miércoles, diciembre 12, 2018

La fragilità dei corpi



Siamo deboli e mortali, questo lo si sa; basta poco a ferirci, a trapassare il sottile velo della pelle che riveste i muscoli e i tendini, le ossa e le cartilagini. La spina di una rosa, un ago che cade per terra, uno spillo, perfino un foglio di carta (se lo si sfiora dal verso sbagliato) sono sufficienti a fiaccarci la pelle e a permettere la fuoriuscita anche di quantità ingenti di sangue.

Siamo deboli, mortali e preda di malattie. Basta andare all'ospedale e vedere lo spettacolo che ci si presenta davanti (e non mi riferisco soltanto alla sala d'attesa, dove l'ansia si respira e si taglia col coltello, ma anche alla sala chirurgica). Indossare la vestaglia azzurra (o verde) al contrario (per cui schiena e natiche restano allo scoperto e al freddo) è già di per sé un'azione che ci mette a nudo e che mette a nudo la nostra impotenza e fragilità, che ci fa sentire ridicoli e inermi. Indossare, inoltre, la cuffietta (fatta di un sottilissimo strato di carta, quasi trasparente) ne è la riprova (e allora sì che ci si sente totalmente spiazzati: dottore, faccia di me e del mio corpo ciò che vuole, faccia come vuole, ma mi salvi).

Siamo deboli, mortali, prede di malattie e sempre bisognosi dell'aiuto degli altri. Perché senza gli altri siamo persi, perfino quando l'altro è un perfetto sconosciuto, come quest'infermiera che mi chiede di togliermi tutto ciò che di metallico indosso (le monete sono dentro la tasca dei pantaloni; la cintura di cuoio con la fibbia di ferro giace a terra accanto alle scape; il cellulare è dentro la tasca del giaccone; cos'altro potrei mai indossare di materiale metallico? La fede...mi fa, con tono sommesso, quasi vergognandosi...la fedina...è vero!, esclamo a voce fin troppo alta, trattandosi di una sala chirurgica, e mi sfilo il simbolo d'amore eterno per riporlo su un piano di ferro impoluto su cui sono predisposti gli attrezzi del mestiere, mestoli e pentole, garze e bisturi, ferri di ogni forma dall'uso a me ignoto).

Senza gli altri siamo ancora più deboli e inermi e impotenti, ed è per questo che mi fa tenerezza l'anziana signora che mugola di dolore accudita dalla figlia: "Che c'è mamma? Che vuoi? Hai freddo?". E la figlia si avvicina al volto della madre e le carezza la fronte con una tenerezza e un tatto, una dolcezza e una malinconia, una saggezza ancestrale che mi fanno venire voglia di piangere. Questo è amore. Non ci sono dubbi. E la donna malata continua a lamentarsi e la figlia continua a cullarla con le sue parole di rassicurazione: "Dopo andiamo a farci un altro giro in macchina, ti va?", le chiede e lei allora si calma e fa di sì, dice "sì" e le sorride, e il volto della figlia s'illumina - per un istante - della gioia che esprime istantaneo il volto della madre.

viernes, noviembre 30, 2018

Liverpool from the port


Uno dei porti più importanti di tutta la Gran Bretagna, Liverpool ti accoglie come una città a misura d'uomo e cosmopolita. A detta di una collega che lavora qui, a Liverpool la maggioranza ha votato NO al "Brexit"; ed è anche normale, se pensiamo che qui ci vivono centinaia di migranti, soprattutto cinesi, rumeni, polacchi, italiani e spagnoli.

Liverpool è una città accogliente anche perché basta fare una passeggiata in centro ed essere sommersi dalla musica. E non parlo di quella colonna sonora costante e, a tratti, che urta i nervi e l'udito, che emettono i negozi e i grandi centri commerciali, no, mi riferisco soprattutto alla musica 'live', quella che suonano gruppi di giovani che, sognando il successo, imitano i Beatles che da qui sono partiti alla conquista del mondo e della Storia della Musica.

Da Victoria Street, dopo aver attraversato il quartiere "chic" della città, arriviamo al nº 10 di Matthew Street e sprofondiamo quattro piani al di sotto del livello stradale per scoprire The Cavern, il 'club' dove, appunto, nel lontano 1957, tutto cominciò ("and the Beat goes on", come recita una targa che commemora le gesta dei quattro col caschetto e i baffetti).

John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison li trovi ovunque, a Liverpool, a ogni angolo e in ogni spazio pubblico, i loro volti sono riprodotti e messi in circolazione sotto forma di poster, statue, gadgtes e souvenirs. Come fa Don Chisciotte nella Castilla La Mancha più profonda. Sono "icone" che hanno lasciato un'impronta indelebile sulla città.

Liverpool è accogliente anche per l'immensa e ristrutturata secondo i canoni postmodernisti "City Central Library": un vero Paradiso per chi ama i libri e la lettura, un palazzo immenso pieno di vetrate e di scale mobili, di strutture in metallo e parquet che ti fa sentire in un film di fantascienza.

"Explore"; "Imagine"; "Search": le insegne gigantesche dei vari piani e delle varie sezioni t'invitano davvero a "esplorare", "immaginare" e "cercare" attraverso la montagna di libri e riviste e cd e dvd accumulati e custoditi qui dentro. Non è un caso se Liverpool è stata la capitale europea della cultura nel 2008

Il pomeriggio sul tardi (ovvero, qui, attorno alle 17:30) si va a guardare il tramonto in uno dei luoghi emblematici della città: il porto. 

Si percepisce ancora nell'aria il caos, il rumore poliglotta, le grida in varie lingue dei milioni di marinai che vi hanno lavorato e dei milioni di passeggeri, migranti e naviganti che lo hanno attraversato nel corso della Storia.

Albert Dock è uno dei moli più interessanti e ripuliti in nome delle mode del tempo: c'è la "Tate", come a Londra, per vedere le mostre temporanee; c'è una piccola biblioteca-museo dedicata, ovviamente, ai Beatles; e ci sono un sacco di statue che commemorano le gesta di capitani e soldati che, da Liverpool, sono salpati per andare a combattere le due guerre mondiali e che, in nome della pace e della libertà, in nome del loro Paese, sono morti in battaglia (molti per mare). Ancora oggi c'è qualche passante che deposita un mazzo di fiori o una ghirlanda in memoria di questi personaggi ignoti che, comunque, hanno scritto la Storia dell'Inghilterra e, in particolare, di Liverpool.

Sono atterrato Lunedì; dovrò ripartire Domenica; ma sono certo che a Liverpool potrei passarci perfettamente un paio di mesi...

lunes, noviembre 26, 2018

Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle: quando la scrittura sovverte, rompe e illumina l'inquadratura


Ieri ho visto per la prima volta un film di Louis Malle (un regista che rincorsi da adolescente per il suo Zazie nel metrò, tratto da Raymond Queneau; continuo a rincorrerlo...prima o poi lo raggiungerò, voglio proprio vedere come ha fatto a portare sul grande schermo il romanzo sperimentale dell'autore degli 'Esercizi di stile'). 

Si tratta di un film triste, oserei dire quasi "esistenzialista", perché parla di temi molto vicini alle ossessioni letterarie e filosofiche di autori come Céline, o Sartre, o Albert Camus (che pochi anni prima avevano trattato o toccato in ambito letterario gli stessi drammi che qui tratta o tocca in ambito cinematografico il regista francese).

Il film parla di Alain Leroy, un uomo sulla quarantina che, a dispetto del cognome, si sente un perdente nato, un fallito senza salvezza. Dopo la cura dall'alcolismo portata avanti a suon di "sanatorio", in una clinica di Versailles, decide di prendere in mano le redini della sua vita e di ...uccidersi. Prima, però, decide di rimettersi in contatto con i pochi, sparuti amici che ha ancora a Parigi. L'amico con cui ha fatto carriera militare ai tempi della guerra contro l'Algeria; l'amica che si dedica alla pittura e convive con un poeta "maledetto" imborghesito; l'amico ricco, ricchissimo, che vive con Solange, una sua antica fiamma, una donna bellissima che gli ricorda che non tutto è perduto (Alain ha avuto varie amanti, anche se sostiene di non saper fare bene l'amore e per questo, alla fine, sia Dorothy (sua moglie) che Lydia (l'amante) decidono di lasciarlo).

Ci sono almeno due o tre scene che rendono intrigante la visione del film; ma quella su cui vorrei soffermarmi è quella in cui Alain si mette a scrivere una sorta di diario, una serie infinita di fogli scritti a matita su cui scartabella, fa degli schizzi, disegna e cancella con ritmo da forsennato.

Ecco, questa scena ricorda immediatamente quella in cui Jack Nicholson in Shining perde completamente il controllo e, per mancanza d'immaginazione, si mette a riempire fogli su fogli di frasi senza senso ("Il mattino ha l'oro in bocca"...). E la prima riflessione che viene spontanea di fronte a scene simili è che il mestiere della scrittura è - esattamente come il "mestiere di vivere", per citare un grande - molto difficile; tanto difficile che, appunto, se manca l'ispirazione si può rischiare d'impazzire.

La seconda riflessione riguarda lo spettatore: basta che il regista decida d'inquadrare la scrittura (un pezzo di carta, una lettera, anche un frammento tratto da un giornale o, appunto, da un diario) che subito l'apparizione delle lettere su carta stampata e scrivibile rompe l'inquadratura, la sfonda verso ambiti ignoti allo spettatore che, da quel momento in poi, si chiederà cosa diavolo ci sarà scritto sul diario di Alain Leroy, potenziale suicida che poi, alla fine, ed in effetti, si uccide sul serio.

Quando un regista inquadra un personaggio nell'atto di scrivere, quando un regista addirittura si spinge a inquadrare quasi in primo piano una pagina scritta, ecco che la scrittura destabilizza l'inquadratura e porta lo spettatore a "vedere" cose che non può "leggere" (perché non c'è tempo; perché non conviene; perché aleggia nell'aria un'aura di mistero).

Ecco, dunque, che la scrittura al cinema (quando è citata, o solo evocata di sbieco, quando appare in primo piano, o sullo sfondo e in modo sfuocato), ecco, dicevo che la scrittura al cinema sovverte, scuote o adirittura rompe l'inquadratura verso mondi di significato che possiamo ricostruire solo con la nostra propria immaginazione; ecco come la scrittura al cinema, infine, illumina dall'interno la stessa inquadratura perché spinge lo spettatore a prestare ancora maggiore attenzione (a quello che vede; a quello che sembra sia scritto sulla pagina e riesce a leggere; a quello che pensa il personaggio se - come Alain Leroy - si abbandona al flusso di coscienza e monologa spesso e volentieri con se stesso, con il suo "io" più intimo e turbato).

Alla fine, nessuno di noi saprà mai (né potrà mai scoprire) cosa diavolo scrivesse nel suo diario il protagonista; quello che è certo è che nemmeno la scrittura del diario lo salva dall'ultimo, estremo gesto di auto-distruzione. E lo sparo ancora riscuona nelle nostre orecchie di spettatori attenti e curiosi e, a volte, impertinenti...

lunes, noviembre 12, 2018

2001: A Space Odissey: 50 anni e non li dimostra


Ieri, Domenica, 11 di Novembre del 2018, sono andato al cinema a vedere 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick e - come immaginavo - è stata un'esperienza incredibile, dall'impatto emotivo fortissimo.

Era la quarta (o forse quinta) volta che vedevo il film, ma è inutile dire che contemplare la danza delle navicelle spaziali sul grande schermo è tutta un'altra storia. Idem per le musiche: ascoltare Il bel Danubio blu di Johann Strauss in dolby surround è un'altra musica, in effetti...

E uno che ha visto il film in passato, che già conosce la storia, che sa a memoria alcune scene, ebbene, questo qualcuno resta comunque a bocca aperta dinanzi alle nuove scoperte che può fare ri-guardando e ri-contemplando il film...

Ne ho parlato anche in passato in questo blog, 2001 ti cambia il modo di guardare il cinema e di guardare la realtà fisica in cui ti trovi e questo solo pochissimi film riescono a farlo. E quando ti abbandoni a una nuova, ulteriore visione e tale visione avviene all'interno di una sala cinematografica, ecco che 2001 ti svela "pezzi" di sè che non avevi mai notato prima, come il "selfie" ante-litteram che si fanno gli astronauti mentre una navicella sta portando il Dr. Floyd sulla Luna (e la macchina fotografica che usano all'uopo si assomiglia molto a quelle che sarebbero state fabbricate di lì a poco per scopi scientifici); o come il silenzio siderale assoluto che - proprio in contrasto con la musica che fa parte della colonna sonora - risuona ancora di più nella mente dello spettatore (come nella scena in cui Bowman ha appena riacciuffato il collega Poole, ma Hal 9000 si nega ad aprire il portellone della base spaziale in cui la fa da padrone e obbliga Bowman ad una manovra azzardata al fine di poter riprendere il comando della situazione; c'è un silenzio che atterra nello spazio, un silenzio immenso ed assurdo che fa venire letteralmente i brividi, al di là dei rumori dell'armamentario informatico e tecnologico di cui l'uomo si è dotato per arrivare fino alla Luna, a Giove ed oltre...); o come la voce assurdamente ironica di Hal 9000 che, nel doppiaggio italiano, non genera lo stesso effetto quasi comico: Hal 9000 parla come un gentleman, come un aristocratico, come un nobiluomo che quando si mette in testa di fare le bizze non c'è verso di frenarlo né di farlo ragionare...(e la cantilena che emette quando Bowman lo disattiva è una cantilena dell'orrore, sembra davvero che il computer abbia vita autonoma e indipendente dall'essere umano, sembra quasi morire davvero in diretta davanti ai nostri occhi umani).

Per non parlare della video-chiamata del Dr. Floyd a sua figlia (che, nella realtà, è la figlia di Kubrick), una telefonata via webcam che anticipa di diversi decenni l'invenzione di Skype; per non parlare delle due "tablet" che consultano Bowman e Poole quando hanno finito di fare ginnastica e si mettono a guardare il servizio della BBC che parla del loro viaggio e della loro missione intergalattica (Steve Jobs doveva ancora inventarla la Apple; e così pure l'IPad, ma quei due rettangoli da cui i due astronauti guardano il tg è davvero quello che noi oggi chiamiamo un IPad, anche questo ante-litteram).

E poi c'è il finale psichedelico, una delle scene più sconvolgenti di tutta la storia del cinema: quando Bowman (l'arciere, come Ulisse, che quando torna ad Itaca dovrà affrontare, tra le altre, la prova dell'arco) si addentra in un fantasmagorico vortice di colori e forme e finisce "oltre l'Infinito", ovvero, all'interno di una stanza perfettamente illuminata e dallo stile settecentesco in cui s'imbatte in un "se stesso" invecchiato che, a sua volta, s'imbatte in un suo "doppio" sul punto di morire che, a sua volta, e allungando la mano verso il famoso (e misterioso) monolite nero si trasforma in un feto o neonato che galleggia rilassato e quasi sorridente all'interno di una sfera luminosa o utero materno che, a sua volta, si libra nello spazio siderale osservando a distanza la sfera terrestre...

Come spiegare un finale del genere? Come superare quei minuti infiniti di caduta verso l'ignoto (coloratissimo) e poi di apparente morte all'interno di quella stanza rococò? Perché il bambino sembra sorridere? Verso chi è rivolto il suo sorriso?

2001: A Space Odissey ci fa viaggiare nei meandri più segreti e occulti e inspiegabili dell'animo umano e ci fa intuire quanto Infinito c'è non solo là fuori, nell'Universo, ma anche dentro di noi, in quel magma amorfo e ingovernabile che è l'anima umana.

martes, octubre 30, 2018

Quando qui piove


Non piove quasi mai qui; quando qui piove è un evento, le persone si affacciano alla finestra spaventate; gli automobilisti non sanno più come si guida; i pedoni saltellano sulle pozzanghere con la speranza di non sporcarsi.

Quando qui piove mi vengono in mente le lunghe giornate d'inverno del mio paesino arroccato sui monti abruzzesi; l'odore del legno che arde nei camini; il profumo della carne cotta arrosto sulla brace; gli arrosticini e le salsicce; le patate al forno della mamma...

Si paralizza tutto, quando qui piove; e se qui piovesse come sta piovendo ora in gran parte dell'Italia, semplicemente, la città andrebbe in tilt (come dicono i giornalisti dei vari tg nostrani) e i cittadini andrebbero in crisi e si rinchiuderebbero per sempre dentro le proprie case, convinti che sia solo l'inizio dell'Apocalisse così come la narra Giovanni.

E quando piove mi viene in mente John Cheever, che ha scritto un racconto che s'intitola "Il rumore della pioggia a Roma" e che io - assurdamente - non ho ancora letto (ma so che esiste, anche se non appare nella raccolta dei Racconti che ho comprato alla vigilia di Natale del 2014; scorro di nuovo l'indice e no, niente, non appare "Il rumore della pioggia a Roma", anche se sì, c'è un racconto che evoca (o ri-evoca) Roma e s'intitola (in inglese) "Boy in Rome" e comincia così: "Roma. Piove mentre scrivo. Abitiamo un palazzo con il soffitto d'oro, il glicine è in fiore. Il rumore della pioggia a Roma impercettibile"...e allora è ovvio, è normale, è logico che uno si domandi se questo racconto abbia qualcosa a che vedere con l'altro, se siano lo stesso racconto o se siano due storie diverse, ed è anche normale - forse - andare a cercarlo su internet e accorgersi che sì, che c'è proprio un libro che s'intitola Il rumore della pioggia a Roma, e lo pubblicarono i tipi di Fandango nel 2004 (79 pp.), raccogliendovi - evidentamente - tre racconti che Cheever ambienta a Roma, dove visse per un periodo della sua vita; leggo perfino i commenti degli utenti di IBS a questo libro ed una utente che si autonomina "L'aggiornalista" lascia questo commento che mi lascia di stucco e mi commuove e mi fa tenerezza, perché mi ci riconosco a pieno, un riflesso di ciò che penso anch'io di Roma: 

"Qual è la città alla quale apparteniamo? Quella dove nasciamo? Quella in cui viviamo da giovani? Io penso che la città cui apparteniamo sia quella che ci ruba il cuore. E a rubarmi il cuore, tanti e tanti anni fa, è stata Roma. Nel corso del tempo ci sono tornata tante volte. Di passaggio, in vacanza o per starci un bel po' ". 

Come non essere d'accordo con "L'aggiornalista", come?!).

E poi, quando qui piove, mi vengono in mente tutte le persone che ho lasciato in Italia, la nostalgia che ho provato (e sono solito provare) a ridosso del Natale e delle altre feste comandate; la malinconia per certi luoghi in cui sono stato felice; il giorno in cui, proprio dall'Italia, e proprio dopo aver letto alcuni racconti di Cheever, mi riproposi di scrivere una lettera ad Adelaide Cioni, la traduttrice meravigliosa dei diari, oltre che di alcuni dei racconti e dei romanzi di Cheever, perché mi trovavo totalmente d'accordo con il suo punto di vista, con la sua personale interpretazione della scrittura e della letteratura di John Cheever (ma poi desistetti, perché non trovavo l'email, né riuscivo a distinguere se l'Adelaide Cioni che cercavo fosse la traduttrice dall'americano per Einaudi e Feltrinelli o l'artista - pittrice e scultrice - che esponeva in Umbria e in altre città straniere e non immaginavo che potessero essere la stessa persona...); eccola, la frase che sottolineai nella post-fazione de I Racconti di Jon Cheever (Milano, Feltrinelli, 2014, p. 826): 

"Perché noi siamo incoerenti: cambiamo idee e simpatie, tradiamo, ci rinnamoriamo. Non siamo monolitici nel nostro sentire e agire. Se lo fossimo il mondo sarebbe immobile. Il problema è dirlo, ammetterlo, e dopo averlo ammesso raccontarcelo. E raccontarcelo in modo da farlo apparire verosimile".

Adelaide, se ci sei, batti un colpo, per favore...

E poi, quando qui piove, penso anche al futuro (non di solo passato è fatto l'uomo): agli articoli da finire o da adattare alle norme editoriali (ogni rivista ha delle norme sue tutte speciali, ditelo che lo fate apposta, ditelo che lo fate per scoraggiare chi vuole pubblicare, ditelo che sarebbe tutto molto più facile se tutte adottaste le stesse norme), ai progetti da portare a termine (e dopo Budapest, sarà la volta di Liverpool), alle proposte che ci fanno gli amici (e allora a te toccherà presentare I mostri di Dino Risi in uno dei cinema storici di questa città, il punto di ritrovo dei cinefili di questa città), ai lavori da portare a termine, ma non se ne ha la voglia, e a quelli che uno sa che li coltiva proprio perché sa che non li finirà mai (come quell'assurda idea di scrivere un romanzo alla John Cheever...).

domingo, octubre 21, 2018

Pasolini e Il Vangelo secondo Matteo: ovvero, come spiegare Pasolini agli altri


È difficile spiegare agli amici (e colleghi) spagnoli l'importanza della figura di Pier Paolo Pasolini. Lo è per molti motivi; lo è, ad esempio, perché oltre ad essere stato un poeta, un romanziere, un giornalista, un attore e un regista cinematografico, è stato, forse ancora prima di tutte queste cose, un intellettuale. E tra quelli che - incredibile a dirsi - non hanno mai avuto paura di dire la "loro" verità e, dicendola, di anticipare i tempi (Pasolini pre-annuncia e pre-vede quello che diventerà l'Italia di lì a poco, dopo la temperie critica degli scontri diretti degli anni 60 e 70 - e quanto scalpore fece quando, durante gli alterchi di Valle Giulia a Roma, invece di schierarsi dalla parte degli studenti in rivolta, si schierò dalla parte dei poliziotti...).

È difficile anche spiegare perché uno degli scrittori e degli intellettuali italiani più intelligenti e acuti che l'Italia abbia mai avuto, sia stato così tanto osteggiato, criticato, deriso, emarginato sia da destra che da sinistra (la sua omosessualità dichiarata dovette dare fastidio al Partito Comunista Italiano; il suo cattolicesimo primitivo, idem).

È difficile anche spiegare come sia stato possibile che, colui che nel 1963 girò La ricotta (l'episodio più controverso e riuscito del film Ro.Go.Pa.G.) e venne accusato di "vilependio alla religione cattolica" (4 mesi di carcere, doveva essere la pena, ma poi venne assolto), l'anno dopo, nel 1964, gira Il Vangelo secondo Matteo e vince, tra gli altri, il premio a miglior film dell'anno da parte di non ricordo più quale associazione cattolica - ma anche il Vaticano dovette rallegrarsene: il film, di fatto, è dedicato "Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII"...quel papa di allora che, arrivando ad Assisi, obbligò Pasolini a pernottare presso un convento di frati e lì, sul comodino, di notte, scoprì il Vangelo e lo lesse d'un fiato...).

E a proposito di questo film, è impossibile non notare quanto si mantenga fedele al testo (alla Bibbia) un intellettuale che si è sempre dichiarato "marxista" e che, nel nome di Marx, cercava di smontare dall'interno il sistema capitalista... Ne Il Vangelo secondo Matteo Pasolini non ci risparmia nemmeno una delle tante frasi che pronuncia Cristo; è iper-fedele, potremmo dire, o ultra-fedele alle scritture e, di fatto, se avesse tolto qualche parabola, qualche detto memorabile di Gesù, forse il film ne avrebbe anche guadagnato in quanto a ritmo, e ciononostante resta uno dei suoi film più belli, appassionanti e appassionati, poetici ed emotivi (Susanna Colussi, sua madre, nella parte di Maria da anziana, prostrata ai piedi del figlio ormai morto sul Golgota, mentre urla "figlio mio, figlio mio!" senza sonoro, ecco, questa scena, per dire, resterà per sempre nella storia del cinema di tutti i tempi).

È diffile anche spiegare come mai, un poeta-scrittore-intellettuale di sinistra, dopo aver vinto tanti premi per un film così rispettoso della fede cattolica, decida di girare Salò o le 120 giornate di Sodoma, che conclude l'anno in cui viene assassinato, il 1975, quando aveva soli 53 anni (Accattone lo girò quando ne aveva 39, e non avrebbe più smesso, avrebbe girato i suoi film a un ritmo vertiginoso, quasi uno all'anno, se pensiamo alla famosa "trilogia della vita", come se avesse deciso di lasciare da parte, per un po', la letteratura, e di dedicarsi anima e corpo alla settima arte, come se col cinema riuscisse a esprimere meglio ciò che aveva da dirci). 

Come coniugare Il Vangelo secondo Matteo con la libera trasposizione sul grande schermo delle opere del Marchese de Sade? Come spiegare che dietro la cinepresa c'è lo stesso regista che canta il "mistero" della fede cristiana e che, al contempo, descrive senza freni inibitori la violenza assurda dei gerarchi fasciscti che, nella "inventata" Repubblica di Salò di mussoliniana memoria, decidono di rapire 100 ragazzi (e ragazze) da usare a loro piacimento con l'unico scopo di realizzare sul piano della realtà le perversioni che il Divin Marchese immaginò sulla carta stampata? Diciamola tutta: Salò è forse uno dei pochi film "inguardabili" di tutta la storia del cinema; bisogna avere lo stomaco di ferro per non vomitare e arrivare fino in fondo...

È difficile spiegare anche la morte di Pasolini: di fatto, ancora oggi, nonostante le inchieste, nonostante i vari film d'inchiesta su quella morte, nonostante Pelosi e le sue testimonianze (incerte o manipolate, ancora non lo sappiamo), ecco, nonostante tutto, la morte del poeta resta un mistero, perché non si sa ancora chi, come e perché lo uccise, e se dietro a tutta questa morte c'è un mandante (quel film, quel suo ultimo film, venne sequestrato e censurato per anni; Petrolio fu pubblicato solo dopo 16 anni da quella morte assurda; e ancora non sappiamo, ancora annaspiamo, ancora andiamo alla ricerca dei colpevoli...).

Pasolini era fortemente attratto dalla figura di Cristo forse perché - come ricorda Alberto Moravia in qualche intervista, se non ricordo male e la memoria non m'inganna - si vedeva rispecchiato in lui, si vedeva come Cristo, deriso, perseguitato, offeso, umiliato da tanti, forse da troppi che non la pensavano come lui. 

E forse, negli ultimi anni della sua vita, Pasolini era fortemente attratto da de Sade perché c'era, nel suo carattere, un che di sadico o, ancor meglio, di sadomasochistico, quando diceva le sue "verità" senza censure sapendo benissimo che, proprio perché non si censurava, si sarebbe attirato velocemente l'improperio, l'offesa, il desiderio di vendetta di chi lo considerava un personaggio scomodo, un comunista che parlava troppo, un omosessuale che pervertiva la gioventù, uno scrittore che scriveva di cose che era meglio tenere nascoste o che era meglio non portare all'attenzione dell'opinione pubblica.

Su YouTube è possibile ascoltare e vedere molte interviste a Pasolini: ce n'è una in cui Enzo Biagi (dio mio, Enzo Biagi!) gli fa una serie di domande sulla televisione e sul linguaggio che gli italiani imparano (stavano imparando) dalla televisione e Pasolini si mostra sempre scontroso, sembra un animale in gabbia, e fa tenerezza e, al contempo, ispira rammarico o un certo dispiacere vederlo così, perennemente sulla difensiva, pronto a contraccare, sempre arrabbiato con il Mondo, sempre pronto a lottare...

In quella che internet presenta come "l'ultima intervista", il giornalista che lo intervista gli domanda come si sente quando si trova a camminare tra la gente e Pasolini risponde che si sente bene, anche se ci sono persone che lo evitano, che cambiano marciapiede, se lo riconoscono, e ce ne sono altre, anche, che gli sputerebbero volentieri in faccia, se potessero.

È difficile spiegare chi e cosa rappresenta Pier Paolo Pasolini per l'Italia e per noi italiani. E allora mi viene in mente quella scena bellissima all'interno di Caro Diario (1993) in cui Nanni Moretti si ricorda della data dell'anniversario dell'assassinio e va in vespa fino a Ostia, fino all'Idroscalo, il luogo del delitto. E non dice nulla. Osserva la brutta scultura che si trova in quel luogo di morte e non dice nulla. Una musica dolce accompagna la vespa lungo le strade che riportano a Roma... 

E mi viene in mente la frase di Moravia durante i funerali di Pasolini: "Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo...Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta"...E come non essere d'accordo con Moravia...

martes, octubre 02, 2018

L'insostenibile pesantezza dell'essere


L'insostenibile pesantezza dell'essere. I giorni che scorrono via veloci senza freni, senza mai fermarsi (a volte il tempo va così veloce che fa crollare i ponti)...E gli impegni (accademici ed extra-tali): mi fai da "peer reviewer"? (gli orrendi anglicismi che adottiamo per darci un tono, per fare finta d'essere al passo coi tempi, per fingere d'essere coloro che non siamo); e mi mandi un "abstract" per questo congresso? (una vita in giro per città diverse dalla propria solo per parlare ai congressi); e mi partecipi a questo programma "Erasmus +" (pronunciasi: "plus")? (come se in Europa ci si potesse ancora davvero intendere sotto un'unica bandiera: e mi domando: ma che connesione c'è tra Malta, la Romania, la Francia, l'Inghilterra e l'Italia? E perché mi obbligano a mandare in allegato il mio curriculum in inglese? Perché sempre il predominio dell'inglese?).

Da Firenze una mia vecchia amica di avventure mi scrive che è all'ospedale: febbre alta, tremori, è perfino svenuta. Ora ha una flebo nel braccio sinistro. Guarda The Young Pope sul telefonino perché le ho fatto venire voglia (quando mi fisso su una serie, siete spacciati, amici cari, amiche di vecchia data).

Da Venezia una Prof.ssa importante attende un mio articolo (ma ce la farò mai a finirlo)?

Da Pisa un'altra mi chiede un altro favore e non sospetta, non potrebbe nemmeno immaginare, che io sto cercando in tutti i modi di rinunciare a lavorare di più, io voglio lavorare di meno o, almeno, lavorare a ritmi più normali.

Un saggio mi osserva di sottecchi: s'intitola La España vacía (ovvero, "La Spagna vuota") ed è di Sergio del Molino (ovvero, di una delle menti più brillanti di questi ultimi anni qui in terra ispanica).

Una bellissima ragazza di cui non ricordo più il nome (o il "nick-name") parla sul suo canale del Facebook di un "meme" che l'ha indignata: facile prendere una foto e modificarne il senso, aggiungendovi una frase, un motto, uno sberleffo; facile - dice lei, e ha pienamente ragione - commentare la foto e aggiungere il proprio fiele, la gente sta male, quelli che usano i "socials" non si censurano, quando si tratta di offendere qualcuno, in modo assurdo, in modo violento, in modo davvero inquietante (e se poi usi una falsa identità è ancora più facile, facile servirsi dell'anonimato per massacrare qualcuno, anche se questo qualcuno è una ragazza bellissima e con la testa sul collo e il cervello sveglio come è lei).

"Guardiamo Pina?", mi chiede dolcissima, distesa seminuda sul divano. Mi ci vuole mezzo minuto per capire che si riferisce al documentario di Wim Wenders (la settimana scorsa abbiamo fatto scorpacciata dei maggiori film del regista tedesco: Il cielo sopra Berlino, quello che ci ha commosso di più, anche se non lo ricordavo così logorroico - un film di 2 ore e mezza in cui i dialoghi reali ammontano a un totale di 2 minuti e mezzo e il resto è tutto eco dei mille monologhi impazziti delle mille persone con cui entrano in contatto i due angeli interpretati egregiamente da Bruno Ganz e Otto Sander...Troppo, davvero troppo lungo e logorroico il prosieguo, ovvero, Così lontano, così vicino, che io vidi quando uscì, ovvero, nel lontano 1997, quando avevo 20 anni...e mi piacque, perché ero ancora un adolescente pieno di dubbi esistenziali e di dilemmi amletici...).

Qualcuno urla da fuori, per strada. Un gatto si siede sulla panchina. Un cane prova a scalciare e scrollarsi di dosso il guinzaglio del padrone che gira in tuta e si appresta a buttare l'immondizia (dopo le 22:00, mai prima, perché in Spagna fa caldo e se tutti gettassero la spazzatura prima delle 22:00 sarebbe un disastro, puzza nauseabonda ovunque, quando impararemo qualcosa in Italia?).

Gli U2 cantano "Faraway, so close": ecco, questa è una delle poche cose che salvo dal film succitato di Wenders, una canzone bella e perfetta, tenera e romantica, che calza a pennello, in questa notte del 2 di Ottobre del 2018...

"Preferirei leggere", le rispondo. E lei: "Va bene, allora leggiamo"...e regna di nuovo il silenzio in casa, ognuno immerso nel suo mondo di carta, tutti e due consci di amarci e di essere amati l'uno dall'altro.

jueves, septiembre 27, 2018

Firenze e il Teatro del Maggio Musicale


Dunque, l'estate è davvero finita. Il freddo comincia a farsi risentire anche da queste parti. Nemmeno il Sud del Sud della Spagna si salva, ieri ha piovuto, oggi ho visto le prime foglie cadere.

Mentre provo a fare un po' d'ordine, la mia compagna d'avventure mi trascina a una serie d'incontri letterari e mi presenta una serie di scrittori e di poeti di cui non ricordo affatto i nomi, anche se di qualcuno rammento il volto.

Un poeta che lavora alle superiori legge dei versi bellissimi, struggenti e pieni di malinconia che mi fanno pensare a T.S. Eliot. Lui declama e poi parla e spiega e risponde alle domande della gente accorsa all'interno di questa libreria del centro, molto piccola, molto chic e molto ben fornita di classici.

Guardo distrattamente i libri della sezione della letteratura per l'infanzia. Un'edizione a colori di Alice in Wonderland m'ipnotizza. Il poeta spiega che molte delle sue poesie sono nate nella fase intermedia della semi-veglia, quando si ritrova sul punto di cadere addormentato all'ora della siesta... Cita "Kublai Kan" di S.T. Coleridge; poi parla dei surrealisti; poi non riesco più a seguirlo (perché Lewis Carroll mi fa fare le giravolte su me stesso attraverso i disegni e gli attraversamenti dello specchio di questa stupenda edizione illustrata - 39,90 euro il prezzo).

Dopo cena provo a rispondere alle email più urgenti; ma Silvia, una mia cara amica e collega sociologa, m'interrompe e mi inizia a parlare via Whatsapp e da Firenze di un suo progetto di ricerca sullo "story-telling" e della possibilità di immischiarmi nel suddetto progetto, una roba grande, fondi europei, mica pizza e fichi...

Mi ricorda anche che domani, in Italia, si festeggia la "Notte dei ricercatori" e che si sta preparando l'intervento che terrà domani. Dove, le chiedo. Al Teatro del Maggio Musicale, mi risponde. Firenze. Le chiedo dov'è il Teatro (mi suona il nome, ma non l'ubicazione). Vicino alla Leopolda, risponde. Certo, Renzi, il PD, rifletto a voce alta. E immediatamente la nostaglia diventa un fantasma che ti attanaglia, le Cascine, Corso Italia, il Ponte Vecchio, Via de' Serragli, i Giardini di Boboli, Porta San Giovanni, Porta Romana, l'Ospedale di Santa Maria Nuova, Santa Maria Novella, la Stazione, Via de' Calzaiuoli, Piazzale Michelangelo, Piazza della Repubblica (con la Feltrinelli bellissima che vi si stende su un fianco; la Rinascente, sulla destra, venendo dal Duomo, ci sarà ancora la Rinascente?), il quartiere di San Lorenzo con le sue pelli e il cuoio, il Teatro Verdi e il Museo del Bargello e quello della Fotografia, come si chiamava? (i Fratelli Alinari, ecco come si chiamava...).

La nostalgia è la voglia di tornare nei luoghi in cui uno è stato felice, anche se la saggezza popolare ci insegna che "non dovremmo mai tornare nei luoghi in cui siamo stati felici", o forse no, dovremmo e come, vorremmo stare lì e non qui, anche solo per vedere l'effetto che fa, anche solo per constatare come il tempo ha cambiato quei luoghi e ha modificato i nostri sguardi, oltre alla nostra identità, perché nessun essere umano si salva e siamo tutti immersi nel tempo, compresi i luoghi in cui siamo stati felici, e non c'è mai fine al cambiamento e alla metamorfosi, consci del fatto che anche la persona amata che abbiamo lasciata lì è cambiata e non è più la stessa, proprio come noi, proprio come quegli stessi luoghi che lei ancora vede e tocca e perlustra ogni giorno al risveglio al mattino...


domingo, septiembre 16, 2018

Le colonne sonore dei film di Sorrentino


Sono a Madrid; è il 16 Settembre, una Domenica bellissima, solare, calda, di quel caldo afoso e secco che solo nella Capitale di Spagna ti può capitare di patire un 16 di Settembre...

Domani dovrò vigilare gli esami in una sede piuttosto lontana dal centro storico; esami speciali per alunni "particolari", diciamo così... 

E mentre attendo di adempiere il mio dovere e di andare a cenare con Vero (l'amica di una vita, una donna che fa parte stabile della mia vita, una ragazza senza la cui presenza qui nella capitale Madrid non sarebbe più Madrid), ascolto le canzoni che fanno parte della colonna sonora di The Young Pope, la serie (geniale) di Paolo Sorrentino...

Ecco: ascoltandola, mi viene in mente che qualcuno dovrebbe scriverci una tesina, una tesi, se non addirittura una tesi dottorale, su come Sorrentino gioca con la musica (da quella classica a quella elettronica, passando, come sempre, per quella popolare tipica italica).

The Young Pope è una serie strana, stramba, a tratti anche inquietante, in cui Sorrentino ci fa entrare nel dietro le quinte del Vaticano e ci narra le vicissitudini e i dubbi atroci di un Papa giovane (interpretato ottimamente da Jude Law) che non crede più in Dio o che, almeno, a tratti, sembra non credervi, ci litiga, ci si accapiglia, lo rimprovera, anche se poi torna sempre a pregarlo, speranzoso che accolga le sue preghiere e i suoi desiderata...

La sigla d'inizio, in tal senso, contiene ed esprime al meglio (ed in sintesi) quasi tutto ciò che c'è da sapere della serie: il Papa Giovane-Jude Law cammina spavaldo accanto ai quadri famosi della Storia dell'Arte Cristiana al ritmo di una canzone dei Devlin che s'intitola "Watchtower" (e che, forse, è una versione modernizzata di un pezzo di Jimi Hendrix - da studiare), mentre una stella cometa brillante di fuoco lo accompagna a sua volta attraversando letteralmente le tele dei vari quadri fino a convertirsi in un meteorite che si scaglia violentemente contro la statua dell'altro Papa, quello Buono, Papa Giovanni Paolo II...non prima che il Papa, questa volta quello Cattivo, per così dire, guardi dritto in camera e ci mandi un sorrisetto beffardo e una strizzatina d'occhi...

Ecco: mentre sono a Madrid e sono le 21:00 e so già che non andremo a cenare prima delle 22:00 e che non andrò a letto prima delle 1:00 e che non prenderò sonno prima delle 2:00 (sebbene domattina debba svegliarmi all'alba e trovarmi nella sede lontana dal centro entro le ore 9:00), ecco, mentre faccio tutti questi calcoli mentali, penso che Sorrentino è davvero bravo a fare il dee-jay e che qualcuno dovrebbe davvero studiarlo il modo in cui usa la colonna sonora (intanto, è partito un altro pezzo fondamentale all'interno della serie, "Levo", s'intitola, Recondite, il nome dell'artista che l'ha creato, un pezzo che ipnotizza, che cattura subito l'attenzione, che fa innervosire, che fa capire come si possa sentire un Papa che ha dubbi circa il suo mandato e l'esistenza di Dio e l'umanità dell'essere umano)...

Per non parlare, poi, della puntata in cui il Papa Giovane si riunisce con la rappresentante della Groenlandia e lei gli offre in dono...un lp di Nada, perché si è innamorata della canzone che s'intitola "Senza un perché" e la scena in cui la massima carica dello Stato della Groenlandia si mette a ballare all'interno dello studio papale non ha eguali, canta e si dimena e il Papa Giovane la guarda esterrefatto e ammaliato, Nada, una che proprio non ti aspetti e che sembra cantare una canzone degli anni 60, non una del XXI sec.: "Lei non parla mai, lei non dice mai niente, non è poi così strano se chiede perdono e non ha fatto niente"..."Non c'è niente di meglio che stare in silenzio e pensare al meglio, a un'estate leggera che qui ancora, ancora non c'è"...

Per non parlare, poi, della colonna sonora de Le conseguenze dell'amore, o del Divo, o di This Must Be The Place, o di Youth, o di Loro (1 e 2)...

Ecco, ora è partita "Halo" di Lotte Kestner... e qui ci può scappare la lacrimuccia, maledizione, Paolo Sorrentino, come ci azzecchi sempre, come indovini i momenti in cui quella musica si sposa perfettamente con quelle immagini e quella scena...quanta emzione circola in quella scena in cui il Papa è un bambino che contempla estasiato la mamma nuda, lui che a sette anni sarà condannato a perdere per sempre i propri genitori e a diventare, così, un orfano, uno che andrà sempre alla ricerca delle radici...

sábado, septiembre 01, 2018

I diari (quelli persi e ritrovati)

Dopo un mese di viaggi, tornare a casa (dei miei, quella in cui sono nato e cresciuto) e imbattersi - in mezzo ad altre mille scartoffie - in un pezzo di un diario risalente (nientepopòdimenoche) al 2004 (ovvero, 14 anni fa) e scoprire che - almeno in parte, in molti aspetti - il mio carattere non è cambiato affatto, identici i problemi da affrontare, identico l'affanno e lo stress patito, identica l'insonnia (per fortuna ancora non cronica, ma da vecchio, chissà?), identica la paura di non farcela a spedire in tempo gli articoli che si è accettato di scrivere per chissà quale oscura rivista (presuntamente) scienfitica, identica anche l'incertezza, soprattutto sul fronte "amoroso" o "sentimentale" (come fare affinché la rottura non risulti troppo dura e dolorosa, quando lasciarsi, cosa dirsi nel momento dell'addio, tutta la parafernalia delle scuse inventate "ad hoc" o costruite dopo mesi di prove, come se si trattasse di una scena clou dell'atto più importante di un dramma shakespeariano o - peggio - ottocentesco), tutta quella retorica vuota (o svuotata di senso) verso la donna amata che si sa non più amata né desiderata, e poi gli appuntamenti a Madrid, con quella determinata collega che ti ha esposto la sua sincera intenzione di scrivere un libro a quattro mani con te (ma non ti piace fisicamente e nutri dubbi circa la sua vocazione politica - sembra che voti Fini, addirittura, Fini! Nemmeno Berlusconi, ma Fini! Come si fa?) e poi, la settimana dopo, scrivi che, in effetti, sì, ti sta simpatica, è carina, ma troppo magra e non te la porteresti a letto e, men che meno, ci scriveresti un saggio di letteratura a quattro mani...

Quanti scogli, che sembravano effettivamente insuperabili, sei poi riuscito a superare in modo brillante; quante scadenze rispettate; quanti appuntamenti ai quali ti sei poi presentato puntualmente; quante amiche ritrovate e nuovi amici conosciuti in Biblioteca Nazionale; quante paranoie e quante parole vane; quante promesse fatte e non mantenute e quanti progetti immaginati e poi, inaspettatamente, portati a termine...

Fa davvero effetto ritrovare il proprio "io" d'un tempo, a distanza di 14 anni...

jueves, junio 28, 2018

DIARIO DI OXFORD



20/6/2018

La vita è proprio un caos (di ricordi, di speranze, d'illusioni, di coincidenze strane... e di paure).

Sono a Oxford (9 Iffley Road, a circa 1 km dal centro e dai vari colleges di una delle Università più prestigiose e famose del Mondo) e io, invece di ripassare un po' l'intervento di domani mattina, mi preoccupo di L.G.G., lo scrittore di cui parlerò davanti alla solita giostra di professori arroganti, di giovani dottorandi superbi, di neodottorandi e neodottori pronti a correggere ogni mia minima virgola mal posta. 

L.G.G. ha quasi 87 anni e una nostra comune amica, di Venezia, mi ha scritto informandomi delle sue condizioni di salute: qualche settimana fa l'ha intravisto a Madrid, nei pressi del Museo del Prado, e non sembrava che se la passasse granché bene, le era parso alquanto malaticcio e un po' claudicante. L.G.G. Sì, proprio lui. Mi domando che senso abbia che ne rivendichi il valore letterario, la bellezza ipnotizzatrice del suo stile, la serietà e la grande portata morale della propria proposta narrativa in un ambiente accademico come è quello di Oxford...

L.G.G. non lo legge nessuno, o quasi, neppure in Spagna, figuriamoci qui...

La mia compagna d'avventure è di là che dorme e soffre d'un leggero attacco d'ansia (prima di entrare in casa è saltato l'allarme e subito dopo ci siamo imbattuti in un topo che gironzolava allegramente nel minuscolo giardino dell'appartamento, in mezzo a due grossi sacchi neri della spazzatura - ma quando passono a rititarla a Oxford? A che ora iniziano a lavorare qui i netturbini?) e io, come al solito, non ho sonno e allora leggo Il trattato sulla pittura del geniale e, purtroppo, spesso dimenticato Leon Battista Alberti, in una copia anastatica del 1913, con una prefazione (e la curatela) di Giovanni Papini (ma il trattato - come sanno bene gli storici dell'arte - risale niente di meno che al 1435, quando Cristoforo Colombo ancora non aveva scoperto il Nuovo Mondo e Erwin Panovsky doveva ancora scrivere La prospettiva come 'forma simbolica' - che è del 1927) in compagnia d'un bicchiere di vino Cune, un Rioja rosso tipicamente spagnolo (e dal sapore forte e intenso che può ricordare molto il nostro Montepulciano d'Abruzzo o il nostro Chianti). 

E ripenso all'ironia della sorte: Alberti (un italiano) letto accanto a un bicchiere di Cune (spagnolo) all'interno di un appartamento a piano terra (per non dire sotterraneo - cfr. topo di cui supra) della città di Oxford (che più britannica non si può).

Un mix di culture e di lingue, di sapori e di profumi, il simbolo perfetto della società liquida e multiculturale di oggi, un oggi fatto anche d'immagini strazianti (quelle dei bambini che Trump considera figli d'illegali che vanno respinti dai confini della sua amata America "great again" e quelle degli immigrati africani giunti al porto di Valencia sull'Acquarius...quando impareremo dagli errori del passato? Chi ha disegnato i confini delle acque del Mediterraneo? Cosa sarebbe successo se ai tempi di Omero qualcuno avesse fissato i paletti per dimostrare dove comincia un territorio "proprietà" di uno Stato o Regno e dove comincia l'altro?) e io, intanto, ripenso al problema di salute di L.G.G., uno dei miei scrittori favoriti, un anziano di 87 anni che, probabilmente, si prepara a morire, a lasciare questa Terra nel migliore e più dignitoso dei modi (uno che legge Marco Aurelio e trova ispirazione anche nelle Storie o negli Annali di Tacito) e mi ridomando che senso ha tutto questo, noi qui ad Oxford a parlare di Letteratura e di Arte, dei problemi dell'identità e dei rapporti sempre ambigui tra realtà e finzione e loro di là, negli USA o in Spagna, lungo tutte le coste africane e del Mediterraneo, in cerca di salvezza, gente che urla e che si dispera, gente che muore annegata, a che cosa serve l'Arte o la Letteratura quando nel Mondo di là, nel Mondo "reale" succedono cose così orribili...

E allora mi torna in mente Primo Levi e quel brano indimenticabile di Se questo è un uomo, quando l'autore si sforza di ricordare a memoria e correttamente tutti i versi del Canto XXVI dell'Inferno dantesco affinché il messaggio arrivi dritto e chiaro al suo interlocutore, un ragazzo che è sul punto di finire nelle camere a gas proprio come lui e Primo Levi ci prova a ripetere esattamente quei versi cruciali della Commedia di Dante: "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza", ecco, è proprio così e speriamo che sia ancora così...

21/6/2018

Stamattina siamo andati al congresso alle 9:00 in punto. Ho fatto l'intervento dopo pranzo (qui si pranza attorno alle 12:oo, si cena attorno alle 18:00, massacrante davvero per chi viene dall'Italia, ancor peggio se si viene dalla Spagna...).

Tra il pubblico qualcuno ha sbadigliato, una mi ha guardato storto e un altro mi ha fatto la seguente domanda: "Dunque lo scrittore da lei studiato obbliga il lettore a compiere un notevole sforzo interpretativo, giusto?".

Usciamo dalla Facoltà per prendere un po' d'aria e c'infiliamo all'interno della Blackwell, in Broad Street, una delle librerie più grandi, belle e lussuose di tutta Oxford. 

Acquistiamo lei The Waves, uno dei romanzi più sperimentali di Virginia Woolf, io The Major Works di S. T. Coleridge, "including Biographia Literaria", che è il testo che più m'interessa leggere tra tutti quelli inclusi in questa bella edizione della (ovviamente) Oxford University Press.

Più tardi entriamo all'Ashmolean Museum, uno dei musei più grandi e belli che io abbia mai visitato (lo si può paragonare tranquillamente ai nostri Uffizi o al Prado di Madrid). L'ingresso è gratuito, o meglio, chi vuole può fare un'offerta di 5 pounds e infilare il denaro in una specie di salvadanaio trasparente.

È un metodo giusto ed equo e di gran successo: siamo tutti spinti a lasciare i 5 pounds con piacere, davanti a tanta bellezza, raccolta in un numero infinito di stanze, su 4 piani di opere d'arte che vanno dall'antico Egitto all'arte contemporanea.

Scopriamo che sulla terrazza del museo c'è un bellissimo risto-bar. Ci fermiamo a prendere un caffè seduti su una sdraio; in realtà, sono diverse sdraio messe in circolo su un rettangolo di prato all'inglese da dove si può prendere il sole (che, stranamente, ci assiste sin dal giorno del nostro arrivo) e da dove si può godere una delle viste più impressionanti del centro della città.

Sono a Oxford, contemplo il volto della mia compagna di avventure, sorseggio questo caffè, scrivo questo diario di bordo e ancora non ci credo... La grande bellezza vive anche in questo luogo magico, medievale e accademico che sembra vivere al di fuori del tempo...

2
2/6/2018


"The sun had long since in the lap
Of Thetis taken out his nap,
And like a lobster boyl'd, the morn
From black to red began to turn”
S. T. Coleridge, 'Table Talk' (23 June 1834)

Non so bene perché, ma questi versi, che trascrivo da una specie di diario di Coleridge, mi colpiscono e mi fanno venire in mente il passaggio lento e graduale della luce quando il sole lascia spazio alla luna: qui le giornate durano tantissimo, non tramonta mai prima delle 21:30 o anche delle 22:00. 
Inghilterra; Oxford; Coleridge; poesia e letteratura si respirano nell'aria.


lunes, junio 18, 2018

Mircea Cărtărescu: scrittore folle



Primo scrittore rumeno che leggo in vita mia, Mircea Cărtărescu è un folle che scrive come pochi in questo Pianeta; a metà tra un romanzo di Antonio Moresco e un film di David Lynch, Travesti è solo un esempio delle pazzie che sa fare con le parole e con l’immaginazione questo mostro (poeta, ancor prima che romanziere)…

Inizio a leggere il romanzo (che parte in seconda persona singolare) e mi accorgo subito della levatura stilistica ed etica di questo autore (a mo’ d’esempio, copio e incollo la p. 13):

“Ero assai più solo di quanto non lo sia ora, che sono molto solo. La mia professione, all’epoca, era la solitudine. La esercitavo per le vie gialle e polverose di Bucarest, nei vecchi quartieri, a me sconosciuti fino a quel momento. Passeggiavo tutto il giorno, recitando versi a voce alta, suscitando l’orrore dei passanti con miei occhi allucinati, con il mio volto pallido e asimmetrico, con le labbra screpolate e morsicate sotto un accenno di baffi. Cercavo case molto vecchie, gialle, con decorazioni stupide e solenni, o edifici bizzarri, sottili come una lama di rasoio, che proiettavano la loro ombra, quella di uno gnomone, su piazzette solitarie. Talvolta entravo in questi edifici misteriosi, percorrevo gli atri che sapevano di vecchio e di disinfettante, salivo le scale a spirale particolarmente strette, con piccoli pianerottoli qua e là dove, nella luce dorata di una finestra rotonda, si accartocciavano le foglie polverose di qualche ficus o di un oleandro dimenticato da tutti e quasi disseccato, salivo più su, fino alla mansarda, e bussavo a una qualche porta verde, che pareva essersi riempita nell’attesa di ragnatele. Inventavo qualcosa e scendevo giù, sbucavo di nuovo alla luce del sole omogenea e pacifica, percorrevo ancora strade striate da binari di tram, m’infognavo in zone sconosciute della città. Edifici rosa, edifici scarlatti, con balconi sostenuti da atlanti e gorgoni dalle tette di gesso ingiallite per l’umidità, statue coperte di verderame a cui nessuno presta più attenzione –io le abbracciavo nella mia solitudine, ne accarezzavo la guancia escoriata, le aiutavo a rinascere a una realtà più profonda, in un’aura metafisica e radiosa”.

Ci sembra di essere proprio lì con lui, in questo brano, in compagnia del poeta-scrittore (di colui che dice “io” e che sembra coincidere pienamente con l’autore in carne ed ossa) che passeggia in mezzo a quelle case semi-distrutte e orride di Bucarest; un anti-eroe contemporaneo che non trova nulla di meglio da fare che bearsi del suo stato di solitario perenne e che, con atteggiamento quasi masochista, gode della vista di questi orrori architettonici. Eppure, tutto ciò che vede, tutto ciò che i suoi occhi carezzano, o che le sue mani toccano, diventa “poesia”: l’autore possiede un senso del ritmo incredibile e una capacità di “creare” immagini che sembrano – appunto – caratteristiche più tipiche di un poeta che di un romanziere…

È un autore strambo e strano, questo Mircea Cărtărescu, perché nel suo viaggio surreale, nella sua personale discesa agli Inferi, sa rappresentare visualmente i conflitti del protagonista, un ragazzo che (negli anni 90) in gita scolastica viene approcciato da un amico che si traveste e che si fa chiamare Lulù (e chi è Victor, quel destinatario esplicito che chiama in causa sin dalla prima pagina? Il suo “io” da adolescente? L’adolescenza è sempre “ermafrodita”? È possibile tornare a vivere il proprio passato? Queste sono solo alcune delle questioni che solleva la trama di Travesti). 

A tratti Borges e a tratti Proust, l’autore va disegnando un paesaggio morale, politico e ideologico all’interno del quale al lettore è assegnato il (duro e arduo) compito di “co-autore”: la lettura è un processo d’interpretazione costante e, a volte anche estenuante, nel caso di Mircea Cărtărescu, ma quando si arriva alla pagina finale, quando si giunge in porto, dopo tante tempeste e maremoti, dopo tante visioni stralunate e da incubo, si sente, si avverte, si capisce, che ne è valsa davvero la pena…(oltre ai due autori citati, ricorda molto anche Kafka, come se si trattasse di un Kafka che allungasse all'infinito le trame dei suoi racconti brevi...).

E dopo Travesti, sono certo che m’immergerò nelle altre sue due imprese folli: Abbacinante (romanzo-universo scritto in 3 parti tra il 1996 e il 2007 – e che già solo dalla struttura mi ricorda quell’enorme follia di Antonio Moresco che va sotto il nome di L’increato) e Solenoid (del 2015), già tradotto in spagnolo e in attesa di traduzione in italiano…

E parlando di traduzione: complimenti, intanto, a Bruno Mazzoni, perché trasportare nella nostra lingua uno scrittore del genere deve essere davvero una grande sfida (e, in tal caso, la sfida è vinta perché il traduttore riesce a darci l’idea della fluidità e della complessità, delle mille sfaccettature e musicalità della scrittura dell’autore).

Ne riparleremo certamente su questi schermi…

viernes, junio 15, 2018

Prima del viaggio in Inghilterra


Mandi il racconto alla "diretta interessata", ovvero, a colei che ti ha ispirato il personaggio femminile protagonista del tuo ultimo racconto lungo (dopo quello breve e "horror" che ha fatto venire gli incubi a un tuo collega fisico quantistico - o quantico) e ti soprendi, accipicchia, ti fa effetto ricevere un suo messaggio vocale pieno di tenerezza e di gratitudine (parola ormai in disuso e quasi sconosciuta ai più, in questo primo ventennio del XXI sec.). Ti sorprendi e quasi arrossisci, quando ti dice (a distanza di molti chilometri) che sei stato davvero bravo, che la suspense non decade mai (nell'arco delle 25 pagine che dura il racconto) e che il ritratto è così fedele che ti confessa che lei non potrà mai farlo leggere a nessuno della sua cerchia, si riconosce subito che dietro quel nome fittizio c'è lei, con tutti i suoi difetti e i suoi tics e le sue manie e i suoi tipici modi di dire...

Poi arrossisci pure quando Ana, una delle socie che più frequenta il tuo "club di lettura", ti dice che vuol farsi una foto con te: Ana, una donna tutta d'un pezzo, 78 anni e non sentirli; pittrice, scrittrice, poeta, amante della montagna, ex-escursionista e lettrice vorace (ti chiede il favore di proporre la lettura di un romanzo storico, la prossima volta, al prossimo appuntamento: lei li adora i romanzi ambientati nel passato e ben documentati dal punto di vista storico).

E poi ti sorprendi quando un amico, poeta pubblicato (nel senso che è davvero riuscito a pubblicare le sue opere, con case editrici importanti, almeno qui in Spagna), ti confessa che ha smesso di pubblicare i suoi pensieri nel suo blog, "se non scrivi tutti i giorni li perdi", dice, riferendosi evidentemente ai lettori, e tu ci pensi e ci rifletti e concludi che non è vero o, almeno, che a te non interessa affatto "perdere" lettori se non aggiorni costantemente il tuo blog, che lì scrivi per perdere tempo e per diverimento, o per mettere nero su bianco le tue paturnie, una forma di sfogo, un modo per risparmiare i soldi dello psicologo (o dello psichiatra, dipende).

E infine ti butti nella lettura di Nessuna passione spenta (1996), del grandissimo George Steiner, uno dei tuoi critici letterari favoriti, uno la cui scrittura ti affascina, proprio come il primo capitolo del libro, dedicato all'analisi dettagliata dell'immagine che funge da copertina del lirbo, quel "Le philosophe lisant" di Chardin (del 1734) che ti cattura subito e ti spinge subito a immaginare come doveva essere silenziosa quella stanza in cui, appunto, si vede "il filosofo che legge"...con quello strano cappello con la punta che svetta all'insù e quella specie di pelliccia sulle spalle e quel tomo rilegato che parla di chissà cosa...

Sì, sono queste le cose che pensi, immagini, vivi e ricordi prima di preparare la valigia per il tuo primo (primissimo) viaggio in Inghilterra (prima Londra, poi Oxford, infine un salto a Stratford-Upon-Avon)...


 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...