere alcunché (non è l'Odissea, questa, anche se per certi aspetti gli somiglia) né su di sè né sugli altri, né tantomeno sul mondo in cui si muove e abita. 

Il narratore prova a ricordare (il racconto è pieno di riferimenti proustiani alla memoria volontaria e anche a quella involontaria), ma non ce la fa: quel "non ricordo dove" si ripeterà spesso, nell'arco della cinquantina di pagine che dura la narrazione degli antefatti...e farà rima con moltissimi "forse", "è probabile", "mi sembra", "non sono certo di..." o "non sono sicuro se...".

E il lettore, allora, si diverte a perdersi nei meandri della mente di questo personaggio di cui sa pochissimo e che prova a raccontare il proprio passato anche se questo passato è a pezzi; ci sono brani in cui il confronto con il linguaggio del cinema è esplicito: i conti non tornano perché il narratore letteralmente non sa dove come e quando gli è successa una determinata avventura, non sa con chi l'ha vissuta... 

Il montaggio alternato è accelerato, a volte, e altre volte è lentissimo. Vicente e Juan passano da una sbronza all'altra, da una conversazione elegante all'altra, da una donna e dalla possibile avventura sessuale con una donna all'altra senza capire bene nemmeno in che hotel di che città si trovino...

E poi i ricordi legati a certi dialoghi, scritti con una grande maestria da parte di Benet, uno attento all'oralità, anche quando questa oralità la piega al suo stile, ovvero, anche quando la forza a plasmarsi in frasi lunghe e sintatticamente complesse (a volte così lunghe e complesse che il lettore è costretto a tornare a leggere la frase per capire dov'è il soggetto principale e il verbo che ne spiega le azioni).

A Parigi Juan s'invaghisce di una portinaia colta (o potrebbe essere anche una nobile sposata ad un aristocratico e intravista in chissà quale festa notturna) e cita Dumas; anzi, appena approda a Parigi decide di non uscire dall'hotel economico in cui ha preso la stanza e legge Dumas...

E uno allora si domanda che c'entra Dumas in un contesto così avanguardista e relativista, così caotico e apparenemente senza senso... E c'è un momento in cui Juan parla con un tale Monsieur Charles e uno dei due chiama Dumas "il mago"...

Poi l'azione aumenta; le ultime pagine sembrano proprio scritte dal Godard di Fino all'ultimo respiro; sembra di essere all'interno di un romanzo poliziesco o di un racconto di spie; qualcuno insegue Vicente (o Vicente insegue qualcuno); Juan è costretto a pedinare qualcun'altro o a lasciare l'albergo per prendere un taxi e girare a vuoto. 

Poi Benet decide che è ora di mettere il punto finale e uno si sente improvvisamente solo. Perché a dispetto del caos che imperversa nella trama di Nunca llegarás a nada, uno ha imparato ad ammirare questa voce che narra senza sapere come i pezzi del proprio passato apparenemente personale. Uno ha imparato ad apprezzare questo stile che non ha nulla di realista, ma che si avvicina molto alla verità della vita di chi viaggia per trovare un senso alla sua stessa esistenza. Uno ha imparato e si è lasciato ipnotizzare da uno stile che non ha eguali in tutta la letteratura spagnola di quegli anni. E contempla ammirato quanto coraggio ci vuole a scrivere in questo modo, senza freni e senza trama, senza schemi e senza preconcetti morali o ideologici di sorta.

"Non arriverai mai da nessuna parte": un buon titolo (quasi ironico) per un racconto che inaugura una produzione letteraria come quella dell'Ing. Benet...

viernes, octubre 18, 2019


I dubbi (eterni) del traduttore (III)



Chi si dedica alla traduzione letteraria sa bene che tradurre non è mai un atto meccanico, né automatico. Per tradurre bene un testo letterario non solo bisogna avere una padronanza enorme della lingua da cui si parte, ma anche una padronanza notevole della lingua cui si approda.
Come già raccontato in questo “diario di bordo” in qualche “post” del passato, il traduttore è uno che soffre di dubbi atroci costanti, perché essendo le lingue organismi viventi e vivi, ebbene, non c’è modo di trovare la soluzione perfetta, ci si può solo avvicinare alla perfezione, ma, per definizione, ogni traduzione è imperfetta, proprio perché sia la lingua d’arrivo che la lingua d’origine ballano all’unisono e si muovono costantemente all’interno del cervello di chi deve tradurre…(e in tali casi bisogna prestare estrema attenzione per evitare sovrapposizioni e false friends vari, soprattutto se le lingue in questione sono “sorelle”, come accade per lo spagnolo e l’italiano, o per il francese e l’italiano, ed è ovvio che per tradurre correttamente non basta il dizionario bilingue, ma bisogna fare ricorso spesso e volentieri anche a quello monolingue).
Alcuni esempi dal testo che mi sono ritrovato a tradurre in questi ultimi 3 mesi (e se il cielo mi coaudiova, l’ho finito, proprio stamattina, proprio oggi, 14 d’ottobre del 2019): in un racconto, il narratore rievoca l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e cita l’arma: un fucile semiautomatico “con mira telescópica de cuatro aumentos”. Come tradurre? A che tipo di fucile sta facendo riferimento il narratore? Quanti tipi di obiettivi telescopici può presentare un fucile semiautomatico come quello che ha causato la morte del Presidente degli Stati Uniti d’America? Ecco che per tradurre correttamente uno deve anche informarsi sull’enciclopedia che ha consultato mentalmente l’autore; uno deve andare a scovare tra le varie armi automatiche e semiautomatiche quanti tipi di fucili esistono al mondo, con quanti tipi di obiettivi si vendono e, tra tutti questi, vedere come funziona un obiettivo “con mirino telescopico da quattro ingrandimenti” (è questa la traduzione migliore che ho trovato per ora; assurde le cose che si possono imparare traducendo letteratura).
Un secondo esempio banalissimo: in un altro racconto, il narratore parla di “corbatas estampadas”: lungi dal tradurre “cravatte a stampa”, che sinceramente non vuol dire nulla, un traduttore onesto che non conosca bene il mondo della moda maschile dovrà per forza di cose informarsi e scoprire (come ho scoperto io grazie alla pagina web di Valentino) che “corbatas estampadas” indica le “cravatte a fantasia”, quelle, cioè, che presentano delle figure stampigliate e riprodotte secondo uno schema simmetrico, potendo essere la “fantasia” un disegno di Walt Disney o della Pixar, uno con tanti piccoli granchi o pesci o zebre riprodotte in loop, per così dire; cravatte, insomma, che non hanno nulla a che vedere né con quelle a tinta unita (che in spagnolo si dice “de color”), né con quelle a pois (“de puntos”), né, tantomeno, con quelle a righe (“de rayas”).
È ovvio che avrei potuto evitarmi la ricerca e tradurre (tradendo il testo) “cravatta a pois” o “a tinta unita” o “a righe”, per il semplice motivo che il lettore italiano del testo originale spagnolo ignora a che tipo di cravatte si stia riferendo in quel brano il narratore; ma è ovvio anche che, se uno legge con attenzione e scopre lentamente qual è il carattere del personaggio che indossa questo tipo particolare e determinato di cravatte, constaterà alla fine che, effettivamente, un tipo del genere non può non indossare che “cravatte a fantasia”…
Così come è ovvio e logico ed esatto dire che chi ha assassinato JFK, l’ha fatto usando proprio un fucile semiautomatico “con mirino telescopico da quattro ingrandimenti”, soprattutto se il narratore è stato fedele alla Storia e ha fatto riferimento proprio al tipo di fucile usato da Lee Harvey Oswald (che, ad oggi, è considerato come l’unico vero responsabile dell’attentato).
Tradurre vuol dire anche questo: mantenersi fedeli al testo di partenza anche nei minimi dettagli o in quei dettagli che, pur sembrando secondari a prima vista, ricoprono, in realtà, una funzione enorme all’interno della narrazione. E chissà che, alla fine, il lettore apprezzi l’attenzione che il traduttore ha posto nei confronti del testo di partenza e sappia vedere che il testo d’arrivo funziona (ancora) bene rispetto a quello originale.

P.S.: uno dei racconti s’intitola “Singladura”: se uno ricorre al dizionario spagnolo-italiano scopre che il termine indica o la distanza o la durata di una navigazione in mare (24 ore nel corso d’una navigazione); metaforicamente si può tradurre anche con “rotta”. E allora attenzione, perché dipendendo da dove porre l’accento tonico, un lettore leggerà “rotta” come sostantivo (del gergo marinaro) e un altro lo leggerà, invece, come participio passato (al femminile) del verbo “rompere”. Solo una volta intrapreso l’atto di lettura, il nostro lettore potrà capire a che tipo di significato ci si riferisce nel titolo. Leggere è anche tradurre e sviscerare da ciò che si legge il senso di ciò che si evoca. Ergo: il lettore è sempre anche un traduttore dalla sua propria lingua madre. Perché ogni lingua implica l’atto del tradurre correttamente il significato di ciò che si legge. E la letteratura è il modo più stimolante di giocare con i molteplici significati che ogni lingua nasconde.

lunes, octubre 14, 2019

Il pittore de Le città invisibili


Tra le altre cose assurde e straordinarie di questi giorni, di questo periodo in cui l'estate ci abbandona definitivamente per cedere il posto all'autunno (e uno non sa come vestirsi, preché se c'è il sole si cuoce e quando scompare si gela), vi è, senza alcun dubbio, la mia recente conoscenza di uno dei pochi pittori che ha illustrato Le città invisibili, il famoso romanzo di Italo Calvino, forse uno dei suoi migliori libri, a mio modesto giudizio.

Doveva trattarsi di una tavola rotonda, ma il pittore in questione è così bravo nell'uso della retorica, così affascinante, per il modo che ha di trasmettere i suoi ricordi personali (in Italia ha avuto modo di conoscere non solo Calvino, ma anche Fellini, Pasolini e non ricordo più se Domenico Modugno o Franco Zeffirelli), così elocuente nell'orchestrare il discorso che, alla fine, ho avuto modo di fargli solo due domandine (e nessuna delle due verteva su Le città invisibili). 

Ciò che più mi ha colpito è stato il silenzio che è sceso in sala quando il pittore ha deciso di omaggiare Roma (città in cui vive per metà dell'anno) e di farci ascoltare un brano di Gabriella Ferri, artista che pochi conoscono qui in Spagna...E così, mi sono ritrovato proustianamente catapultato ai tempi in cui anch'io (come il pittore negli anni 60) scoprivo Roma e le sue bellezze e il suo disordine e le sue strade piene di monumenti antichi e di fori e di sanpietrini e di statue d'Imperatori Romani...

La voce di Gabriella Ferri riempie la sala stracolma (mi dicono siano rimasti fuori altri 50 spettatori) e molti chiudono gli occhi, come per assaporare meglio il canto e le note, le parole e le rime di Ti regalo gli occhi miei...anche se pochi sapranno l'italiano e pochi capteranno il ritornello...

"La mia vita ti regalo / così spero scoprirai che cos'è / cos'è l'amore"..."ti regalo gli occhi miei, / i capelli, la mia bocca / le mie mani, il mio respiro"...

E uno allora si rende conto improvvisamente di quanto importante sia la canzone popolare italiana nel mondo; del fatto che, probabilmente, fra cent'anni, ci saranno ancora persone intente ad ascoltare la voce di Gabriella Ferri, o quella di Ornella Vanoni o, ancora meglio, quella incredibile ed infinita di Mina (che pure citerà il pittore subito dopo l'ascolto del brano struggente della Ferri, ma io non ho resistito alla tentazione e ho dovuto dirlo a voce alta, davanti a tutti, Mina l'ascolteremo anche fra cent'anni, la voce di Mina non morirà mai!).

Il pittore finisce il suo intervento citando Nanni Moretti e il suo Caro diario (e già mi sta simpatico, per questo secondo omaggio all'Italia e al cinema italiano), poi scroscia l'applauso, alcuni addirittura si alzano in piedi (deve essere proprio un pittore molto amato in questa zona del Sud del Sud della Spagna e del mondo).

Poi andiamo a cena insieme ad altri giornalisti e studenti e ammiratori e una signora elegante che credevo fosse la moglie del pittore e che, invece, risulta essere la responsabile della Fondazione a lui intitolata. E lì, sì, lì, seduti davanti a una birra e una focaccia farcita dall'aspetto invitante, ci mettiamo a parlare di Italia e di Roma, di arte e di bellezza, di scrittura e di pittura, senza la costrizione oraria e il formalismo d'etichetta della tavola rotonda. 

Come tutti gli artisti, anche questo pittore ha un ego enorme; ma si capisce che ha molto vissuto, che ha molto viaggiato, che ha molto riflettuto. Torno a chiedergli di Gabriella Ferri e mi racconta uno dei suoi ricordi più tristi e più vividi:

"L'ultima volta che la vidi fu a Campo dei Fiori. Era già molto  malata. Aveva il trucco pesante, lo sguardo triste, gli occhi privi del brillio dei primi tempi, quando le sue canzoni facevano furore. Allora mi venne spontaneo avvicinarmi e presentarmi, non prima, però, di comprarle una rosa, la più bella che ci fosse nei fiorai della piazza. E così, mi presentai, le dissi che ero un suo ammiratore e le porsi la rosa. Gabriella mi guardò con affetto, mi ringraziò, dandomi un bacio sulla guancia, e poi se ne andò, lentamente, avvolta in una pelliccia di visone e un foulard elegante. Pochi mesi dopo scoprii sul giornale che era morta. Fu un duro colpo. Non immaginavo che potesse succedere e, al contempo, sapevo benissimo, dopo averla vista a Campo dei Fiori, che sarebbe morta".

Il pittore avrà sui settant'anni, ben portati. Ma quando arriva a pronunciare quest'ultima frase si vede benissimo che gli cambia il volto: un'ombra di morte gli passa accanto e poi se ne va. "Brindiamo alla vita!", esclama la direttrice della Fondazione. E tutti alzano il bicchiere e fanno "cin cin" (all'italiana), invece di dire "salud!" (alla spagnola).



miércoles, octubre 09, 2019

Premi letterari

Per la prima volta in vita mia, m'invitano a partecipare alla giuria di un premio letterario molto importante nella regione del Sud del Sud della Spagna in cui mi trovo e lavoro. Decido di accettare anche se so che, a fine giugno, diventerò padre e avrò, di conseguenza, molto meno tempo da poter dedicare alla lettura.

Proprio per questo, gli altri 6 giurati mi fanno il favore di darmi soprattutto libri di poesia, raccolte poetiche brevi o che, al massimo, occupano un centianio di pagine. Nel mucchio, capitano anche 3 o 4 romanzi (un paio piuttosto voluminosi).

Leggo ovunque, anche in sala parto, anche in ospedale, mentre la mia compagna di avventure si riprende dall'operazione, dall'evento miracoloso e dal miracolo della vita che si fa strada con forza e vede la luce.

Leggo anche quando ricominciano i corsi all'Università; quando appoggio la causa di un gruppo di colleghi iscritti al sindacato e che m'invitano ad appoggiare il sindacato; quando la prole dorme, dalla mezzanotte in poi, ma anche quando è sveglia (e diventa davvero complicato intrattenerla e svoltare pagina).

E passano i giorni e passano i mesi e, finalmente, arriva il giorno tanto atteso, il giorno in cui il vincitore verrà eletto e riceverà i 5 mila euro del premio e l'applauso dei lettori. Due settimane prima, però, assisto alla lotta interna tra il bando di chi sceglie questo determinato scrittore (che, obiettivamente, si merita di vincere) e il bando di chi, per una sorta d'odio irrazionale, vorrebbe far passare il secondo classificato.

È la primissima volta che mi vedo coinvolto in una diatriba del genere ed è davvero incredibile (e anche leggermente inquietante, oltre che divertente) vedere come si scannino professori, editori, scrittori che hanno già vinto il premio in edizioni anteriori, librai e uomini della cultura e della letteratura che, si suppone, sono accomunati dalla stessa passione per i libri e baciati dalla stessa stella umanista.

Sfioriamo la rissa, ma alla fine sì, si decide a maggioranza che il vincitore è lui. E allora eccolo, il giorno in cui lo scrittore si presenta davanti al sindaco, al Rettore, alle autorità e, ovviamente, ai noi, Signori della Corte...

Lo scrittore è emozionato: legge un brano dal suo romanzo, la voce trema davanti al microfono, poi è tutto un batter di mani, un'ovazione, applausi a non finire.

Siamo tutti amici come prima; si esce dall'Aula Magna per andare a spilluzzicare qualcosa nel buffet che ci è stato gentilmente offerto da non ricordo più quale sponsor. Pacche sulle spalle, i membri della giuria (me compreso) si godono un po' di meritato relax. 

"Dio santo, quanti libri orrendi ci siamo visti obbligati a leggere", dice una.
"Che faticaccia!", esclama l'altro.
"È stata un'esperienza arricchente", affermo, tanto per dare loro ad intendere che mi sono sentito onorato dall'aver condiviso con loro questo lavoraccio.

Lo scrittore beve un po' troppo; poi mi si avvicina e mi dice che è davvero contento che tra i membri della giuria ci sia un italiano, un ispanista, un esperto della letteratura spagnola. Gli prometto che, prima o poi, scriverò un articolo sul suo romanzo. Lui sorride e continua a bere, mentre la moglie lo elogia davanti alle amiche.

Gli altri poeti, scrittori, editori e librai si scatenano a sparlar male di altri colleghi assenti. Io brindo alla vita e alla letteratura, con la speranza che l'anno prossimo nessuno si ricordi più di me, perché va bene premiare la letteratura, ma a volte leggere troppo può risultare davvero indigesto...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...