lunes, febrero 29, 2016

Antonio Gramsci e le Lettere dal carcere


Mai avrei immaginato che la lettura di questo “testamento umano” (come si suol dire, a volte in modo grossolano o fin troppo giornalistico) potesse essere così avvincente.

Ciò che più colpisce delle Lettere dal carcere è il tono assunto da chi le scrive: Antonio Gramsci sa che si trova in carcere per il suo pensiero politico; sa che il regime vuole azzittirlo; sa pure che finirà per morirci in carcere (anche se continua ad essere ottimista e a mantenere la calma fino all’ultimo) e, nonostante tutto, si sforza di difendere la propria vita dalle storpiature, dai “vizi” e dai molteplici ostacoli che implica la priogionia.

Leggendolo, sorprende vedere come instaura un rapporto intimo privilegiato con Tania, sua cognata, una figura fondamentale che gli permette di mantenere un rapporto diretto con la famiglia e con il mondo esterno; soprende vedere come – col passare degli anni – va deteriorandosi il rapporto con Giulia, sua moglie, vittima di disturbi psichici che cerca di risolvere con la psicoanalisi freudiana (cui Gramsci non crede); colpisce e sorprende e fa una certa compassione vedere come Gramsci si preoccupa, comunque, dell’educazione dei due figli, cui manda lettere di una tenerezza incredibile, anche se non li ha mai visti dal vivo, anche se sa come sono fatti solo grazie a foto a volte sbiadite (il “prigioniero politico” si lamenta della cattiva qualità delle fotografie che moglie e cognata gli inviano per dargli l’illusione di poter vedere come crescono i due bambini). E sorprende, colpisce e fa venire davvero i brividi vedere come un uomo privato della libertà continua a sentirsi libero grazie ai libri: soprattutto nei primi anni della prigionia (dal 1927 al ‘32), Gramsci chiede in continuazione nuovi libri a Tania e delinea una serie di progetti che vorrebbe portare avanti anche da dentro la prigione: una ricerca sulla figura dell’ “intellettuale” in Italia; una sul Machiavelli; una di linguistica generale; una “notarella” (come la definisce lui) sul canto X dell’Inferno dantesco (quello su Farinata e Cavalcanti); uno sul successo della filosofia idealista di Benedetto Croce; uno sul teatro di Pirandello (così all’avanguardia, all’epoca, e ancora oggi)…

Antonio Gramsci legge avidamente di tutto e in varie lingue (soprattutto inglese e francese, anche se vorrebbe migliorare il suo russo e il rumeno); si appassiona per i racconti di Kipling e Wells; racconta delle novelle divertenti e d’un umorismo a volte macabro a Tania e ai figli; critica i saggi che considera insulsi in poche righe e senza censure; si sorprende se la cognata dimentica di rinnovare il pagamento dell’abbonamento mensile alle riviste che i capi fascisti gli permettono di consultare. Insomma, Gramsci mostra uno stoicismo che ha dell’incredibile e continua credere nella vita, anche quando la depressione sembra avere la meglio, anche quando il “potere” politico che vuole annientarlo sembra complottare affinché non esca mai più di prigione.

Ecco cosa scrive il 12 Settembre del 1927:

Tutta questa vita mi ha rinsaldato il carattere. Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; non attenderci niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via (p. 62 dell’ed. Einaudi del 2011).

Lo scrive a Carlo, che se non ricordo male è suo fratello, ovvero: uno che soffre in prigione scrive all’altro che gode di tutte le libertà per fargli coraggio, per spingerlo ad accettare la nuova situazione familiare! E poi aggiunge (p. 63), offrendo al lettore una sorta di definzione semplice e diretta di sé stesso: “Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo”.

Quante volte, di fatto, Gramsci si preoccuperà di spiegare alla madre che non è finito in carcere per aver rubato o ucciso qualcuno, ma perché è quella la sua posizione: negarsi ad accettare gli ordini che vengono dall’alto; non scendere a compromessi con Mussolini…

Il 3 Ottobre del 1932 ribadisce questo suo pensiero (quanto dura sia stata la sua vita e quanto abbia dovuto contare solo sulle sue forze) all’amata Tania:

Del resto non devi credere che io abbia intenzione di suicidarmi o di abbandonarmi, come un cane morto, al filo della corrente. Mi digiro da me da molto tempo e mi dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a lavorare da quando avevo 11 anni, guadagnando ben 9 lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi sempre solo l’aspetto brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male (id., p. 235).

E poi ci sono i momenti di felicità: quando l’insonnia gli dà tregua e riesce a dormire qualche ora e l’intestino non gli dà problemi e torna a divorare libri (riesce a leggerne anche uno al giorno) e s’interessa per il mondo esterno (ma ci sono scene in cui è il mondo esterno a fare l’ingresso nel mondo interno del carcere: come quando narra dei suoi tentativi di addestramento di un topo, di qualche uccellino che ha perso la direzione o di altri insetti domestici.

Ecco: se uno pensa a quello che dovuto sopportare un uomo come Gramsci in un’Italia come quella in cui gli toccò vivere; se uno pensa a quanta forza avesse, nonostante la privazione della libertà, e a come fosse lui a cercare di dare forza ai parenti che vivevano nel mondo “di fuori” liberi; se uno pensa a tutte queste cose e a che cosa è diventata la politica italiana di oggi, non può non provare dei brividi e un senso enorme di gratitudine verso Antonio Gramsci e il suo pensiero e i suoi sforzi di mantenere la calma in una situazione estrema che avrebbe schiacciato chiunque.

Il 18 Maggio del 1931 si rivolge alla moglie e le scrive una frase che sembra tratta da Shakespeare (anche se scritta con un certo tono ironico o quasi auto-ironico): “In conclusione: il mondo è grande e terribile e complicato, e noi stiamo diventando di una saggezza che diventerà proverbiale”.

Non so quanto fosse cosciente di quanta saggezza stesse esprimendo con questa frase lapidaria, diretta e limpida come molte di quelle che compongono queste Lettere dal carcere.


jueves, febrero 25, 2016



PETALOSO (agg. m. sing.)

"Petaloso"... Ciò che più colpisce di tutta questa storia, se la si osserva dall'estero, non è tanto l'atteggiamento della maestra che si è sentita in diritto-dovere di avvisare l'Accademia della Crusca circa l'invenzione neologistica del suo bravo alunno (un fanciullo innocente), né la risposta solerte dell'Accademia stessa ("Bravo, hai formato una nuova parola composta: "petalo + oso" - e uno che legge Cervantes pensa a neologismi ben più ingegnosi - cfr. il "baciyelmo" di Sancho Panza), come se all'Accademia ci si annoiasse da morire o, al contrario, come se si stesse vigilando sulla correttezza o meno dei "neologismi" che entrano a far parte del coacervo italico tutti i santi giorni, no... Ciò che più colpisce e dà da pensare è che un Premier, Matteo Renzi, trovi il tempo per scrivere sul suo profilo del Twitter i suoi complimenti al bambino "neologo", e per dirci che va bene così, vai avanti, inventa (senza pensare nemmeno un secondo alla distruzione della lingua italiana cui anch'egli sta contribuendo alla grande con il suo costante e supino abbassarsi alla "potenza" e al "fascino" degli anglicismi ("stepchild adoption" + "jobs act" + “spending review” + un lunghissimo eccetera), lui, che, quando c'era ancora la buonanima di Mike Bongiorno, comprava una vocale o girava la ruota (la "Bbbbuona Scòla", certo)...

sábado, febrero 20, 2016


Umberto Eco



20 Febbraio del 2016. Questa mattina la prima notizia di cui sono venuto a conoscenza dai “social media” è stata la morte di Umberto Eco. Facebook è intasato d’immagini e di link ad articoli che ne parlano, ricordando l’importanza di Eco nel panorama culturale e letterario non solo italiano, ma internazionale (forse è stato lo scrittore italiano più noto all’estero, in questi ultimi 40 anni).

Da Whatsapp anche mia madre mi avvisa e mi scrive, con tono mesto: “Hai visto? E’ morto Umberto Eco”, come se fosse un parente o un’amico di famiglia…
E così altre amiche: “Appena l’ho saputo ho pensato a te”, come se davvero avessi fatto pubblicità ad Eco presso le mie conoscienze.

L’ultima volta che lo vidi in televisione fu un mese fa circa: uno dei giornalisti più bravi di Spagna lo intervistava sul concetto di “macchina del fango”. Gli spagnoli non hanno una traduzione esatta e concreta per questa espressione così “nostra” e “nostrana”, così italiana e l’esimio semiologo provava a spiegargliela con alcuni esempi brevi, ma molto efficaci. Aveva pochissimi capelli, ora, e la barba ancora più bianca; gli occhi ancora più infossati, dietro le lenti dei suoi storici occhiali, e le rughe del collo più marcate.

L’ultima volta che lo vidi dal vivo fu ad un congresso organizzato dall’Università di Roma Tre. Ci parlò di James Joyce e delle avanguardie letterarie dei primi del Novecento, riflettendo sul concetto di “tradizione” e di “innovazione”. Ricordo che gli studenti lo ascoltavano come si ascolta la narrazione di una favola da parte di un nonno; erano imbambolati, e così io e gli altri colleghi presenti all’evento. Ricordo quando si mise a raccontarci cosa contenesse il cassetto di Leopold Bloom e come Molly reagisse al rientro (in tarda notte: le 2) di suo marito, quando lo aveva appena tradito con un altro.

L’ultimo libro che ho comprato di Eco è stato il suo ultimo romanzo Numero Zero (2015): lo lessi a Natale, ma non mi convinse molto, anche se i brani in cui il narratore parla dei due Mussolini, della fuga dell’originale e della sostituzione con un sosia che poi sarebbe finito impiccato a Piazzale Loreto erano interessanti, e anche alquanto inquietanti, per il finale alternativo che offrivano su un fatto centrale per la Storia d’Italia (e mi venne in mente il finale di Inglorious Basterds di Quentin Tarantino, dove addirittura il regista s’inventava un finale positivo, un happy end apoteosico sulla morte di Hitler, per mano di un gruppo di fuoriusciti ebrei americani).

L’ultimo libro di Eco che ho provato a portare in Spagna dall’Italia è stato Scritti sul pensiero medievale, un bellissimo tomo, un libro elegantemente stampato come si faceva un tempo per i “libri importanti”, apparso per Bompiani nel 2012, in cui – in circa 1300 pagine – Eco stesso raccoglieva tutte le sue opere principali di argomento medievale, a partire dalla sua stessa tesi di laura sul pensiero e l’estetica di San Tommaso d’Aquino. Pesava troppo, il tomo, e dovetti rinunciare (speriamo di avere più fortuna al prossimo tentativo, a Pasqua, quando riattererò in patria).

L’ultimo libro di Eco che ho prestato a qualcuno è stato Vertigine della lista, del 2009, se non ricordo male: lo lesse avidamente la mia compagna di avventure e ne rimase abbagliata per la ricchezza delle immagini e l’apparente infinità dei riferimenti letterari. Un libro sulle enumerazioni, sugli elenchi che sembrano non finire mai, sulle liste che, appunto, potrebbero andare avanti all'infinito... Era una tecnica che conoscevo già da Il nome della rosa, il romanzo che – come si suol dire in gergo giornalistico – catapultò Eco sul palcoscenico della fama internazionale...Un giallo, un romanzo storico, una specie di thriller, una specie di trattato di letteratura in cui si ipotizzava l’esistenza della seconda parte della Poetica di Aristotele, quella in cui lo Stagirita si sarebbe presuntamente occupato della “commedia” e del “comico”, temi scomodi in un’abbazia gestita da monaci in cui serpeggiano tutti e sette i peccati capitali...

E poi Dire quasi la stessa cosa, un bel saggio sulla traduzione, e poi Scritti letterari, e poi Kant e l’ornitorinco, insomma, la lista la conosciamo tutti e non è il caso di farla per intero.

Ricordo solo che quando lessi Il nome della rosa, a 16 anni, mi sentii sperso: non sapevo esattamente dove poter poggiare i piedi, andavo avanti e mi domandavo dove volesse arrivare l’autore, mi annoiavo, e poi volevo seguire la storia fino a scoprire la verità, perché avvertivo che c'era una verità da scoprire all’interno di quello spazio “narrativo” e architettonico così magnificamente ricostruito con le sole parole.

Ricordo l’italiano maccheronico e il latino volgare dell’incipit di Baudolino, uno dei libri più “felici” e “allegri” di Eco; e ricordo i vuoti di memoria, i salti temporali e l’uso efficace delle immagini nel corpo del testo nella trama de La misteriosa fiamma della Regina Loana, forse il miglior romanzo di Eco, quello in cui ci parla più di sé.

E fare tutto questo resoconto mi rende malinconico, perché penso che a partire da oggi non ci sarà più modo di leggere “l’ultimo di Eco”. Non potrò più svagarmi con i suoi romanzi multi-strato; non potrò più riflettere come un semiologo di razza con i suoi saggi dotti e sempre ironici.


Umberto Eco: una delle menti più acute d’Italia, uno di quegli studiosi che non smettevano mai di fare ricerca; uno che ora mi piace immaginare a colloquio con il suo “amico” San Tommaso d’Aquino (quanti dibattiti, quante discussioni ad infinitum, queste sì, ad libitum)…

viernes, febrero 19, 2016

 Fuoco nemico



Tempo fa scrissi una recensione a un saggio di critica letteraria che, a mio modesto parere, non manteneva quanto prometteva sin dal titolo; troppo ambizioso, troppo vasto il campo d’indagine, troppo limitato il punto di vista dell’autrice. E più d’una collega mi disse di smussare i toni, di non essere così spocchioso, di non fare troppo il gradasso, perché io non ero nessuno per crocifiggere una docente esperta, una persona degna, un’americana che lavora in Germania (o una tedesca che lavora negli USA, ora non ricordo più bene) che non mi aveva fatto nulla di male e che non si meritava i miei strali…

Ci pensai su solo dopo che la recensione venne pubblicata presso una rivista specializzata che leggeranno, sì e no, i cinque o sei abbonati che amano trastullarsi con questioni non poi così tanto trascendentali. E mi dissi che era vero, che le mie colleghe avevano ragione, che nemmeno il tuo più acerrimo nemico si merita una stroncatura del genere, e un po’ mi pentii di aver agito in quel modo, ma ormai era fatta, la recensione è lì, stampata, la possono leggere tutti (quelli che si prendessero la briga di cercarla).

Tempo dopo narrai su questo diario di bordo le vicissitudini di una scrittrice d’origini spagnole (o meglio, italo-argentine) che avrebbe voluto provare a pubblicare il suo primo romanzo in Italia; quella volta mi prodigai per cercarle tutti gli indirizzi ufficiali e affidabili di quasi tutte le case editrici più importanti d’Italia (non tralasciando, a dirla tutta, nemmeno quelli delle case editrici più piccole o quasi minuscole).

Ora tocca a me: un mio libro, un saggio pesante che potrebbe funzionare perfettamente come sonnifero ad effetto istantaneo, è stato bloccato per il parere negativo di un “revisore anonimo” che, a quanto pare, si è preso una bella rivincita nei miei confronti perché, a quanto pare, ripeto, non l’ho citato abbastanza e, quindi, non vede come io possa proporre all’attezione del pubblico spagnolo un testo in cui i riferimenti ai suoi dotti saggi non siano assidui, fondati e sensati. Dovevo dialogare di più con i suoi saggi, non l’ho fatto, il verdetto è la bocciatura assoluta. Senza se e senza ma.

Questo stesso libro (un mattone di quasi 400 pagine) è stato elogiato da un altro revisore, anch’egli “anonimo” ed esperto nel mio campo di studi, che, a quanto pare e a quanto si sente dire nei corridoi, ha apprezzato moltissimo i miei sforzi ermeneutici e crede che il saggio meriti assolutamente di apparire in lingua spagnola e presso un importante editore spagnolo, affinché anche gli esperti dell’area ispanofila e ispanica possano apprezzare i frutti che sono riuscito a cogliere dopo anni di ricerche dotte e approfondite.

In realtà, come è evidente anche a un lettore non coinvolto direttamente nei fatti, a me questo duplice esito assurdamente speculare non dovrebbe preoccuparmi più di tanto: o almeno, non tanto da farmi venire gli incubi o da togliermi il sonno. E’ sempre stato così, da che mondo è mondo: non possiamo pretendere di piacere a tutti; non possiamo assolutamente credere che i nostri sforzi debbano essere riconosciuti da tutti allo stesso modo e negli stessi termini. Che un libro veda o meno la luce non importa poi molto, se, per dire, lo compariamo alla nascita o meno di un bambino (anche quando l’autore del libro sente di averlo “partorito” come fosse un suo piccolo, fragile, piangente “figliolo”). Che un libro finisca in stampa o nel secchio della spazzatura o del tritacarte è questione all’ordine del giorni di tutti i giorni che Dio comanda su questa Terra (penso ad Antonio Moresco, ad esempio, e ai suoi 50 o 60 o forse 70 rifiuti accumulati in quasi 20 anni di sforzi e di tentativi; oggi è Antonio Moresco, i suoi romanzi cominciano a tradurli in francese, in tedesco, in spagnolo e in inglese e qualche prof. coraggioso comincia a organizzare corsi sulla sua opera all’Università e qualche collega illustre è arrivato a dire di lui che è un “classico contemporaneo”, e roba del genere). No, quello che è sorprendente o che lascia un po’ l’amaro in bocca è constatare che, in questo mondo, il fuoco nemico è sempre attivo e all’erta, c’è sempre qualcuno che si ricorderà di te per stroncarti, ostacolarti o criticarti, magari perché tu, in una tua precedente recensione, hai stronato, ostacolato o criticato una sua amica; non c’è bandiera bianca che valga, quando qualcuno che occupa un incarico superiore al tuo si ricorda di quando tu ti sei azzardato a dire male di qualche suo collega amico.

E allora uno si rende conto del fatto che: a) non si gioca mai ad armi pari (il più potente ha un maggiore peso militare e, quindi, una maggiore capacità di abbattere colui che considera come suo nemico); b) si gioca sempre come se fossimo all’interno di una guerra costante, infinita, fatta di opinioni, recensioni, pareri, critiche, in definitiva, parole che commentano parole altrui allo scopo di dire la propria versione dei fatti e di captare quella che all’emissore di tali parole dovrebbe essere la verità.

Ma le versioni dei fatti sono inevitabilmente soggettive e la verità, semplicemente, è troppo complessa per essere definita una volta per tutte. Un libro può essere considerato, allo stesso tempo, contemporaneamente, una robaccia con cui accendere un falò o un testo d’importanza capitale per l’Umanità. E non solo: anche noi siamo relativi, nel senso che il nostro parere, o giudizio, o critica può cambiare da un mese all’altro, da un momento all’altro, a seconda dello stato d’animo, a seconda dell’autore che abbiamo di fronte, a seconda delle relazioni che pensiamo di avere con quel determinato autore (se è amico di un mio amico, beh, allora è anche amico mio e non potrò mai parlarne male).

E così va il mondo, non solo quello letterario, o editoriale, o accademico; così va il mondo un po’ in tutti i campi dello scibile umano e dei lavori umani (di sicuro c’è il muratore che criticherà l’operato di un collega più giovane o più anziano; sono certo che esistono gli idraulici che bestemmieranno vedendo i rattoppi di altri colleghi meno professionali). E quindi, alla fine dei conti, che il mio libro sia piaciuto o che sia stato stroncato non ha, in realtà, importanza alcuna, soprattutto se, un po’ filosoficamente, ci mettiamo a pensare al fatto che noi stessi siamo frutto del caso; non era scritto da nessuna parte che dovessimo nascere in quel giorno, in quella città, da quella coppia di genitori. E il fatto che alla fine lo spermatozoo di nostro padre sia riuscito a fecondare l’ovulo di nostra madre dovrebbe renderci immuni agli attacchi o alle critiche degli altri, anch’essi frutto di casi fortuiti, di incroci strambi e casuali, di sviste o incidenti di percorso.


E poi, diciamocela tutta: in questo mondo ci sono fin troppi libri; uno più o uno meno, non fa tanto la differenza. E che accada quel che deve accadere. “As you like it”, sarà la mia shakespeariana risposta alla domanda: e se poi davvero non te lo pubblicano?

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...