sábado, diciembre 24, 2016

EGLI PASSEGGIA



Egli passeggia. Avanti e indietro, in modo costante, con precisione millimetrica, tra il bar e il negozio di ferramenta, tra il portone di casa mia e la palestra di fronte, senza stancarsi mai. Egli passeggia e osserva i passanti, le persone “normali” che vanno a fare la spesa, che vanno in palestra a cercare di dimagrire, che scappano a lavoro perché sono in netto ritardo, che corrono a gettare l'immondizia in pantofole di flanella prima che cominci il film di prima serata. Passano i giorni, i mesi, perfino le stagioni, e lui è sempre lì, che passeggia placido e apparentemente senza nessunissima fretta e senza alcun motivo che sia spiegabile dal punto di vista della ragione. Forse è già in pensione o forse si annoia (come chi, ad esempio, ha perso il lavoro e, all'improvviso, non sa più come occupare il tempo, come riempire le ore di cui si compone un'intera giornata); forse è malato e non si rende conto che continua a passeggiare nello stesso spazio (lo stesso perimetro) anche quando fa freddo o piove o tira vento (indossa quasi sempre gli stessi panni, gli stessi vestiti un po' sgualciti, d'un colore a metà tra il nero e il grigio, colori tristi, insomma). E ogni tanto il mio sguardo s'incrocia con il suo e allora mi viene il dubbio di chiedergli se sta bene, ma me ne pento immediatamente, non sono nessuno io per lui per chiedergli cosa diavolo ci fa tutto quel tempo per strada, a camminare, da sinistra a destra e viceversa, dalla palestra alla ferramenta e dalla ferramenta al portone d'ingresso di casa mia, dal portone al bar (non sembra un senza-tetto, come si dice oggi con gergo politicamente corretto, perché a dispetto dell'apparenza, ripeto, sembra uno che ha una casa in cui stare, un tetto sotto cui ripararsi).

Ne ho parlato anche con la mia compagna di sventure; quando siamo usciti, l'altra sera, per andare al cinema, per andare a vedere un film in cui Jude Law interpreta Thomas Wolf, lo scrittore, gliel'ho indicato e allora anche lei se ne è subito ricordata: “Ma io l'ho già visto quel tizio, lo vedo tutti i giorni accanto al bar e, a volte, di fronte alla palestra”.

Ci guarda, è come se rispondesse (in silenzio) alla nostra ispezione visiva; poi ci vergognamo e distogliamo entrambi lo sguardo verso l'alto o verso un punto all'orizzonte in cui non appaia la sua sagoma oscura.

Avrà sui quarant'anni o forse qualcosa di più; ha delle rughe molto vistose sulla fronte, spaziosa e con delle stempiature evidenti ai lati, anche se i ricci che occupano la nuca sono piuttosto folti e forti. S'intravede della forfora sulle spalle della giacca. Le mani sempre infilate in tasca, sia quando fa caldo che quando fa freddo. Ai piedi porta delle polacchine classiche di colore marrone. I pantaloni sono a coste ampie, anch'essi di un colore scuro (neri, marroni o grigi). Ha un po' di gobba, quando deambula si nota che guarda troppo verso terra, non è eretto, si piega sotto il peso di chissà quale dramma interiore. Non sappiamo come si chiama, né se ha una moglie o una fidanzata. Quando ci vede felici, quando s'imbatte in me e mia moglie nell'atto di baciarci o di abbracciarci con passione o con allegria, sembra lanciarci uno sguardo reprobo, sembra quasi che gli diamo fastidio, o meglio, che gli dia fastidio tanta manifestazione pubblica d'affetto, tanta smanceria...

Quando torno dal fruttivendolo, con le buste di plastica stracolme di banane e mandarini, di mele e di ananas, mi guarda con aria di sfida, come a voler sottolineare che lui, tutta quella frutta, non ce l'ha in casa perché, forse, non può permettersela.

Quando rincaso tardi con i nervi a fior di pelle, perché è stata una giornataccia, perché a lavoro ho avuto mille beghe da risolvere e che non ho risolto, quando fumo per il nervosismo, mi lancia uno sguardo come di soddisfazione, come se godesse nel leggermi nel volto lo stress di un'intera giornata passata a sgobbare.

Quando, invece, mi trova vestito da ginnasta, quando decido che è arrivata l'ora di andare a correre e indosso le scarpe da tennis e il completo sportivo, con le maniche corte e i pantaloncini estivi, mi osserva di sottecchi come a dire che lo sport non mi farà affatto bene, che non perderò quei tre chili di sovrappeso che si notano quando indosso giacca e cravatta.

Quando torno in bici, lo stesso: sembra assumere l'atteggiamento di sfida del vigile urbano che ti farà la multa perché hai parcheggiato dove è proibito farlo.

Egli passeggia e osserva e sembra avere doti da profeta, sembra immischiarsi nelle vite degli altri col suo solo atto di guardare e di camminare, instancabile, imperterrito, ignaro degli attentati suicidi che tempestano la quotidianità di mezza Europa, ignaro anche della crisi economica, ignaro dei titoli dei giornali, concentrato, apparentemente, solo su se stesso e sulla contemplazione del prossimo, dei vicini che abitano tra il negozio di ferramenta e il bar dell'angolo, tra la palestra e il portone di casa mia...

Egli passeggia, osserva e giudica con lo sguardo e non c'è proprio modo di sapere davvero a cosa pensi, cosa ne pensa di noi, che siamo sempre affannati, sempre di corsa, sempre di sfuggita, sempre sotto stress.

Egli passeggia, osserva, giudica e forse ci critica nel suo io più intimo e nascosto, o forse ci odia, o forse ci invidia, o forse, molto più semplicemente, gli siamo indifferenti, anche quando i suoi occhi non possono fare a meno di radiografare ogni nostro minimo movimento.


E' una presenza quotidiana inquietante. Ecco, è forse questa l'unica certezza che ho. Che abbiamo. 

lunes, diciembre 19, 2016

S'AVVICINA (IL NATALE)




Non l’immaginavo mica che, sul finire del 2016, a ridosso del Natale (si avvicina e la gente impazzisce dietro ai regali, file chilometriche di clienti nei negozi di vestiti, di scarpe, di sciarpe, di alimentari, di abbigliamento sportivo), mi sarei ritrovato a consultare il sito della mia banca per vedere come procedono i fondi (a bassissimo rischio, così me li ha presentati il direttore, ma vatti poi a fidare, chissà): risalgono, per fortuna, anche se di pochissimo (all’inizio ho perso circa 124 euro, ora un po’ meno, mi dice che per la prossima primavera sarò andato in parità, se non con qualche spicciolo in più di guadagno netto su non so quale diavolo di percentuale); né immaginavo che potessi finire col comprarmi un prosciutto intero (si sa, qui in Spagna, il “jamón serrano” non è un cibo qualunque, c’è dietro tutta una serie di rituali, una sfilza di secoli, un insieme impressionante di saperi e di abilità culinarie che si coagulano per darci una prelibatezza che non ha uguali al mondo). E così, mentre ascolto Luigi Boccherini (morto in Spagna e al servizio della corona spagnola finché campò – famosa la sua “La musica notturna per le strade di Madrid”), mi accorgo di com’è difficile vivere, di com’è dura affrontare le vacanze natalizie (sto già sognando di rintanarmi in casa, anzi, in camera da letto, di staccare tutto, cellulare, computer, fax, di non vedere nessuno, amico o parente che sia, solo per guardare decine, centinaia di film che ho in lista da un bel pezzo e che non ho ancora potuto vedere con la calma che meritano), di com’è antipatico dover essere per forza felici solo perché è così che vuole il calendario, lo detta la legge delle norme sociali: è Natale (s’avvicina! S’avvicina!) e siamo tutti più buoni, siamo tutti più clementi, siamo tutti più pronti ad offrire amore (ma quando mai?).

La mia compagna di avventure mi dice che sono troppo scorbutico, ultimamente, e anche troppo negativo: l’altro giorno, passeggiando in centro, capitiamo sotto tiro d’una statua di un equilibrista che cammina con un bastone in mano sul filo del rasoio; all’estremo opposto della testa dell’equilibrista pende un globo, un pallone gigante che dovrebbe rappresentare il mondo. Lo guardo e glielo dico (è più forte di me, non posso resistere): “Guarda quella scultura; immagina che ora si trovi a passare di lì un pedone e si scioglie il nodo che tiene attaccata la palla alla base dei piedi dell’equilibrista e che la palla rovini addosso al pedone e gli spacchi il cranio, immagina la massa encefalica e il sangue che schizzano sul marciapiede, gli occhi che come schegge impazzite fuoriescono dalle orbite, immaginatelo…”.

E tutto ciò nonostante il fatto che non abbia tanti problemi di cui lamentarmi, non ho troppe rogne, non ho tanti nodi da sciogliere, come è magari capitato anni addietro…

Anzi, l’editrice del mio libro mi dice che (testuali parole) “si sta vendendo bene”; e penso che sia davvero incredibile, che si tratti quasi di un miracolo, che “si venda bene” un tomo di quasi 400 pagine di critica letteraria, in un mondo come il nostro in cui – siamo sinceri – si legge sempre meno e la minoranza che incarnano i lettori “forti” non si dedica di certo a leggere opere di “critica del testo” (elucubrazioni a volte astratte e astruse che non portano da nessuna parte, discettazioni a volte scritte con stile arzigogolato solo per mascherare la propria impossibilità di capire il testo – spero non sia questo il mio caso, io almeno ci ho provato, a dire la mia sul testo, e il tutto con uno stile il più possibile “asciutto” e “chiaro” e “diretto”).

Boccherini continua a suonare (archi, violini, trombe, violoncelli, è un tripudio di suoni che mettono allegria, nonostante i passanti che sbattono l’uno contro l’altro per la furia di fare l’affare del secolo e di comprare i regali a buon prezzo); sulla scrivania Guido Paduano aspetta che lo riprenda in mano: La nascita dell’eroe, è così che s’intitola questo saggio su Achille, Odisseo ed Enea, ovvero, sull’Iliade, l’Odissea e l’Eneide, ovvero, i tre principali poemi epici della classicità greco-romana da cui nascerà gran parte della letteratura occidentale così come oggi la conosciamo… Lo incontrai solo una volta, Guido Paduano, per sbaglio, in un corridoio della Facoltà di Lingue presso l’Università di Pisa (lì insegna – o insegnava, forse è andato in pensione – Filologia Classica e Letterature Comparate), e non ricordo nemmeno più che faccia abbia. L’oblio è sempre pronto a cancellare porzioni del nostro passato; e quando uno si sforza e tenta di tornare con la memoria a quella determinata scena passata non può più farcela, il nome è rimasto saldo in mente, il volto è scomparso per sempre nella nebbia.


Felice Natale a tutti, gente! 

viernes, diciembre 09, 2016

Mia madre, di Nanni Moretti: non solo un film e basta



“Un film e basta”, così s’intitola uno degli “extra” del dvd di Mia madre, l’ultimo lavoro di Nanni Moretti, uscito nel 2015 e che io non ho potuto vedere al cinema (magari al Sacher dello stesso Moretti) perché ormai, dal 2013, vivo in pianta stabile in Spagna… (ed è la prima volta che non corro a vedere l’ultimo di Nanni, mi sento un traditore, come se avessi mancato un appuntamento importante…). E invece no, non è affatto “un film e basta”, questo qui, è anche un canto alla madre scomparsa, un piccolo saggio di auto-analisi e una breve ma intensa riflessione su chi siamo (noi tutti) di fronte alla morte, piccoli essere umani deboli e pieni di difetti e di dubbi e di illusioni (e su questo versante, è inutile aggiungerlo - chi ha visto il film lo sa - Margherita Buy svolge un ruolo fondamentale, riesce a dare davvero un volto e un corpo alla disperazione e alla rabbia, al senso d’impotenza di chi sta di fronte alla Morte e sa che non potrà fare più nulla per contrastarla o arrestarla, Margherita Buy è bravissima e Nanni Moretti le regala i primi piani più belli ed intensi del cinema italiano di questi ultimi anni).

E c’è una scena, in particolare, che mi è rimasta impressa, ed è quella in cui Margherita Buy, che qui impersona l’alter-ego di Nanni Moretti e fa la regista intellettuale di sinistra in crisi, tocca i libri che sono appartenuti a sua madre, professoressa di Latino al liceo, e si domanda (in pieno set, davanti agli operatori e a John Turturro, la star americana chiamata a recitare il ruolo del “cattivo” di turno): “Tacito, Seneca, che fine faranno? Dove andranno a finire tutti i libri di mia madre? Tutte le giornate, le ore, passate a leggere, a tradurre e a studiare?”.

La domanda ce la poniamo tutti, prima o poi. Io me la sono posta quando La Repubblica mise a disposizione dei lettori un breve video di un paio di minuti in cui si vede Umberto Eco gironzolare all’interno dell’immensa biblioteca di casa sua e uno si domanda di nuovo, insieme alla Buy: “Dove andranno a finire tutti quei saggi, quelle centinaia di romanzi, quei manoscritti antichi e medievali rarissimi e costosi, appartenuti al grande Eco? Che fine faranno?”.

E c’è un’altra scena che poi, alla fine, Nanni Moretti ha deciso di scartare e, invece, è morettiana al massimo grado ed è un vero peccato che, alla fine, l’abbia eliminata, ed è la scena in cui una donna chiede alla regista che film stia girando e Margherita Buy non vuole rispondere e s’inventa una trama, dice che si tratta di un film sentimentale, un film d’amore, addirittura, e allora Nanni Moretti ci mostra uno spezzone, un frammento di questo film “immaginario”, in cui si vede John Turturro che torna a Roma dall’America e ritrova la donna della sua vita all’interno di una libreria e i due si guardano, si riconoscono, si sorridono e poi si mettono a ballare, in modo dolce, dinoccolato, e così pure il resto dei dipendenti della libreria, tutti danzano, al ritmo di una canzone che domani andrò a cercarmi su YouTube, perché è un pezzo formidabile, romantico, nostalgico, pieno di tenerezza, che fa sorridere e fa anche un po’ piangere, Nanni Moretti al cento per cento, in questa scena alla fine tagliata, in cui tutti ballano, tutti si abbracciano, e l’amore – quello vero, ma qual è l’amore vero? – sembra prevalere su tutto, e lo spettatore viene trasportato per un minuto in una dimensione in cui la Morte non c’è più, perché ha stranamente perso la sua partita contro l’uomo e siamo tutti più sorridenti e allegri e rilassati…

Non sarà un capolavoro, non sarà di certo il suo miglior film (io non so scegliere tra Ecce Bombo e Caro Diario), ma Mia madre è certamente un gran bel film, una di quelle opere da vedere e rivedere, uno di quei pezzi d’arte in cui ci si ritrova tra le mani, le braccia e l’immaginazione di un grande narratore come è Nanni Moretti…



sábado, noviembre 05, 2016

Congressi (organizzarli)





Dunque, per la prima volta in vita mia, decido di proporre un congresso, una giornata intensa con 7 interventi da parte di esperti di Storia, Sociologia, Scienze delle Comunicazioni, Lettere, Lingue (inglese e francese) e Filosofia.

Mai proposto nulla e mai organizzato nulla di simile prima; per fortuna che in questa avventura mi accompagna Sonia, che è una segretaria perfetta: tutte le beghe burocratiche che ci rallentano il lavoro (e sono tante e sono varie e sono pure molto variegate – alcune fastidiose), lei le risolve in un batter d’occhi, spianandomi la strada verso il traguardo finale.

E così, per la prima volta in vita mia, mi trovo costretto a scegliere uno slogan, un’immagine per i dépliant della pubblicità dell’evento, l’ordine in cui dovranno parlare i 7 colleghi delle specialità succitate…

Non è facile: basta sbagliare una nota e si stona; mi affido alla fortuna e al criterio del “buon senso” o anche detto “senso comune”. Io non so (non lo so ancora) cosa diranno i miei colleghi invitati, e però so che a tutti ho chiesto la stessa cosa, a tutti ho proposto di riflettere sullo stesso tema: come siano diventati lettori “forti”; quali opere hanno contraddistinto la loro adolescenza e giovinezza fino a trasformarli e a convertirli in persone che non possono smettere di leggere (opere letterarie di qualità, si spera e si suppone).

E insomma, anche con l’aiuto di Sonia, riesco a strutturare un programma in cui si va dalla letteratura classica (i Greci e i Latini), fino alla Letteratura Inglese e Francese contemporanee, passando per quella prodotta in America del Sud a quella che si legge oggi in Spagna (mi manca qualcuno che parli di Letteratura Italiana e di quella Tedesca; ci penso e spero di poter rimediare l’anno prossimo, quando proverò ad intervenire anch’io sul tema in oggetto d’analisi e quando proverò a coinvolgere qualche collega tedesco di Lingue).

E insomma, alla fine, io e Sonia riusciamo pure a scegliere quella che ci sembra l’immagine migliore per il congresso, quella di una ragazza immersa in una luce crepuscolare, seduta su un prato, con il volto immerso tra le pagine di un tomo e circondata da altri mattoncini stampati (diciamoci la verità: è un’immagine utopica, oggigiorno è quasi impossibile vedere una giovane così concentrata nella lettura di un libro a stampa, è un sogno, qualcosa d’irreale, ma la lasciamo così, in questo congresso vogliamo trasmettere il virus benigno della lettura, vogliamo essere fiduciosi e ottimisti, lasciamola così questa immagine di copertina quasi bucolica…).

E alla fine arriva il giorno tanto atteso (dopo mesi e mesi di preparazione, di burocrazia, di lotta fino all’ultimo modulo per avere il permesso di occupare l’Aula Magna dell’Università, dopo mille trafile e mille preghiere per ottenere un minimo di fondi – non di solo libri vive l’uomo, ci vuole pure il pane, ne converrete). E così, tremando, mi appresto ad entrare in scena: i microfoni sono tutti pronti, le targhe plastificate con i nomi dei conferenzieri tutte luccicanti, le sedie tutte pronte per accogliere il maggior numero possibile di alunni e colleghi che vengono dalle altre Facoltà e che, si spera, apprezzeranno e faranno domande interessanti sull’argomento “lettura”.

Ed è mentre m’appresto a disporre le bottigliette d’acqua accanto a ogni targhetta plastificata che una giornalista mi chiede il permesso d’intervistarmi. Intervistare me! Ora! In Aula Magna! Era l’ultima cosa cui potessi pensare in questo momento… E comunque, siamo attori, dobbiamo recitare la nostra parte: mi controllo il nodo alla cravatta, mi rassetto un po’ i capelli, e ciak, si gira. Provo a mantenere un tono di voce neutro; provo a spiegare in poche frasi in cosa consiste questo congresso, che temi verranno sviscerati, quali sono gli obbiettivi accademici che ci siamo posti. Dopodiché si comincia: do inizio alle danze. Faccio i dovuti ringraziamenti; e presento i “giocatori” di cui dispongo; li schiero in campo e diamo inizio alla partita…

Emozioni indescrivibili. L’Aula Magna è colma. Gli studenti fanno domande molto intelligenti. I conferenzieri fanno interventi di alto livello (un livello che non mi aspettavo). Alcuni mi lasciano a bocca aperta per quanto impegno ci mettono nell’esporre in maniera chiara il loro punto di vista. Applausi e richieste di bis da parte del pubblico. Alcuni colleghi mi stringono la mano per congratularsi per l’iniziativa.


Il giorno dopo qualcuno mi manda il link a un articolo apparso su un giornale locale nella sua versione “online”. Parlano di me. Di noi. Di me e di Sonia e del congresso appena svolto. Riportano le mie parole. E mi sembra strano, quasi alienante, vedere scritte le mie parole su un supporto “online” che non controllo io. E di fatto, ci scappa un refuso orrendo: la giornalista mette una virgola lì dove andava un “no”; trasforma in affermativa una mia frase negativa. Vorrei urlare di rabbia. Come cazzo si fa a contraddire la frase che apre il discorso con quella che lo chiude? Poi mi calmo. E rifletto: si parla di noi, del congresso, e se ne parla in termini più che elogiativi. C’è sempre tempo per scrivere alla redazione e chiedere una rettifica (pregarli di togliere quel refuso enorme ed orrendo). Giro il link a Sonia. E non appena lo apre, salta di gioia. Mi abbraccia forte e mi dice “grazie”. Sono io che la devo ringraziare. Perché ha saputo spianare la strada verso la meta finale. Ci riabbracciamo e ci diamo appuntamento per la prossima sfida. La prossima volta inviteremo a parlare anche qualcuno di Letteratura Tedesca. E di quella Italiana, se posso, mi occuperò io. Queste sì, le possiamo definire “soddisfazioni”.

domingo, octubre 23, 2016


Convivere con i ricordi del passato (di chi se ne va)





Questa mattina (martedì, 18 d’Ottobre del 2016), alle 7:30 del mattino, mia madre mi ha chiamato e mi ha dato la notizia: “E’ morto nonno”. Il fatto di sapere che, prima o poi, questo annuncio sarebbe arrivato alle mie orecchie, non ha attutito gli effetti del dolore di chi resta e sa che una parte di sé muore insieme al defunto. Oggi ci sentiamo tutti un po’ orfani, perché, appunto, se ne è andato (per sempre) un pezzo dei nostri ricordi, della nostra vita, delle nostre illusioni e passioni sorte attorno al nonno, una figura familiare potente, un personaggio noto a molti, in paese (mia sorella m’informa sulla situazione attuale: da stamattina, fino ad oggi pomeriggio, è già passato mezzo paese a casa dei nonni, lui conosceva tutti – o era conosciuto da tutti – e ci sono stati momenti di tensione, come se ci fosse la coda, tutti in attesa per dargli l’estremo saluto).

Vivere un lutto stando all’estero è durissimo. Ci si sente ancor più impotenti (dopo le parole di mia madre sono rimasto di sasso, non sapevo letteralmente cosa fare, ma avevo lezione alle 9, dovevo comunque uscire di casa e muovermi, non aveva senso mollare tutto e lasciare i miei alunni allo sbando). E così, sono andato all’Università come sempre, come faccio nella mia vita normale dal Lunedì al Venerdì, anche se camminavo male, e qualche passante ha notato i miei pensieri cupi e qualcuna (una mamma che accompagna il figlioletto a scuola, una donna in carriera che non ha perso l’istinto materno, una donna delle pulizie madre di otto figli) ha notato anche le lacrime. E poi sono entrato in aula, come se niente fosse, come se fosse un altro giorno qualsiasi (di spiegazioni su spiegazioni sulla letteratura e la letterarietà – cos’è che rende un testo “letterario”, che intendiamo per “testo” e cosa per “letterario”, domande complesse, alle 9 del mattino). E il senso d’impotenza ha continuato ad agire fino all’ora di pranzo, quando, ormai, l’idea di prendere un aereo al volo era stata scartata (i funerali si celebrano domani alle 15).

Impotente. Orfano. Solo. Ho mangiato perché era previsto dal copione; la morte di una persona cara ti fa capire quanto sia sciocco e prevedibile il copione che tutti i giorni seguiamo in maniera quasi involontaria, applicando alla vita una serie di automatismi che ci salvano dall’abisso (le abitudini sono fondamentali, l’essere umano è un animale abitudinario, togli le sante abitudini e rischiamo tutti di smarrirci). E poi, inevitabilmente, ho pianto di nuovo. Perché è difficile non riandare con la mente a tutti quei ricordi che associamo (subito, d’istinto) alla persona cara ormai deceduta. E così, rivedo il nonno immerso nella lettura di un libro di storia antica; concentrato nell’esecuzione della Primavera di Vivaldi (era un violinista autodidatta eccezionale); circondato da decine, anzi, da centinaia di studenti che hanno imparato a suonare grazie a lui (mio nonno è stato il primo vero maestro di musica del paese; da qui il fatto che stamane sia iniziata una lunga fila di persone in attesa di salutarlo; avrà insegnato a capire e a leggere le note a più della metà del paese in cui è nato).

E uno si domanda: come farò a convivere con tutti questi ricordi del passato di una vita che ormai si è spenta? Come fare, quando restano lì, intatti, gli oggetti, i documenti, i libri, gli strumenti che sono stati “suoi” per così tanto tempo? (mio nonno nacque nel 1928, se non erro; ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale; la Guerra Fredda; l’atterraggio sulla Luna, etc. etc.). Come fare, quando il suo violino preferito è ancora lì, sopra la scrivania della sala, in mezzo a mille libri e appunti sparsi e leggii e note trascritte su mille pentagrammi…


Mia cugina mi trascrive un messaggio che lo definisce bene: “Un amore per la musica che lo ha reso il Maestro di intere generazioni, un grande uomo di passioni e coraggio, di valori e d’istinto”. E le lacrime m’impediscono di continuare a scrivere. E’ duro, durissimo, convivere con i ricordi di chi abbiamo amato in vita e ora non c’è più. E’ complicato tornare a casa sapendo che non ci sarà più il nostro Maestro e violinista preferito ad allietarci la giornata con la sua musica classica, i suoi Mozart, i suoi Bach, la sua strabiliante Marcia di Radetski

jueves, septiembre 29, 2016


Vite parallele (quando uno si ritrova a vivere all’estero)




Dunque, la questione è la seguente: ho come la sensazione che il fatto stesso di non vivere più in Italia, ovvero, di non essere più fisicamente presente nei luoghi in cui – prima del mio “trasloco” in Spagna – ero solito vivere, abbia innescato un meccanismo bislacco, perverso e anche un po’ grottesco, in base al quale – senza io volerlo né tantomeno desiderarlo o auspicarlo – gli altri (che mi conoscono o che mi conoscevano o avevano una qualche nozione della mia identità) hanno cominciato a “inventarsi” altre, malleabili, modificate versioni di me e della mia vita (come se la mia vita importasse davvero a qualcuno, diciamoci la verità: non dovrebbe importare proprio a nessuno!).

E così l’altro giorno, parlando per telefono con una collega di Pisa, vengo a sapere che qualcuno ha sparso in giro la notizia che ho avuto da poco un figlio e che, ormai, sono così impegnato nei miei doveri di padre da trascurare i miei impegni accademici… Poveretto… un bimbo appena nato… certo non avrà più tempo per fare ricerca… certo la moglie lo aiuterà, ma vuoi mettere? Ora ha altro per la testa…

Io. Un figlio. Neonato.

Storie dell’altro mondo.

Ho provato a chiedere alla mia collega chi fosse l’autore di una simile frolloccata. Ma per il bene dell’altro collega, la mia amica ha sorvolato, commentando semplicemente (come a voler smorzare i toni) che la gente è matta, che ci sono persone che non hanno altro a cui pensare e che, per questo, si mettono a spettegolare degli altri, che non devo dargli troppa importanza, che prima o poi mi dimenticherò di questa stupida diceria…

E allora apro l’email, con la ferma intenzione di dimenticarmi di questa fandonia messa in giro (sotto forma di gossip di bassa  lega) da qualche malintenzionato o cerebroleso o ficcanaso contafrottole e mi accorgo di aver ricevuto un messaggio da parte di un’altra collega, di Roma “La Sapienza”, che mi chiede com’è andato il concorso a Palermo, perché è venuta a sapere da un’altra (di Milano) che hanno orchestrato un concorso per me, ad personam, per farmi rientrare in Italia, tramite la legge promossa dal Governo Renzi per evitare ulteriori fughe dei cervelli all’estero…

Ovviamente, ci resto di sasso. Palermo. Concorso disegnato su misura. Governo Renzi. Rientro dei cervelli in fuga.

Le rispondo che non ne sapevo nulla e che non sapevo nemmeno esistesse una legge del genere (ma siamo proprio sicuri che l’abbia promossa Renzi?); che non ho partecipato ad alcun concorso pubblico per entrare all’Università di Palermo e che magari mi richiamassero in Italia per offrirmi un posto degno, ci penserei! (Anche se non lo so mica se accetterei: le annose questioni italiche che attanagliano gli italiani e chi vive in Italia ormai mi fanno venire i brividi).

Infine, tramite Facebook, vengo a sapere da un amico di Livorno che si dice in giro che io sia diventato Professore Associato in Spagna presso l’Università “Complutense” di Madrid e che guadagni un sacco di soldi e che disprezzo l’Italia e il mondo accademico italiano perché non hanno saputo valorizzarmi…

Anche stavolta chiedo, gentilmente, chi sia l’autore di una simile menzogna. L’amico mi fa il nome di uno che conobbi una volta (tantissimi anni fa) in un congresso svoltosi a Lecce. Uno di quei tipi viscidi che ti chiedono il numero di cellulare con un sorriso falso, che ti fanno domande inopportune sul tuo curriculum vitae, che ti propongono di collaborare con loro e che poi, all’improvviso, spariscono dall’orizzonte per farsi sentire solo via email con lo scopo di invitarti ad andare a visitarli presso la loro Università, come se si trattasse d’un evento mondano imperdibile (e se rifiuti o non rispondi entusiasta sei un “uomo morto”, uno che non merita tanta generosità)…

E insomma: proprio perché non vivo più nella mia nazione, in Italia, c’è chi si sente libero d’inventarsi “altri da me”, degli “io” diversissimi dal mio “io” attuale, delle versioni assurde e grottesche, presentandomi al prossimo come un neo-padre, dimentico dei suoi impegni accademici, o, al contrario, un raccomandato che ha vinto un concorso a Palermo o, infine, un affermato Prof. Associato in una delle più importanti e famose Università della capitale spagnola…

E la domanda a questo punto è: come possiamo pretendere di fermare simili voci da corridoio? Chi ci darà mai la forza per frenare simili gossip? Come poter rettificare le cazzate che spara la gente senza il nostro consenso e alle nostre spalle? La risposta è semplice: non c’è modo. Non ci sono proprio santi. Non si può. Il mondo gira (va avanti) anche grazie alle dicerie, ai pettegolezzi, allo sparlare della gente; il mondo è una palla che rotola in continuazione perché viene smossa in continuazione da gente che – per i più svariati motivi: invidia, gelosia, rabbia, rancore, noia, vuotezza interiore – si dedica a parlar male del prossimo, o a inventare versioni dei fatti che non hanno alcun riscontro con la realtà.

Ergo: mi devo abituare all’idea che nel mio paese d’origine, in Italia, ci sono persone che sono convintissime che io sia un neo-padre, che sia un raccomandato che lavora a Palermo o che faccia la bella vita grazie al mio incarico presso la “Complutense” di Madrid.


La versione “vera”, quella più vicino al reale, la sappiamo solo io, mia moglie e i pochi, cari amici di fiducia. Gli altri, che sparlino pure, e inventino, e ridano, e provino invidia, o noia, o vuotezza interiore, o rabbia, o rancore, o tutte queste cose insieme… Come disse il Poeta: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.

martes, septiembre 20, 2016

Nessuna passione spenta (o “dei fantasmi del passato”)




A F. (che mi cantava sotto la doccia)


Era da un po’ che ci sentivamo via Whatsapp (quanti segreti custodisce questa famosa applicazione? Quanta parte della nostra vita celiamo all’interno di questo spazio virtuale? Quante foto scottanti? Quante frasi che ci vergogneremmo anche a pronunciare ad alta voce? Quanti messaggi (vocali) sussurrati nel cuore della notte o, al contrario, gridati nel corso di una festa a base di alcol e droga? Quante coppie scoppierebbero per colpa di questo strumento trapiantato ormai in tutti i nostri cellulari?). Diciamo pure che era da quest’estate che, ogni tanto, ci si scambiava qualche saluto, qualche immagine dai posti di villeggiatura (ma dai? Sei davvero in Sardegna? Oppure: ma che ci fai a Marsiglia? O ancora: che bella Genova, ma quando scendi a Roma, disgraziato che non sei altro?). E ultimamente la mia nostalgia di lei mi aveva spinto a scriverle stronzate a ore intempestive (forse inopportune) con l’intenzione (innocente?) di rimembrare il passato (ma ti ricordi di quella volta che ci ubriacammo come pazzi col vino bianco buono e facemmo l’amore come animali e sudammo come porci e poi tu ti mettesti a cantare sotto la doccia? Che cantavi? Cos’era? La Callas o cosa? Sì, certo, la Callas, come no? Io sotto la doccia non la canto mai la Callas, ma sei scemo?! Sarà stata un’arietta da niente, un motivetto per passare il tempo, non canto cose difficili sotto la doccia, sono una professionista io, per chi mi hai presa?). E così, questa mattina, una collega che insegna Storia della Musica (una materia per me affascinante e alquanto misteriosa) mi dice che suona l’oboe, anzi, che si è diplomata al Conservatorio in oboe…

L’oboe: non so nemmeno che forma abbia uno strumento del genere, so che è uno di quelli a fiato, come il flauto traverso, ma non ho mai visto un oboe in diretta in vita mia (e se è per questo forse non ho mai visto nemmeno un flauto traverso, dal vivo). E così la collega si mette a ridere e mi chiede se conosco il film The Mission (di Roland Joffé, se non erro, con Robert De Niro, visto tanti anni fa, un ricordo vago, devo assolutamente tornare a vederlo). Le rispondo di sì, ma che, per l’appunto, la visione risale a molti anni addietro; lei mi consiglia di ascoltare la colonna sonora e, in particolare, “Gabriel’s Song”, uno dei motivi musicali più toccanti dell’intero film. E così, io le do retta, cerco subito su YouTube “Gabriel’s Song” (mentre mi domando chi mai sarà Gabriel, se il protagonista del film o uno che svolge solo un ruolo secondario, o l’Arcangelo Gabriele, considerando il fatto che The Mission, da quel che io ricordo, parla di missionari, di colonizzazione del Nuovo Mondo da parte degli spagnoli, o di una roba del genere, tipo Aguirre, furore di Dio, di Werner Herzog).

E mentre cerco, mi appare una lista, ma con la scritta “Gabriel’s Oboe”, sicché penso: la collega di Storia della Musica deve essersi sbagliata, qui il titolo della canzone mette l’accento proprio sul fatto che questo benedetto (forse in tutti i sensi) Gabriel (o Gabriele) suona proprio il suo strumento preferito, quello in cui lei si è diplomata, e così avvio il video, col tasto del “play”, ma non su uno qualsiasi dei link, no, do al tasto “play” sul video in cui appare il nome di Ennio Morricone e – seconda sorpresa, dopo quella relativa al vero titolo del pezzo – scopro che è proprio lui, sì, accidenti, è lui, il Maestro, l’autore della colonna sonora di The Mission, ma che bello! Sono già in fibrillazione, già pronto a saltare dalla sedia per andare a dire alla collega di Storia della Musica che certo che è un capolavoro quel film! Certo, non può essere altrimenti! La colonna sonora è frutto della bravura del genio, del nostro orgoglio nazionale, del “mago” della musica per il cinema, Ennio Morricone!

Poi mi metto all’ascolto attento: chi non ha mai visto il film o non ha mai ascoltato “Gabriel’s Oboe”, non può avere l’idea dell’emozione che scatena questo motivo musicale… Ci si sente immediatamente trasportati in un’altra dimensione, in un mondo “diverso”, dove si percepisce quasi il soffio del vento al tramonto in un paesaggio mozzafiato, dove si contempla la Natura come fosse il Paradiso, dove – se uno vuole – si può perfino volare… E insomma, mi lascio inebriare dalle note stupende di questo capolavoro di Morricone, quando, ad un tratto, al minuto 6:12, la telecamera fa un leggero travelling sui coristi, perché, a un certo punto, alla musica creata dagli strumenti (un’orchestra intera, con l’oboe, ovviamente, in primo piano), segue quella creata dalla voce umana, ci sono dei coristi che accompagnano il maestro, e – terza e ultima sorpresa, quella più scioccante di questa giornata – la vedo, riconosco la mia ex, è lei, non ho dubbi, o meglio, tentenno, ma poi, dopo il sudore freddo sulla fronte e il tremore lungo la spina dorsale, mi accerto che è proprio lei, quella che cantava sotto la doccia dopo aver fatto l’amore, l’unica ex bionda che ho (o abbia mai avuto), una ragazza speciale, una mezzo soprano all’altezza dei coristi che cantano per Morricone, non ci credo, voglio alzarmi, urlare di gioia, avvisare subito la mia collega di Storia della Musica, dirle: “Guarda, è lei, è una delle mie ex, è quella che canta nel coro!”, ma non sono sicuro che mi capirebbe, anzi, probabilmente, mi prenderebbe per un pazzo scatenato, uno fuori di testa che non sa quello che dice… E allora fermo l’immagine, la metto in pausa, immobilizzo temporaneamente il volto attento di lei, mentre accenna ad aprire la bocca per emettere la frase seguente, concentrata, bella, biondissima, con un vestito nero elegante, una sorta d’uniforme ufficiale del suo coro, che io conosco perché in un paio d’occasioni la seguii nei suoi concerti, tra Piazza del Popolo e Ariccia, tra Velletri e il Parco della Musica disegnato da Renzo Piano… Sono loro, riconosco anche le altre ragazze, gli altri colleghi, sono proprio loro (e non mi sovviene il nome del coro stesso), sono emozionato, ripremo il “play” e mi lascio di nuovo invadere dall’emozione fortissima legata alle note dell’oboe di Gabriel(e)…

I fantasmi del passato tornano a visitarci nei momenti più impensati; lei non sa che l’ho appena vista in un video del 2002 in cui canta per (e con) Morricone; non può saperlo né sospettarlo; io non so cosa stia facendo a quest’ora del pomeriggio, le 18:39 del 19 di Settembre del 2016 (starà facendo le prove per il prossimo concerto? L’amore con l’uomo della sua vita? Le melanzane alla parmigiana che le venivano così bene?). Il passato torna presente (ritorna dal passato per farsi presente) nei momenti più assurdi e impensabili; il caso gioca con le nostre vite come Dio ai dadi (giammai un colpo di dadi cancellerà l’azione del caso). Ma i cellulari di oggigiorno hanno tutti Whatsapp ed è davvero difficile resistere alla tentazione e così le scrivo (forzo, in un certo senso, la direzione del caso, lo obbligo a far entrare in scena anche lei, la mia ignara ex cantante mezzo soprano): “Scusami se ti disturbo, posso?”. E lei: “Che c’è? Che vuoi mo’?” (ci divertiamo a scriverci in romano, a volte). E io: “Solo una domanda: ma tu nel 2002 hai per caso cantato con e per il Maestro Ennio Morricone? All’Arena di Verona?”. E lei: “Certo, te l’avrò raccontato almeno mille volte, ma tu, come al solito…”. E io: “Non ci posso credere! Ti ho appena visto cantare all’Arena di Verona!”. E lei: “Tu sei tutto scemo”. E io: “Non ci posso credere, sono stato con una corista del coro di Morricone!”. E lei: “Sei proprio scemo, confermo”. E io: “Ma com’è possibile?”. E lei: “Sì, me lo chiedo anch’io. Com’ho fatto a sopportarti tanto?”. E io: “Mi sono emozionato… Eri molto bella anche nel 2002, molto giovane”. E lei: “Sei proprio stronzo”. E io: “Mi sono commosso fino quasi al pianto, fino alle lacrime”. E lei: “E’ quel quasi che non va bene”. E io: “Scusa, hai ragione, sto svariando, è che mi sono emozionato a vederti in azione in quel coro, con Ennio Morricone con la bacchetta che vi dirige all’Arena di Verona”. E lei: “Vedi? Ti sei perso una famosa”. E io: “Sono il solito smemorato…” (a sottolineare, a scusare, quasi, con i punti di sospensione, questo mio enorme vuoto di memoria attorno a quest’evento così importante per lei). E lei: “Faceva un freddo! Me lo ricordo ancora, come se fossi oggi”.

Dopodiché, ci si saluta con uno scambio di emoticon (che stanno lì a sostituire i nostri temporanei, spesso labilissimi, stati d’animo). E per un momento penso a come sarebbe stata la mia vita se, invece che la mia “compagna di avventure”, avessi sposato (o fossi rimasto a convivere con) la mia ex mezzo soprano. Mi domando come sarebbe stata la mia vita oggi (nel 2016), se fossi ancora accanto a lei (una delle donne più belle ed eleganti che conosca – aveva davvero buon gusto nello scegliere i vestiti; anche quando andavamo a fare la spesa, non dimenticava mai la collana o gli orecchini, i braccialetti o qualche altro dettaglio che ne mettesse in evidenza lo stile – la voglia di mostrare al mondo che lei di stile ne ha da vendere, un modo di camminare e di guardare che affascina, una maniera d’altri tempi che, però, non passa mai di moda, davvero difficile, per me, oggi, definire il suo stile).

E mi domando cosa starà facendo ora (mi verrebbe la tentazione di scrivere il suo nome reale, ora, ma non voglio, la rispetto, e non vorrei mai che si sentisse a disagio se un giorno finisse a leggere questo blog – se già non è tra le 3 o 4 lettrici che mi sopportano)… Mi domando cosa starà pensando, dopo la mia “incredibile” scoperta (incredibilmente in ritardo, direi, imperdonabilmente in ritardo, anzi). Fui io a lasciarla (una delle pochissime volte in vita mia in cui il ruolo del “cattivo” è spettato a me); fu lei a soffrire come una matta subito dopo la separazione. Poi passò diverso tempo prima che ci si riappacificasse (il tempo rende umani rapporti che, quando li si sta vivendo, possono portare alla follia più autodistruttiva). E un giorno ci si incontrò a Milano e ci aggiornammo sulle nostre rispettive vite (ma dai, davvero ti sei trasferito in Spagna? E tu davvero hai lasciato i Parioli? Come può una come te allontanarsi dai Parioli? E ora come fai senza Ponte Milvio e quella rosticceria che ti piaceva tanto, quella dove andavamo a mangiare i supplì più boni de Roma?). Milano e la sua nebbia e il freddo ci accompagnarono fino alla Stazione Centrale; poi lei salì sul suo treno per ridiscendere a Termini e io m’avviai verso Linate, per riprendere l’areo per Madrid.

Ho come la sensazione che lei sia ancora qui, con me. E non serve Whatsapp per averne una prova tangibile (o uditiva): ora c’è anche questo maledetto video del 2002; l’oboe di Gabriele, con l’orchestra e il coro diretti dal Maestro Morricone, in diretta dall’Arena di Verona… E lì dentro, in quello spazio-tempo di 14 anni fa…ci sei (sempre e per sempre) pure tu…


viernes, septiembre 16, 2016

39 anni (e vivere ancora nell’incertezza)




«Si mon âme pouvait prendre pied, je ne m’essaierais pas, je me résoudrais. Elle est toujours en apprentissage, et en épreuve», così si esprime Michel de Montaigne (l’inventore del genere letterario che va sotto il nome di “saggio”, una delle teste pensanti più assurdamente geniali che siano esistite sulla Terra) nel cap. 2 del Libro III dei suoi (appunto) Essais…ovvero, secondo la traduzione di Fausta Garavini (nella nuova edizione dell’opera per Bompiani, apparsa nel 2012):
«Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei; essa è sempre in tirocinio e in prova».

Ebbene, l’8 Settembre (5 giorni fa), ho compiuto 39 anni e, a quest’altezza del mio “cammin”, mi sento esattamente come l’anima di Montaigne: non ho “preso piede”, mi sento ancora del tutto “in tirocinio” o “in prova”, ho ancora molto da apprendere…molto da imparare e da affinare, chissà quante delusioni ancora da assorbire, chissà quante batoste o, più semplicemente, quante esperienze da digerire, interpretare, rendere parte del mio bagaglio vitale…

Non credevo che a quasi 40 anni ci si potesse sentire ancora così “incerti” e “instabili”; poi leggo il Mostro e mi tranquillizzo (quando lui scrisse queste parole di anni ne aveva 55, e aveva appena rimesso mano alla prima e alla seconda versione del suo libro in progress, ovvero, alla prima edizione, uscita nel 1580, quando aveva 47 anni; e alla seconda, pubblicata nel 1583, se non erro, quando di anni ne aveva 50; muore nel 1592, un 13 di Settembre (che è oggi, mentre scrivo queste riflessioni amare), a 59 anni, e uno si domanda: come aveva fatto ad apprendere tanto, un uomo che muore così relativamente giovane? Come?).

Qualche collega mi prende in giro e mi fa notare che di certezze ne ho molte: sono in salute; dimostro meno anni di quelli che effettivamente ho (qualcuno me ne dà 30, addirittura!); ho una compagna di avventure che mi ama; ho un lavoro; ho una casa (anche se non di mia proprietà, dai 18 anni, da quando mi trasferii per la prima volta a Roma, ho sempre vissuto in case in affitto, case d’altri, di passaggio); ho una passione per la lettura che ancora non mi ha abbandonato (e questo dà costanza e certezza agli alti e bassi della vita; i libri come rifugio in cui sostare quando ci si sente male o troppo smarriti o troppo giù di corda – altro che la psicanalisi, altro che le confessioni dal prete, altro che internet…attualmente mi sto immergendo anima e corpo nei casi clinici raccontati con una tenerezza e un tatto unici da Oliver Sacks in quel best-seller che va sotto il nome di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello…). Insomma, dovrei essere sicuro almeno di queste “certezze” e, invece, mi sento sempre davvero di passaggio; temporaneo; con la data di scadenza (lo dicevo al Direttore del Dipartimento di Lingue: “Siamo tutti a scadenza, purtroppo; il brutto è che – a differenza degli yogurt – non conosciamo la nostra data”; il Direttore, un tedesco che si trova a lavorare in Spagna dopo aver vissuto per 6 anni a Roma, mi sorride sornione e mi fa: “Ma vai a lavorare, vai, per favore!”).

39 anni, un brutto numero, come quasi tutti quelli che precedono i “numeri tondi”: a 29 anni ne vuoi avere subito 30; a 39 subito 40 (per non starci troppo a pensare al trauma di essere giunto a questo traguardo importante); a 49, immagino, uno desidera di compierne subito 50 (e vadano a quel paese i “numeri tondi” e i festeggiamenti di rito).

Ho pensato anche d’adottare questo semplice stratagemma: dire a tutti che di anni ne ho 40, così, quando arriverà l’8 Settembre del 2017, ci avrò già fatto il callo.


Certo è che se mi mettessi a rileggermi in questo “diario di bordo” sin dal giorno del primo post, mi scoprirei diverso: ci sono tanti “altri io” (o “altri me”) che gironzolano qui dentro, in questo spazio virtuale che (ne sono quasi certo) continuerà a sopravvivermi anche quando io sarò letteralmente morto. Non ho comunicato a nessuno la password per entrare nella mia email (come è logico ed anche ovvio); e di conseguenza, nessuno potrebbe entrare tramite la mia email nel dominio di questo blog e disattivarlo (spegnerlo per sempre, come fa David Bowman col cervello pensante di HAL9000 in 2001: Odissea nello spazio). Insomma, ha ragione Montaigne, siamo “in prova”, in un costante “tirocinio”, che terminerà solo con la morte; ed è anche vero che “il mio io di adesso e il mio di fra poco siamo certamente due” (cito non verbatim, stavolta, potrei sbagliarmi). Potrei rileggermi e vedere come sono cambiato in tutti questi anni… Vedere quanti difetti, quanti tic, son rimasti identici nel corso degli anni; potrei constatare quante volte mi sono messo a riflettere sugli stessi nodi (magari anche con lo stesso linguaggio, o con espressioni simili, che si ripetono davvero da un anno all’altro, senza che io me ne renda conto). Potrei auto-psicanalizzarmi, ma non ne ho voglia: ho 39 anni e il fisico comincia a risentirne, non ho più la stessa tonicità di una volta, mi stanco prima, ho meno fiato, se fumo una sigaretta, il giorno dopo ho la stessa identica voce di Andrea Camilleri. E allora la finisco qui; mi abituo all’idea di essere un “quarantenne”, o un “diversamente giovane”, come diceva Fiorello, o un “maturo incipiente”, come dice qualcun altro. C’est la vie, non ci si può far proprio nulla.

miércoles, septiembre 07, 2016


Kamera Obskura, ovvero, Laughter in the Dark, ovvero, l’arte di Vladimir Nabokov nel raccontare la cecità (e i danni collaterali di quella strana malattia degli occhi e della mente che va sotto il nome di “amore”).




Kamera Obskura, così s’intitolava nel 1935 il libro che poi in italiano è stato tradotto come Una risata nel buio; nel 1938 il Nostro ci ripensa e lo ribattezza Laughter in the Dark, come a voler sottolineare, oltre all’elemento “ottico”, anche quello “comico”, o meglio ancora, “tragicomico” della storia (intanto, cambia anche l’incipit e altri pezzi, per l’allegria – si fa per dire – dell’editore): il fatto, cioè, che la cecità che colpisce il protagonista fa scaturire una serie di scenette familiari comiche, ma anche spaventose, risibili, ma anche perturbanti, umoristiche, ma anche scioccanti…come se ci trovassimo al contempo dentro un film di Buster Keaton (l’uomo che non rideva mai) e uno di Alfred Hitchcok… E dunque veniamo al dunque, ovvero, alla trama di questo romanzo che, seppur non tra i migliori del Nostro, è certamente uno spasso, un grandissimo romanzo, un godibilissimo libro, una vera manna dal cielo per gli amanti della Letteratura (Nabokov mi avrebbe certamente mandato a quel paese per l’uso della maiuscola, ma tant’è – scusa, Vladimir, noi si fa i retorici, porta pazienza, comprendici).

La trama è quella tipica, classica, già vista mille volte in tv o al cinema che vede al centro dell’azione un uomo sposato, ricco, un borghese altolocato che – imprevisti della sorte, scherzi del destino – s’innamora improvvisamente (ma pure “improvvidamente”) di una ragazzina, una sedicenne che lavora in un cinema (la settima arte ha un’importanza fondamentale all’interno di tutta l’opera, e così pure il linguaggio cinematografico e gli elementi visivi, quelli che girano, appunto, attorno all’occhio, all’atto del vedere, all’ottica, alla “camera oscura” di cui sopra). La ragazzina viene da una famiglia povera e disagiata e - da quel che ci racconta il narratore esterno e onnisciente e in terza persona singolare (un narratore che sa veramente tutto di tutti, anche un po’ troppo pettegolo, un fine poeta, quando vuole, e un astutissimo stratega, quando vuole farci commuovere, o convincerci d’un ritratto o sorprenderci con una descrizione inaspettata) - ne ha già passate di tutti i colori. E proprio per questo, fiuta l’occasione giusta per rifarsi una vita: accetta di uscire con Albinus (così si chiama il nostro anti-eroe borghese) e di farsi “regalare” un appartamentino per i loro incontri amorosi. Solo che la moglie di lui, anche grazie all’intervento del fratello, scopre una lettera in cui Margot  (così si chiama la nostra eroina erotica) si fa beccare in tutto il suo splendore (e la sua falsa passione per il nuovo amante). A complicare le cose, ci si mette di mezzo anche Rex, un antico amore di Margot, uno specialista d’arte e di disegno pubblicitario che è l’incarnazione del cinico perfetto, e la morte di Irma, la piccola figlia di Albinus ed Elizabeth (questo il nome della legittima sposa). Ecco, il quadro è quasi completo: dobbiamo solo aggiungere che il tutto si svolge a Berlino, anche se poi, con l’arrivo dagli USA di Rex, l’azione si sposta via via verso la Francia, la Svizzera e poi l’Italia…

Insomma, Nabokov prende ispirazione da una tipica storiella di amore frustrato e passionale per costruire una trama con al centro il tipico triangolo erotico composto da LUI (Albinus) LEI (Margot) e L’ALTRO (Rex).

E però stiamo parlando della Letteratura con la “L” maiuscola, sicché, tutto è molto più complicato e affascinante di quanto sembri a prima vista; e con il termine “vista” tocchiamo il punto algido di questo meccanismo narrativo che va in crescendo, fino al climax finale; dopo aver finalmente capito che Rex gli sta attaccato alle calcagna per amore di Margot e perché, fondamentalmente, grazie a lei sta progettando di prosciugargli il conto in banca, Albinus si arrabbia, afferra una pistola e minaccia l’amante. Questa riesce a calmarlo, ma Albinus non sopporta le corna, non accetta nemmeno l’idea (l’ombra) di un tradimento da parte sua dopo quello che è successo con Elizabeth e così, dopo aver riposto l’arma, parte sgommando alla volta di San Remo (lasciando Rex da solo in un hotel). E’ proprio durante la fuga da Rex che un incidente automobilistico rende Albinus cieco e Margot può tranquillamente continuare a stargli vicino, con in più la compagnia “occulta” del socio in affari. Ecco, sono queste le scene più assurde, atroci, divertenti, grottesche, surreali di tutto il libro: le scene in cui Margot e Rex si fanno le linguacce, si baciano, si toccano, si carezzano, in presenza del povero cieco che sospetta, ma non sa con certezza chi è quell’ombra, quel fantasma, quell’alito che gli passa accanto…

Sono pagine che tengono il lettore attaccato al testo; sono pagine dense che fanno ovviamente pensare a Lolita e alla gelosia assurda che attanaglierà l’animo di Humbert Humbert in quello che è (davvero) il capolavoro di Nabokov (Margot è, effettivamente, una Lolita ante-litteram); sono pagine che creano una tensione altissima, una suspense degna (appunto) di un Alfred Hitchcock. Sono pagine, infine, che ci mostrano come per Nabokov l’amore sia davvero sinonimo di cecità (della mente), ovvero, di malattia che parte dagli occhi (l’innamorato non sa vedere la realtà o il corpo esterni che ha di fronte con obiettività e razionalità) e che poi si propaga al cervello (Albinus fa discorsi assurdi e non si rende conto – se non molto tempo dopo – del doppio gioco dell’amante).

Era tutto già scritto nell’incipit:

“C’era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un’amante giovane; l’amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi” (p. 9 dell’ed. Adelphi del 2016).

Come se si trattasse di una favoletta, Nabokov, sin da queste prime righe, è pronto per trasportarci nel suo mondo; un mondo in cui si posso leggere chicche come questa:

“Si sedette davanti allo specchio (gli specchi avevano un sacco da fare quel giorno) […] (id., p. 50)

O come questa:

“Irma osservò i peli bianchi che spuntavano dal grande e complicato orecchio del dottore e la vena a forma di W sulla tempia rosea” (id., p. 124).

O come questa:

“Quel futuro gli apparve come uno di quei lunghi, polverosi, scuri corridoi in cui si può trovare una cassetta inchiodata al muro o una carrozzina per bambini vuota” (id., p. 139).


Letteratura con la “L” maiuscola (scusaci di nuovo, Vladimir), scrittura dotata di uno stile inimitabile, ritmo per l’udito di chi sa riconoscere questo stile che cattura sin dalle prime righe. Nabokov allo stato puro, insomma. Leggete Una risata nel buio. Non ci dormirete la notte.

miércoles, agosto 24, 2016

21 Agosto del 2016




Dunque, vediamo: è da più di un mese che non metto piede in questo “spazio virtuale”, in questo “diario” di bordo di uno che vive ai bordi… Care 3 o 4 lettrici affezionate, vi starete di sicuro chiedendo che fine abbia fatto, perché sia scomparso, perché non mi sia messo a scrivere recensioni di libri letti da poco, di film visti o di classici rivisti, perché non abbia più riflettuto sulla mia vita, sulla Vita e sulla Morte, in generale, su Dio e sul perché si invecchia… La risposta è presto detta (o meglio, scritta): perché ho trascorso un mese e passa a viaggiare in auto (una Volkswagen Golf con 14 anni di vita e 162 mila chilometri di strade percorse a tutto gas) per mezza Europa, tra Spagna, Francia e Italia...

Barcelona, Valencia, Madrid, Perpignan, Montpellier, Marseille, Aix-en-Provence, Nîmes, Bézier, Toulon, Cannes, Monaco, San Remo, Genova, Livorno, Pisa, Arezzo, Roma, Perugia, Orvieto, Terni, i nomi delle città in cui ho messo piede per la prima volta o in cui sono tornato dopo tanti anni (Pisa, ah! Il Lungarno pisano, quel Lungarno che anche Leopardi preferiva a quello di Firenze! La Piazza dei Miracoli, la Piazza dei Cavalieri, Borgo Stretto, la Piazza delle Vettovaglie, ah, quanti ricordi, miodio, legati a Pisa!) mi si accavallano nella memoria ed è difficile tenere il conto…

Mi risulta impossibile poter narrare anche solo una minima parte di questo viaggio lungo e appassionante; impossibile anche solo citare tutti i personaggi conosciuti lungo il cammino insieme alla mia “compagna di avventure”; impossibile ricordare tutte le esperienze che so già che mi lasceranno una traccia indelebile nell’animo; impossibile, anche se, come sosteneva Julio Cortázar, la scrittura migliore, quella più vera, è proprio quella che pretende di raccontare tutto, quella che ha l’ambizione di narrare il tutto, anche se sa già che ciò è una “missione impossibile”…

Vi basti sapere che mi trovo in una casa di montagna a circa 1200 metri di altitudine; in una regione spagnola del Sud ricolma di oliveti (qui fanno l’olio più buono del mondo, a detta di molti); in un paesino di circa 500 anime (d’inverno; perché d’estate si ripopola, grazie a quelli che tornano da Barcelona o da Madrid o da Sevilla per rivedere i familiari).

La casa è eredità della nonna della mia “compagna di avventure” ed è costruita su un promontorio isolato; dalla terrazza vediamo la croce della cima della montagna più vicina; dalla finestrella del bagno si vede il bosco (ogni tanto vedo lupi e cervi che saltano da una roccia all’altra o che si nascondono dietro un tronco).

La casa è enorme, ci potrebbero dormire almeno 14 persone, ho contato (per ora) almeno 4 o 5 camere da letto; ci sono 2 bagni; 2 cucine enormi; una terrazza (già citata) da cui si può godere una vista spettacolare sulla Natura che ci circonda. Insomma, un vero Paradiso e invece… siamo tutti e due impauriti all’idea di dover trascorrere la nostra prima notte dopo il viaggio ulissiaco in questa casa. In una delle camere abbiamo trovato una fotografia in bianco e nero degli anni 30. La mia “compagna di avventure” mi indica vari parenti morti e sepolti e, tra questi, una ragazzina di circa 12 o 14 anni che le assomiglia in un modo davvero inquietante. Lascio la fotografia sul comò, mi allontano da quello sguardo sperso di una giovane morta chissà da quanto tempo e chissà per quale malattia rara, quando mi reco in bagno inizio a credere di sentire un rumore strano, costante, e anche piuttosto fastidioso.
Tremo e chiamo la mia “compagna di avventure”: le chiedo di salire sopra e di ascoltare anche lei il rumorino di fondo. Viene da una seconda ed enorme terrazza di cui ignoravo l’esistenza. Il rumore cessa, poi riprende, come di qualcuno che sta scavando o graffiando la tapparella. Ora siamo entrambi a tremare, la paura ci paralizza entrambi, bisogna agire, faccio l’uomo (si fa per dire) e con una scopa in mano (ridicolo redivivo Don Quijote) mi avvicino alla finestra della terrazza e sollevo la tapparella di colpo: un gatto nero scatta all’indietro e poi ci fissa con atteggiamento di sfida, come se l’avessimo disturbato con la nostra paura, e la mia stupida e ridicola scopa in mano.
“Era solo un gatto”, fa la mia “compagna di avventure”.
“Sì, ma è nero e gli manca un occhio, non lo vedi?”, le rispondo, facendole notare il dettaglio anatomico perturbante di quest’animale che vorrebbe entrare da noi proprio quando noi vorremmo uscire da qui.
Chi riuscirà a dormire in queste condizioni? Come conciliare il sonno?
La mia consorte si lava i denti in bagno con la porta aperta perché ha paura del gatto orbo; io lascio la scopa in cucina; speriamo di riuscire a far l’amore e di non avere gli incubi. Maledette foto del passato, che congelano (per l’eternità) i volti dei morti di tanti e tanti anni fa…

E’ il 21 Agosto del 2016 e l’orologio segna la mezzanotte e 43 minuti…

P.S.: è il 24 Agosto del 2016, oggi; sono passati solo 3 giorni dal "post" che avevo intenzione di pubblicare il giorno stesso in cui lo scrissi e che poi, per vari imprevisti, non sono riuscito a far apparire su questo blog; solo 3 giorni, e in così breve arco di tempo, un terremoto ha messo a tappeto un paese (Amatrice) e sconvolta mezza Italia centrale (a pochi chilometri, in linea d'aria, dall'ameno paesino sui monti abruzzesi in cui ho visto la luce). Il pensiero va alle vittime; a chi aiuta e scava tra ciò che resta delle case; a chi è sopravvissuto e porta la paura nel cuore.

lunes, julio 18, 2016


Faces (1968) di John Cassavetes



Ieri (prima di prendere atto delle atrocità di Nizza – una città dove avevamo intenzione di fare tappa questo Agosto nel nostro viaggio interstellare tra la Spagna e l’Italia, passando per la Francia), io e la mia compagna di avventure abbiamo visto uno dei film più spettacolari e belli della Storia del Cinema: mi riferisco a Faces (1968) del grande regista americano John Cassavetes.

Faces è un film che ti cattura fin dalle prime inquadrature: la camera a mano traballa e resta attaccata ai volti (appunto, “faces”) degli attori in un modo tale che a te – spettatore – sembra di stare vivendo la vita dei personaggi del film stesso; ti sembra proprio di sperimentare tutta l’agitazione, l’allegria e la follia che vivono questi ultimi sullo schermo; ti pare di poter sentire il loro alito, di poter auscultarne la respirazione, di poter diventare vittima di qualche loro sputo, lanciato in aria in un momento di particolare fibrillazione. E la mente corre subito al manifesto DOGMA 95 di Lars von Trier e Thomas Vinterberg, i due danesi che, appunto, sul finire degli anni 90 hanno cercato di “rivoluzionare” il cinema d’autore facendo un passo indietro, neutralizzando l’uso (e, a volte, l’abuso) degli effetti speciali per tornare un po’ alle origini, a un “neorealismo” che diventa “iperrealismo”.




John Cassavetes fa esattamente la stessa cosa, ma prima di von Trier e Vinterberg; inspirandosi (a quanto leggo al volo su internet) al Cesare Zavattini del cinema-verità o “cinema documentaristico”, trasforma la macchina da presa in un testimone oculare che si muove a distanza ravvicinatissima dagli attori. Da qui quello strano effetto di sentirsi come all’interno dell’inquadratura, e anche di percepirsi come all’interno di una guerra, quella che il film stesso va sviluppando stando alle spalle o sulla faccia in primo piano degli attori…

La trama di Faces è semplice: un uomo e una donna sulla cinquantina in crisi sentimentale dopo 17 anni di matrimonio; lui decide di rifarsi una vita con una prostituta di cui s’innamora (la bellissima Gena Rowlands, moglie di Cassavetes nella vita reale e sua musa ispiratrice fino alla propria morte), lei finisce con l’andare a letto con un gigoló dopo una nottata di sbronze euforiche con un paio di amiche. Ciò che rende questa trama “semplice” un’opera d’arte è il modo in cui viene raccontata: la tecnica diventa consustanziale agli obiettivi estetici del regista. I primi piani costanti, continui ed iperrealisti ci portano sul campo di battaglia in cui si combatte a suon di dialoghi assurdi una guerra senza fine e senza pietà. Le inquadrature non sono mai banali, anzi, sembra come se Cassavetes si impegnasse a sorprendere sempre lo spettatore (come in quella sena in cui lui, il marito fedifrago, si è appena riappacificato con un cliente della sua prostituta favorita, e lei, Gena Rowlands, appare in mezzo ai due uomini, il viso inquadrato in modo geometrico tra le geometrie perfette delle giacche dei due rivali in amore e nel sesso; e così in molte altre scene, come quella finale, in cui marito e moglie, come sopravvissuti, tirano le somme della loro lotta seduti sulle scale che portano in camera da letto a distanza di pochi gradini l’uno dall’altra).





Insomma, e per farla breve, Faces colpisce perché non dà tregua, non è mai scontato, anche quando i personaggi sembrano parlare del nulla, anzi, direi “soprattutto” quando sembra che non stia accadendo nulla e che si parli solo di sciocchezuole. Eppure…tutta la “macchina narrativa” viene innescata per un tradimento e la richiesta di divorzio di lui contro sua moglie (si lamenta del fatto che non fanno più sesso; per questo il cinquantenne dai capelli bianchi decide di godere dei servizi della prostituta che poi diventa amante). 

Un dramma quotidiano, un dramma qualunque (che comunque dovrebbe farci riflettere: perché gli uomini, all’interno di un matrimonio, sono così portati al tradimento? Perché hanno apparentemente più velleità belliche delle donne? Perché hanno sempre voglia e loro no?) che Cassavetes trasforma in una specie di documentario sulla vita e la società americana degli anni 60. Un documentario crudo, dove allo spettatore non viene nascosto nulla, dove, anzi, allo spettatore è affidato il compito di “presenziare” il dramma fin nei più piccoli particolari (le espressioni del volto dell’attore in campo; le parole che lascia scorrere senza fine; le risate o le lacrime che erompono in un modo così naturale e diretto che uno si chiede quanta bravura debbano aver mostrato tutti in questa messa in scena così spettacolare - penso, in particolare, all'attrice che impersona la "moglie" tradita e adultera; Lynn Carlin si chiama, da Oscar nella scena in cui rischia di morire dopo aver ingurgitato un barattolo intero di barbiturici...). Un film da vedere e rivedere. Un film da gustare in ogni sua inquadratura.

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