miércoles, agosto 25, 2010

Madrid (V): ipotesi per una nuova versione del Gran Hermano (that's to say: "The Big Brother", ovvero: "Il grande fratello")...

Se (e dico: se) qualcuno decidesse di rivoluzionare la forma ormai stantia e collaudata del Grande Fratello e ipotizzasse (e dico: ipotizzasse) di poter rifarne una nuova edizione con concorrenti provenienti da tutti i paesi del mondo e se dentro la casa si cercasse di stimolare l'interscambio non solo linguistico, ma anche culturale tra i rappresentanti delle varie nazioni, ebbene (e dico: ebbene), io parteciperei e proverei a vedere cosa succede quando si è costretti (tutti insieme) a cercare di farsi capire nella propria lingua, a cercare di comunicare nella lingua degli altri, a trovare ponti, modi o strumenti linguistici e non per poter inviarsi messaggi dotati di senso.

Allora (e solo allora), ci sarebbe davvero da divertirsi e capiremmo quanto siamo piccoli noi (e la nostra nazione) nell'universo, quanto tutto sia relativo e quanti punti di vista esistono su uno stesso concetto o idea che noi diamo per scontata e ormai assimilata.

Grazie a questa esperienza salmantina, e grazie al lavoro che da sempre ho cercato di fare, sono riuscito a parlare nella stessa cena e con persone diverse: spagnolo, inglese, francese e, ovviamente, anche italiano. Allo stesso tempo, ho potuto apprezzare alcuni aggettivi in turco, altre espressioni colloquiali in tedesco, molte frasi in ceco o polacco...

E allora sì, un programma-spazzatura come quello che conosciamo assumerebbe all'improvviso un nuovo valore, una validità culturale inaudita, una funzione formativa che troppo spesso si snobba perfino dentro le università.

E' la comunicazione il centro, il fulcro della questione. Più ci rinchiudiamo dentro la nostra lingua, dentro i nostri confini personali, dentro la nostra nazione di nascita (o patria) e più aumentano la solitudine, la paura dell'altro, l'ignoranza...

E' dalla mescolanza delle culture e delle lingue che è nato l'uomo moderno (e il Rinascimento e l'Illuminismo) ed è da questa mescolanza che bisognerebbe ripartire....

sábado, agosto 21, 2010

Madrid (IV), c'est à dire: Salamanca la blanca




15 Agosto 2010, ore 23,46.

Non trovo le parole per esprimere l'emozione provata nel guardare da lontano (dal pullman in movimento verso la residenza studentesca) la famosa Catedral de Salamanca... Questa città mi piace a pelle, la stessa residenza è una struttura funzionale straordinaria, c'è di tutto: biblioteca, mensa, lavanderia, sala per le proiezioni, il prestito di libri, riviste, cd e dvd, un responsabile del posto a ogni piano (i piani sono 3, se consideriamo anche il sottoscala), un cortile interno pieno di verde, prati all'inglese, una specie di piscina mini di decorazione, tantissime panchine che invitano alla chiacchiera e al riposo, a fumarsi una sigaretta insieme sotto il cielo stellato (a quest'ora la luna è alta, divisa a metà, e ben visibile anche da questa stanza), le stanze sono comode, il letto pure, la scrivania enorme (invitante e accogliente, la scrivania giusta per scrivere e studiare), la gente del posto, beh, ancora non conosco nessuno, ma salendo le scale ho carpito vari accenti, ci sono professori di tutto il mondo, italiani, cechi, russi, giapponesi, ispanoamericani, è davvero bello e non trovo proprio più le parole... Domani inizia il corso; domani vedremo di conoscere meglio sia Salamanca che gli altri.


21 Agosto 2010, ore 2,27

E' incredibile come i problemi che sentiamo più "nostri" e più "radicati" nel nostro paese non siano affatto tali. Grazie a questo corso internazionale ho avuto modo di scambiare opinioni e di chiacchierare di politica e di economia, di letteratura e di cultura, con gente proveniente da: Svezia, Ungheria, Bulgaria, Polonia, Germania, Austria, Corsica, Francia, Inghilterra, Irlanda, Tunisia, Repubblica Ceca, Russia e ovviamente Spagna e da tutti ho ricevuto la stessa identica impressione: come dicono qui "comemos todos la misma mierda" (che tradotto vuol dire: "mangiamo tutti la stessa merda", che si sia italiani o cechi, spagnoli o tedeschi, irlandesi o tunisini). La globalizzazione è stata davvero un fenomeno inarrestabile e attuato a livello mondiale; i risultati in parte catastrofici e in parte positivi sono sotto gli occhi di chi sa guardare senza i paraocchi. E' davvero curioso vedere come anche negli altri paesi il lavoro del docente venga sminuito, ostacolato o snobbato da molti; vedere come gli studenti fanno tutti gli stessi errori e manifestano tutti gli stessi tic mentali (la Playstation rincoglionisce tutti senza distinzione di razza; la moda è uguale in ogni angolo del mondo anche se si tenta di distinguersi); constatare come in ogni paese la crisi c'è, esiste e non si sa come risolverla (anche se c'è chi, come Berlusconi, pensa che vada tutto bene, che l'Italia va avanti e ce la farà). C'è anche chi è appassionato di letteratura: e allora sì, la panchina che si trova all'ingresso della residenza diventa il posto ideale in cui parlare e parlare per ore di libri e di autori preferiti (ho appena iniziato un classico di Torcuato Luca de Tena, Los renglones torcidos de Dios: mi piace, ma non è che abbia poi tutto questo tempo per leggere qui, come dicevo "supra"...è il contatto umano che prevale anche sulla lettura... e qual è l'italiano più letto in Francia? Chi vende in Romania? Conoscete Saviano? Che ne pensate di Umberto Eco? Chi sono gli autori irlandesi più quotati del momento? Che letteratura insegnate voi in Polonia ai ragazzi del primo anno?)...

miércoles, agosto 18, 2010

Il problema non è come, ma cosa

Non sappiamo mai cosa vogliamo veramente; siamo eterni indecisi, tutti quanti, anche quelli che dicono di non avere dubbi, di avere le idee chiare, di credere in un determinato credo religioso, in una certa ideologia, in un preciso stile di vita. La vita ci offre mille opportunità e noi non sappiamo mai cosa scegliere, quale via intraprendere, perché non conosciamo se quella cosa scelta (quella strada intrapresa) ci porteranno davvero a vivere come noi desideriamo vivere.

Il problema non è come (uno può fare per ottenere una cosa o raggiungere uno scopo o una meta), ma cosa (quale cosa, quale scopo, quale meta raggiungere). Ci sono troppe cose che vorremmo avere, agguantare, afferrare per sempre e considerarle come parte di noi stessi e non ci rendiamo conto che, lasciandoci influenzare da tutte queste cose, alla fine ci perdiamo e non ricordiamo neppure bene come volevamo vivere.

Troppo; troppe cose da interpretare, da scegliere, da fare proprie; l'uomo è innaturalmente avvinghiato a una sorta d'idea di possesso (di controllo del mondo) che lo conduce all'autodistruzione.

Dovremmo imparare ad accontentarci (una volta scoperto come vogliamo stare qui sulla terra). E dovremmo imparare ad apprezzare di più ogni cosa (ogni persona, ogni momento, ogni luogo) che abbiamo sotto gli occhi e a portata di mano in quel preciso istante (o momento).

Non il come, ma il cosa è quello che ci condiziona la vita (nel bene e nel male); ma quando uno sa veramente cosa vuole, allora, automaticamente, sa come deve vivere la sua vita (e attraverso quali parametri farla sviluppare).

Non so, forse ho bevuto troppo stasera, forse ho chiacchierato con troppe persone, l'aver parlato spagnolo, inglese, francese e italiano insieme mi ha un po' fatto venire il mal di testa (o la nausea); meglio andare a dormire (tra 3 ore mi devo alzare)...


martes, agosto 17, 2010

Madrid (III): dalla stazione di Méndez Álvaro

Madrid, stazione di Méndez Álvaro, ore 17:46 del giorno di Ferragosto (qui: della Virgen de la Paloma) del 2010.

Mi sembra davvero strano, eppure anche gli spagnoli (come noi) fanno scioperi all'improvviso e nelle date più strategiche: a quest'ora avrei dovuto essere arrivato già a Salamanca, e invece, per colpa dello sciopero, mi tocca aspettare fino alle 19,30 di stasera (e arrivare, di conseguenza, alle 22,30).

La stazione degli autobus (o Estación Sur) è molto moderna, piena di locali dove puoi mangiare e passare il tempo, c'è di tutto: dal negozietto che vende souvenir trash all'internet-point, dall'edicola al tabaccaio, dal fruttivendolo al “ bar de copas”. Qual è, allora, la grande differenza con l'Italia (con una qualsiasi altra grande stazione italiana)? Che qui c'è l'aria condizionata ovunque...Anche se fuori c'è solleone, e faranno come minimo 35 gradi, qui dentro si sta al ghiaccio, l'aria condizionata funziona come mai mi è capitato prima di vedere in Italia. Sono piccoli dettagli, d'accordo, però è facile convenire sul fatto che sono i dettagli a fare la differenza (Dio si nasconde nei dettagli, diceva Flaubert, se non erro).

Vado a Salamanca per seguire un corso di perfezionamento per docenti stranieri di spagnolo; non so ancora di quali altre nazionalità saranno i miei colleghi; so per certo che il concorso per la borsa di studio messo a disposizione dal “Ministerio de Asuntos Exteriores” spagnolo l'hanno vinto altri 17 colleghi italiani. Spero siano persone interessanti (e non i classici prof che conosco io) e che siano ben disposti a divertirsi, oltre che a lavorare. Staremo a vedere.

Intanto, rifletto: non si può lasciare una persona per telefono; non ci si può lasciare dopo tanto tempo per sms o per email (come ho sentito dire da qualcun altro). Certe frasi, certe idee, certi concetti vanno spiegati a viva voce e faccia a faccia, non ci sono scuse né sotterfugi né altri mezzi. Io quella persona devo guardarla in faccia quando le ripeterò ciò che penso di lei, assumendomi tutta la responsabilità delle mie parole. Non si può dire: “va bene, ti lascio”, per telefono, a distanza di molte centinaia di chilometri. Non si può dire: “ok, facciamo come dici tu, per ora non ci sentiremo più, poi si vedrà”, quando è implicito il fatto che noi (due) continueremo a pensarci (in coppia) anche quando non ci sentiremo più (per telefono)...E' tutto un gran casino, certe volte, che anche dirsi: “ti amo” (o il suo contrario: “ti odio”) diventa un'impresa impossibile. I telefoni non sempre uniscono; è questo quello che intendevo dire e che ho capito sulla mia pelle...

sábado, agosto 14, 2010

Juan Benet e il matrimonio (da Puerta de tierra, Barcelona, Seix Barral, 1970, pp. 74-75)

"In fatto di matrimonio - e sempre che si tratti di vincolo morale tra persone - accadono cose simili; per questo mi azzardo a generalizzare; quando tra i due coniugi uno di essi ricorre alla vigilanza sull'altro per sorvegliare il vincolo, male. Male per entrambi; questo spionaggio è la conseguenza della sfiducia e di un timore che la sorveglianza non farà altro che esacerbare fino al momento in cui la fibra più intima del vincolo si rompe. Un matrimonio si può mantenere se uno dei coniugi - o entrambi - accetta un certo grado d'infedeltà dell'altro e con la coscienza che una simile deviazione, rispetto al canone imposto dal vincolo, non comporti gravi lesioni alla sua fibra più intima. Esattamente all'opposto, se per un errore d'ottica - o di educazione, o per il peso di una massa di pregiudizi - quel coniuge si ritrae verso l'intolleranza e, ritenendo che un leggero tentennamento presupponga una lesione grave all'indole della sua unione, si decide a favore di una tattica di agguato, vigilanza e disciplina, il matrimonio allora è spacciato. Potrà perfino mantenere in vigore la scorza esterna e visibile del suo statuto, ma la fibra più intima del vincolo, quella decisione di ieri che li spinse ad unirsi e che giorno dopo giorno è necessario ratificare, sarà morta. Quella decisione si fondò, prima di ogni altra cosa, su una fiducia reciproca che, in ultima istanza, è l'unica cosa che bisognerebbe salvaguardare per conservare la vigenza del matrimonio; quando sfuma, esiste il divorzio, di fatto o di diritto. Mi hanno detto che esistono casi di divorzio anche quando non si rompe la fiducia tra i coniugi; ne riparleremo"

[from un capitolo che s'intitolerebbe - in italiano - "Epistola morale a Laura"]
From Madrid (II): la città che non dorme mai


Dopo due giorni a Barcelona, sono tornato a Madrid, la capitale. Si nota, anche dal semplice modo di vestire della maggior parte delle persone che incontri per strada (sono – come dire – meno freak o meno alternative degli abitanti della “ciudad condal”). Sono solo, in casa di Ambra, il porto sicuro nel mare in tempesta della Corte (y Villa), e solo ora mi rendo conto di non conoscere affatto il numero che bisogna comporre per chiamare la polizia (o un'autoambulanza per le urgenze). Sono solo, e scrivo da una stanza molto ampia, tra le più luminose della casa, anche perché attraversata da ampie finestre che danno sulla strada principale (Calle Cardenal Cisneros). Non fa freddo, il termometro segnala 26 gradi, ma soffia una specie di brezza che fa stare bene, si potrebbe passeggiare ore intorno all'isolato (o lungo Calle Fuencarral, per arrivare in centro) senza sudare né sentire la stanchezza dei giorni dell'afa.

Se mi affaccio riesco a vedere l'interno di alcuni appartamenti antistanti il mio palazzo: si vede un ragazzo spaparanzato su un puf mentre guarda la tv (la luce azzurognola gli cambia i tratti del volto a ogni cambio di scena); e dall'altro lato, più su e più a destra, si vede un uomo di mezza età, dai capelli brizzolati, e mezzo nudo, che guarda qualcosa davanti a un computer (esattamente come sono io adesso, seduto a una scrivania vecchio stile – mentre la sedia è di quelle di plastica che si usano per andare in campeggio, arancione acceso, molto comoda, direi).

Il vento solleva una tenda dai tratti tribali (elefanti, unicorni e uccelli dalle ali spiegate si alternano in questo ordine su uno sfondo avana e marrone chiaro) e mi accarezza la pelle, una sensazione piacevole, a quest'ora di notte.

E' mezzanotte passata e solo ora mi rendo conto del fatto che chiunque potrebbe citofonare al “mio” campanello (uso il possessivo di prima persona in modo del tutto arbitrario e temporaneo: è ovvio che non è il “mio” campanello ed è altrettanto ovvio che è “mio ora” perché se qualcuno citofonasse davvero io dovrei, come minimo, alzarmi, e andare a rispondere per vedere chi è). Spero non citofoni nessuno, perché solo ora mi rendo davvero conto di essere solo e, inoltre, il solo diretto interessato padrone di questa casa (la mia ennesima casa madrilena, dal 2001 – da quando, cioè, ho cominciato a vivere per periodi piuttosto lunghi in questa città). Spero davvero non suoni nessuno perché, per prima cosa, mi dovrei ricordare del fatto che qui, e in spagnolo, quando qualcuno chiama non si dice: “chi è?”, bensì “sì?”; si usa l'affermativo con tono interrogativo, e non il semplice “chi è? (ovvero: “¿quién es?”) d'italica origine. Non vorrei che qualcuno citofonasse a quest'ora anche perché, dopo aver chiesto “sì?”, non saprei come reagire e se fare salire o meno, se rifiutare immediatamente o mandare a quel paese l'eventuale ospite o malintenzionato (quando cambiamo paese, cambiano anche le abitudini e i modi di dire e di fare; non in tutti i paesi esiste lo stesso grado di maleducazione, i modi per offendere qualcuno con tono colloquiale e uso di parolacce sono infiniti ed è difficile impadronirsene e dominarli tutti). E così, mentre aspetto con ansia che qualcuno venga a citofonare proprio al mio campanello temporaneo (che Dio non voglia, mi verrebbe un infarto), mi viene da pensare a che cosa è lecito e che cosa è illecito fare in casa di un altro, in casa di un'amica che mi ha accolto come un fratello e mi ha sempre trattato con i guanti. Non è vero che la curiosità è donna, è anche maschile, e a me, per esempio, e ora, verrebbe davvero voglia di vedere cosa c'è dentro la camera da letto di Ambra, la mia amica, ma non so, appunto, se è lecito fare una cosa del genere, immischiarsi dei fatti degli altri, aprire cassetti e armadi, vedere e e curiosare nella vita degli altri, quando questi altri ci hanno affidato la loro casa come fosse la nostra (noi guardiani temporanei della casa di un altro – che situazione paradossale, e assurda, per certi versi, e complicata – non ricordo dove né quando, ma mi pare che Raymond Carver deve averci scritto anche un racconto su una situazione simile: una coppia di giovani fidanzati vengono “assoldati” da una coppia di vicini che cedono loro la loro casa per il periodo delle vacanze – e la prima cosa che fa il ragazzo, curioso, è di aprire gli sportelli della cucina e il frigorifero, così, giusto per vedere cosa ci sia là dentro). La curiosità è anche maschile, ma mi trattengo, e penso a come potrebbe sentirsi Ambra, la mia carissima amica, se mi vedesse curiosare tra i suoi cd e indumenti intimi, tra le sue giacche e i suoi diari (magari segreti), tra le sue cose, insomma, e uno si rende conto subito di quanto i nostri diari (segreti), i nostri indumenti intimi, le nostre giacche e i cd (i nostri dvd, anche) siano indifesi e alla assoluta mercé di coloro che li osservano o potrebbero osservarli con l'occhio curioso del ficcanaso, quanto siamo deboli e inermi tutti quanti, anche in rapporto alle nostre cose, quelle che riempiono le nostre case (d'altronde, basta un terremoto per distruggerle tutte, basta una scossa, un incendio, un'alluvione, o anche un semplice furto di notte per rendere le nostre cose roba vulnerabile, oggetti che si possono perdere in un secondo). E allora decido che non è proprio il caso di “violare” la privacy di un'amica; che non è giusto né morale entrare in quella camera, che è meglio distogliere l'attenzione e rimettersi a guardare cosa fanno i vicini di casa (di questa ennesima casa temporanea) e che è bene fare gli scongiuri affinché nessuno venga fin quaggiù per citofonare proprio sotto casa mia (sotto la casa di cui oggi - ora -sono il temporaneo padrone e custode).

Vado a controllare anche il gas, per vedere che sia spento, non vorrei ci fossero delle fughe. E spengo per bene la televisione; mi ha spiegato Ambra che il decoder per il digitale terrestre è un po' difettoso e che se lo lascio in stand-by potrebbe addirittura bruciarsi (come è già successo a lei una volta). E rifaccio il giro delle stanze per vedere che non ci siano intrusi e che le serrande siano ben chiuse (tranne queste due della stanza da cui sto scrivendo, queste qui devono essere aperte, mi piace pensare che anche gli altri vicini stiano spiando questo straniero, questo italiano venuto da Firenze per prendere possesso – temporaneo – di questa bella casa di Calle Cardenal Cisneros). Mi piace pensare che, anche se staranno ore intere là a guardarmi scrivere, nessuno di loro si sognerà mai di venire fin quaggiù, per citofonare al mio campanello e farmi prendere uno spavento.

Intanto, il vento continua a far oscillare la tenda con gli elefanti e gli uccelli e gli unicorni. E' quasi l'una, domani devo provare a lavorare e devo riuscire a non alzarmi troppo tardi (anche se è difficile andare a letto presto quando si vive a Madrid; Madrid è una città che vive di notte e invita tutti – anche i meno abituati – a tirar tardi fino alle ore piccole)...

viernes, agosto 06, 2010

From Madrid (I)

Mi piace tornare nei posti in cui ho vissuto, rivedere le stesse strade già percorse in passato, richiacchierare con le stesse persone amiche che ci hanno aiutato nella ricerca di una stanza in un appartamento condiviso con altri studenti, riassaporare gli stessi piatti nello stesso ristorante del centro.... Madrid, ormai, fa parte dei miei cromosomi; del DNA per sempre modificato dalla vita trascorsa nelle sue vene (voglio dire: strade), dalle abitudini e dai ritmi appresi stando a contatto con gli altri "indigeni", dal loro modo di divertirsi, di vestirsi, di rapportarsi, di vedere la vita...

Mi piace mostrare ad un altro dove sono stato felice, in quali angoli ho baciato quella ragazza, in quali bar ho conosciuto quell'amico, in quali altri ho vomitato l'anima.

Madrid cambia, nel tempo, restando sempre se stessa: è vero che c'è la crisi anche qui (e in forme ben più drammatiche che in Italia), ma i bar e le "terrazas" son sempre piene di gente che si diverte o prova a divertirsi. Sulla metro e sugli autobus, l'aria condizionata funziona è sempre al massimo, e le persone ridono, chiacchierando ad altissima voce. Insomma, vedo vitalità e voglia di vivere e di andare avanti nonostante tutto, quando in Italia vedo stress e angoscia e una tristezza (o rassegnazione) generalizzata che colpisce tutti, giovani o giovanissimi compresi.

Non mi va di tentare di sviscerare i motivi reali che stanno dietro a una così diversa concezione della vita (o a un così diverso modo di rapportarsi ai problemi che impone l'attualità). Sta di fatto che io qui a Madrid mi sento meglio che a casa, più libero, più giovane, più ben disposto verso gli altri e me stesso. Qui ho voglia di studiare, di conoscere, di scoprire, di tirar tardi la sera, di andare al cinema e a teatro, cosa che non mi succede a Firenze o a Pisa o a Roma (anche se Roma rappresenta l'eccezione). Qui ho voglia di dare il meglio; in Italia sento di tirare a campare in mezzo a mille difficoltà e a una montagna d'ostacoli sia morali che materiali...

lunes, agosto 02, 2010

I compiti del traduttore (I): le note a piè di pagina
Firenze, Lunedì, 2 Agosto 2010, ore 0:43.
Mentre sul canale digitale Iris danno Dune (1984), l'unico film di David Lynch che non ho ancora visto (e m'accorgo con sorpresa che c'è anche qui l'attore-feticcio del regista, quel Kyle MacLachlan che farà l'agente Cooper in Twin Peaks – ma non ci posso credere! In una scena appare anche un'altra attrice a me nota, è Silvana Mangano, la stessa di Teorema o di Edipo Re di Pasolini! La stessa di Morte a Venezia di Luchino Visconti... ha i capelli rasati, la faccia bianco latte, ma è proprio lei, la Mangano!), rifletto su quanto sia difficile andare avanti con questa traduzione di questo maledetto romanzo o pseudo-tale che devo portare a termine entro Dicembre del 2010... A ogni piè sospinto, uno legge e trova: Re Mida, Ercole, Nabucodonosor e si accorge che all'epoca (stiamo parlando del 1644) tutti questi nomi erano noti al pubblico lettore dell'epoca, o almeno, si suppone, al lettore colto della Spagna della prima metà del XVII sec. All'epoca, il lettore medio (o medio-colto) riconosceva al volo (forse istantaneamente) i riferimenti alla Bibbia, a determinati passaggi, personaggi o luoghi citati nelle Sacre Scritture, conosceva a memoria i classici greci e latini, conosceva il latino (e magari il greco) e sapeva bene chi era Atlante, conosceva a memoria i vari miti resi famosi (e narrati) da Ovidio... Oggi non è più così; non è tanto che si sia abbassato il livello di cultura del lettore medio (anche se...su questo potremmo dilungarci e dibattere parecchio); è che semplicemente (inevitabilmente) noi facciamo parte di (e ci nutriamo di) un altro tipo di cultura, che ha altri ipotesti di riferimento; altre auctoritates cui rifarsi, ed eventualmente ispirarsi. E allora? Qual è il compito del traduttore in casi come questi? Cosa faccio quando l'autore, per dire che un ladro è davvero una canaglia, lo chiama Caco? E' ovvio che una traduzione deve cercare di essere fedele allo spirito dell'originale; ma è pure ovvio che se io, in quanto traduttore, lascio la parola Caco e non permetto al lettore odierno di sbrogliare la matassa e di capire sino in fondo la metafora (o la similitudine), è ovvio, ripeto, che verrei meno sia allo spirito del testo che al mio dovere di tradurre e rendere chiaro al lettore ogni parola che appare nel testo di partenza. E' qui che s'inseriscono le famose note a piè di pagina; fondamentali, credo, in casi come questo. Caco (che, alle orecchie di un romano, potrebbe suonare anche come la prima persona singolare del verbo noto...) era un personaggio mitico caratterizzato nell'antichità per essere un temibile autore di frodi e di furti geniali (si dice sia riuscito a rubare anche delle pecore a Ercole - o forse erano buoi?)... E allora, vai con la nota!
Il pericolo? Infarcire la traduzione di un apparato fin troppo lungo (o corposo) di note; le note interrompono la lettura, e seppure servono a chiarire i punti più oscuri o contorti del testo, potrebbero disturbare anche troppo il lettore medio che volesse limitarsi a seguire la trama, il racconto, il plot, come dicono gli americani... E allora, vai, con le note, ma con moderazione, senza esagerare... Fare traduzioni è un po' come fare l'equilibrista, camminare sul filo del rasoio di due lingue (quella di partenza e quella d'arrivo) che, spesso, sono molto distanti tra loro; il traduttore è il ponte, è colui che cerca (a volte disperatamente) di mettere in contatto tra loro due musiche, o meglio, due strumenti musicali, che emettono suoni fin troppo diversi o dissonanti tra loro. Ponte, o via di mezzo, maestro d'orchestra o terzo incomodo tra due poli contrapposti che deve fare i conti anche col destinatario, ovvero: con il lettore (che, magari, non sa nulla della lingua di partenza, né conosce Ercole, né sa chi sia Caco, né ha mai sentito parlare di Atteone...). Un'impresa difficile. Anche se stimolante. E' il primo d'Agosto del 2010, vediamo se riuscirò a cavarne la pelle (altro modo di dire che sarebbe letteralmente impossibile rendere in spagnolo, se lo traducessimo alla lettera o se lo parafrasassimo con altri giri di parole, “trarsi d'impaccio”, o “arrivare sano e salvo alla meta” o “farcela”, la lingua è un insieme mobile di modi di dire – che lo scrittore più scaltro e originale tenta di scardinare per fare dire alla lingua quanto questa non ha mai detto prima). Vediamo se ce la faccio.

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...