EGLI
PASSEGGIA
Egli
passeggia. Avanti e indietro, in modo costante, con precisione
millimetrica, tra il bar e il negozio di ferramenta, tra il portone
di casa mia e la palestra di fronte, senza stancarsi mai. Egli
passeggia e osserva i passanti, le persone “normali” che vanno a
fare la spesa, che vanno in palestra a cercare di dimagrire, che
scappano a lavoro perché sono in netto ritardo, che corrono a
gettare l'immondizia in pantofole di flanella prima che cominci il
film di prima serata. Passano i giorni, i mesi, perfino le stagioni,
e lui è sempre lì, che passeggia placido e apparentemente senza
nessunissima fretta e senza alcun motivo che sia spiegabile dal punto
di vista della ragione. Forse è già in pensione o forse si annoia
(come chi, ad esempio, ha perso il lavoro e, all'improvviso, non sa
più come occupare il tempo, come riempire le ore di cui si compone
un'intera giornata); forse è malato e non si rende conto che
continua a passeggiare nello stesso spazio (lo stesso perimetro)
anche quando fa freddo o piove o tira vento (indossa quasi sempre gli
stessi panni, gli stessi vestiti un po' sgualciti, d'un colore a metà
tra il nero e il grigio, colori tristi, insomma). E ogni tanto il mio
sguardo s'incrocia con il suo e allora mi viene il dubbio di
chiedergli se sta bene, ma me ne pento immediatamente, non sono
nessuno io per lui per chiedergli cosa diavolo ci fa tutto quel tempo per strada, a camminare, da sinistra a destra e viceversa, dalla
palestra alla ferramenta e dalla ferramenta al portone d'ingresso di
casa mia, dal portone al bar (non sembra un senza-tetto, come si dice
oggi con gergo politicamente corretto, perché a dispetto
dell'apparenza, ripeto, sembra uno che ha una casa in cui stare, un
tetto sotto cui ripararsi).
Ne
ho parlato anche con la mia compagna di sventure; quando siamo
usciti, l'altra sera, per andare al cinema, per andare a vedere un
film in cui Jude Law interpreta Thomas Wolf, lo scrittore, gliel'ho
indicato e allora anche lei se ne è subito ricordata: “Ma io l'ho
già visto quel tizio, lo vedo tutti i giorni accanto al bar e, a
volte, di fronte alla palestra”.
Ci
guarda, è come se rispondesse (in silenzio) alla nostra ispezione
visiva; poi ci vergognamo e distogliamo entrambi lo sguardo verso
l'alto o verso un punto all'orizzonte in cui non appaia la sua sagoma
oscura.
Avrà
sui quarant'anni o forse qualcosa di più; ha delle rughe molto
vistose sulla fronte, spaziosa e con delle stempiature evidenti ai
lati, anche se i ricci che occupano la nuca sono piuttosto folti e
forti. S'intravede della forfora sulle spalle della giacca. Le mani
sempre infilate in tasca, sia quando fa caldo che quando fa freddo.
Ai piedi porta delle polacchine classiche di colore marrone. I
pantaloni sono a coste ampie, anch'essi di un colore scuro (neri,
marroni o grigi). Ha un po' di gobba, quando deambula si nota che
guarda troppo verso terra, non è eretto, si piega sotto il peso di
chissà quale dramma interiore. Non sappiamo come si chiama, né se
ha una moglie o una fidanzata. Quando ci vede felici, quando
s'imbatte in me e mia moglie nell'atto di baciarci o di abbracciarci
con passione o con allegria, sembra lanciarci uno sguardo reprobo,
sembra quasi che gli diamo fastidio, o meglio, che gli dia fastidio
tanta manifestazione pubblica d'affetto, tanta smanceria...
Quando
torno dal fruttivendolo, con le buste di plastica stracolme di banane
e mandarini, di mele e di ananas, mi guarda con aria di sfida, come a
voler sottolineare che lui, tutta quella frutta, non ce l'ha in casa
perché, forse, non può permettersela.
Quando
rincaso tardi con i nervi a fior di pelle, perché è stata una
giornataccia, perché a lavoro ho avuto mille beghe da risolvere e
che non ho risolto, quando fumo per il nervosismo, mi lancia uno
sguardo come di soddisfazione, come se godesse nel leggermi nel volto
lo stress di un'intera giornata passata a sgobbare.
Quando,
invece, mi trova vestito da ginnasta, quando decido che è arrivata
l'ora di andare a correre e indosso le scarpe da tennis e il completo
sportivo, con le maniche corte e i pantaloncini estivi, mi osserva di
sottecchi come a dire che lo sport non mi farà affatto bene, che non
perderò quei tre chili di sovrappeso che si notano quando indosso
giacca e cravatta.
Quando
torno in bici, lo stesso: sembra assumere l'atteggiamento di sfida
del vigile urbano che ti farà la multa perché hai parcheggiato dove
è proibito farlo.
Egli
passeggia e osserva e sembra avere doti da profeta, sembra
immischiarsi nelle vite degli altri col suo solo atto di guardare e
di camminare, instancabile, imperterrito, ignaro degli attentati
suicidi che tempestano la quotidianità di mezza Europa, ignaro anche
della crisi economica, ignaro dei titoli dei giornali, concentrato,
apparentemente, solo su se stesso e sulla contemplazione del
prossimo, dei vicini che abitano tra il negozio di ferramenta e il
bar dell'angolo, tra la palestra e il portone di casa mia...
Egli
passeggia, osserva e giudica con lo sguardo e non c'è proprio modo
di sapere davvero a cosa pensi, cosa ne pensa di noi, che siamo
sempre affannati, sempre di corsa, sempre di sfuggita, sempre sotto
stress.
Egli
passeggia, osserva, giudica e forse ci critica nel suo io più intimo
e nascosto, o forse ci odia, o forse ci invidia, o forse, molto più
semplicemente, gli siamo indifferenti, anche quando i suoi occhi non
possono fare a meno di radiografare ogni nostro minimo movimento.
E'
una presenza quotidiana inquietante. Ecco, è forse questa l'unica
certezza che ho. Che abbiamo.