miércoles, diciembre 26, 2012


STORIA DI NESSUNO, OVVERO: PERCHE’ DYLAN DOG E’ UN CLASSICO


Un vecchio con la barba incolta e i capelli arruffati, vestito di stracci, e intirizzito dal freddo, cammina lentamente sotto una placida nevicata. Arrivato di fronte a un cancello, lo apre: è l’ingresso di un cimitero. Il vecchio, per tentare di scaldarsi, si inoltra lungo il sentiero che lo porta a una cappella. Si siede per terra, davanti ad una cassa da morto. E qui succede l’imprevisto, nella realtà del vecchio subentra ciò che Freud definirebbe come “il perturbante”: il coperchio della bara si solleva lentamente, è Nessuno (il protagonista della storia) a tornare in vita dal mondo dei morti e che, con il suo ritorno, provoca l’infarto del vecchio barbone.

E’ così che si apre uno degli albi “storici” (e “mitici”) di Dylan Dog, il n. 43, ovvero “Storia di Nessuno” (con la maiuscola), perché Nessuno è tutti noi e tutti noi possiamo riconoscerci (o rispecchiarci) nelle ansie, nelle paure, nei dubbi e nelle speranze di quest’uomo qualunque talmente “qualunque” da avere il nome che Ulisse adottò per sventare alle grinfie di Polifemo, Nessuno, appunto (e già qui c’è un tacito rimando al Pirandello di Uno, nessuno e centomila). Ecco, questo è uno dei motivi per cui sono ancora affascinato da Dylan Dog, un fumetto citazionista (come pochi altri in Italia) le cui storie vanno avanti a forza di citazioni (ed è per lo stesso motivo che Umberto Eco, in una storica – e anch’essa “mitica” – intervista con il creatore dell’ “indagatore dell’incubo”, Tiziano Sclavi, lo definì come “opera smontabile”, proprio perché costruita su più livelli di lettura e perché  “aperta” alle più disparate contaminazioni – in gergo tecnico, per Dylan Dog si può certamente parlare di “intertestualità” di stampo “postmodernista”).

Ma torniamo al nostro amico Nessuno. Non ricorda da dove viene e non sa dove deve andare. Fino a quando non ripete (come in un mantra) una specie di filastrocca: “Sono nato, mi sono laureato, ho trovato un lavoro, mi sono sposato, sono morto, e poi?” (da notare bene: la filastrocca verrà ripetuta anche alla fine, ma con i verbi al futuro: “Nascerò, mi laureerò, troverò un lavoro, mi sposerò, morirò, e poi?” – cito non verbatim, ma la sostanza è questa). E ripetendosi queste frasi si trova a bussare al portone di quella che era la sua casa: la moglie, spaventatissima, ci resta malissimo, non sa che farsene di un marito redivivo, anche perché, la brava donna non ha perso tempo (e si è rifatta una vita con il suo amante “storico”, oltre che miglior amico del defunto).



Cosa fare se tornassero dall’al di là i nostri cari? Dove potremmo sistemarli? Come influenzerebbero la nostra vita quotidiana? Sono queste le domande che suscitano le vignette in cui vediamo la moglie di Nessuno alle prese con chi è davvero (ontologicamente) “nessuno” (ovvero, con chi è diventato un cadavere e un nome stampato su una lapide del cimitero). Qui Sclavi potrebbe stare strizzando l’occhio a Balzac e al suo racconto lungo (o romanzo breve) Le colonel Chabert (in cui si narra di un ufficiale dell’esercito napoleonico dato per morto in battaglia e che, invece, riesce a farla franca: peccato che, quando tornerà “alla vita”, ancora innamorato di sua moglie, troverà questa tra le braccia di un altro, un conte, un uomo della nobiltà dal quale ha avuto già due figli), oppure al già citato Luigi Pirandello (e all’altro suo romanzo di “de-formazione”, Il Fu Mattia Pascal – quando tutti ti credono morto, diventi letteralmente “uno, nessuno e centomila”, o puoi adottare il nome di un altro – o auto-nominarti “Nessuno”).

Ecco, è in queste scene, quando interviene perfino l’amante, che consiglia al “ritornante” o “morto vivente” di andarsene al cimitero, di tornare lì da dove è venuto, che il lettore si commuove e parteggia per lui. Sta in queste scene la potenza della scrittura (e dell’immaginazione malinconica) di Tiziano Sclavi. E sta in queste pagine la motivazione della mia passione indefessa per un personaggio come Dylan Dog, l’eterno adolescente (“old boy” lo definisce l’ispettore Bloch) che si ferma spesso a riflettere e a mettere per iscritto, sulla scrivania del suo studiolo, accanto al famoso modellino del galeone infinito, su Vita e Morte (Eros e Thanatos), sul significato ultimo dell’esistenza, sui limiti della conoscenza umana, sui perché fondamentali…

E “Storia di Nessuno” è un capolavoro, in tal senso, perché spinge fino alle estreme conseguenze le teorie più moderne, come quella (spiegata in modo anche troppo didascalico dal “cattivo” per eccellenza, il mad doctor Xabaras – forse padre dello stesso Dylan) degli “universi paralleli” per cui: non c’è un solo Nessuno, ma esistono tanti Nessuno quanti sono i mondi che la mente di un altro può sognare o plasmare; non c’è un solo Dylan, astemio, che non fuma, che vive a Londra, a Craven Road, e suona il clarinetto, e non riesce mai a finire il galeone, e vive insieme all’assistente Groucho – sparabattute che in questo albo si supera – ma anche un Dylan dedito al whiskey, che fuma e suona il sax e ha già finito quel benedetto modellino…

Si sa, però, che un fumetto – per quanto “filosofico” voglia essere – deve basarsi sulle immagini; i fumetti sono come film muti e il disegno gioca il ruolo principale. In “Storia di Nessuno” troviamo all’opera Angelo Stano che, a mio modesto parere, è uno dei disegnatori più bravi della serie (oltre che l’autore di tutte le copertine ultime di Dylan Dog). E a proposito dei disegni, è davvero notevole la capacità che ha il fumettista di trasportarci in un’altra dimensione; oltre che di “spostarci” da un mondo all’altro, nel giro di un paio di tavole. La teoria della relatività einsteniana e quella dei “multiversi” viene qui resa visivamente con una serie di salti spaziali e temporali che possono certamente disorientare, ma che riescono anche ad affascinare il lettore, catapultato in una serie di abissi, o voragini, di cui non si riesce a vedere la fine…

In una bella intervista reperibile su YouTube, Tiziano Sclavi dice che “Storia di Nessuno” è un albo folle, che non saprebbe riscriverlo nello stesso modo e che, ancora oggi, non sa bene cosa avesse voluto dirci con questa storia…

Io sostengo che se Dylan Dog rimarrà nella storia del fumetto italiano (ed europeo) è anche grazie a storie come questa, in cui perdersi è un piacere, per gli occhi e per la mente.

P.S.: in questo albo, e a proposito di vertigini visive, c'è uno degli "zoom" all'indietro più vasti della storia del fumetto (credo): dalla stanza in cui chiacchierano Xabaras e Dylan Dog, a Londra, alla visuale panoramica dall'alto dell'Europa, per poi allargarsi ancora di più, salire ancora più alto, fino a contemplare il sistema solare e la Via Lattea... (nemmeno Stanley Kubrick ha osato tanto in 2001: A Space Odissey).

sábado, diciembre 22, 2012

E' Natale e siamo tutti più buoni... (io non direi)




E così, senza quasi accorgercene, non solo il mondo non è finito, come invece prevedeva la famosa profezia dei Maya, ma tutti insieme siamo arrivati alle soglie di un altro Natale, e lo si sa, ormai, è una sorta di ritornello, a Natale siamo tutti più buoni.

Se c'è però una cosa che mi urta i nervi è proprio il buonismo e l'ipocrita atmosfera da "volemose bene" legati a questa festività. Io personalmente mi dissocio e ne approfitto sempre per peccare il più possibile, per trattare male i familiari, per andare, un minimo, in controtendenza (forse ha ragione quella cara amica - e collega - che sostiene che io sia "anarchico dentro").

E così, anche quest'anno, in questi ultimi giorni dell'anno, approfitterò delle meritate vacanze natalizie per isolarmi dal mondo esterno, prendere a parolacce tutti i consenguinei che si azzarderanno ad invitarmi a giocare a carte o a tombola a casa loro, per peccare di lussuria nei modi più strambi e arzigogolati possibili, per spegnere la tv ogni volta che vi farà la sua apparizione Benedetto XVI e per riguardarmi i migliori film horror, gore, splatter e porno della stagione (Annette Schwartz, oh, Annette Schwartz, che mattacchiona che è questa attrice-regista tedesca che ne sa davvero una più del diavolo; vorrei scrivere un racconto su Annette, ma come si fa? Bisognerebbe avere la stessa fervida immaginazione di James Joyce quando inviava le sue lettere "erotiche" a sua moglie, povera Nora Barnacle, cosa ha dovuto sopportare in vita, quella porella...).

E non me ne frega niente dei regali. Non ne farò né mi farà piacere riceverli. Tanto, a che servono? Solo a occupare spazio (a meno che uno non si fa furbo e li ricicla al volo).

Gli unici parenti che andrò a visitare saranno i miei nonni; sono perfetti se uno vuole suicidarsi o pensare al peggio, hanno il dono di trasmetterti l'ansia, la paura e l'angoscia esistenziale, sono dei maestri in quanto a pessimismo cosmico ("non c'è nemmeno una notizia buona da darti, caro mio", questo fu il prologo del discorso di mio nonno il Natale scorso - e mia nonna, giusto per rincarare la dose: "Io quando mangio penso sempre a voi, voi ce la fate a mangiare? Ci arrivate a fine mese con quel poco che guadagnate? Ah, che sacrifici! Ah!").

E poi spegnerò la luce e resterò a lume di candele fino a notte fonda a leggermi i diari di John Cheever (Una specie di solitudine - Milano, Feltrinelli, 2012 - contiene pagine memorabili, notevoli, sorprendenti, davvero liriche su chi siamo, su Roma, su come ci percepiscono gli americani, sul matrimonio, sui rapporti sentimentali in generale, sui figli, sull'amore, sulla follia, sull'alcolismo, sulla bellezza) e a domandarmi anch'io, con lui, se la solitudine non sia, in fondo, l'unica condizione che ci permette di ascoltarci, e di capire chi siamo, e di trarne le dovute conclusioni: nasciamo soli, moriamo soli.

E' Natale, sì, e siamo tutti più buoni... certo, come no...

miércoles, noviembre 28, 2012


Stanley Kubrick e me, di Emilio D'Alessandro, ovvero: come vivere (e sopravvivere) accanto a un genio



Comprato quasi per caso presso l'ex MelBookStore (attuale IBS) di Via Nazionale, Stanley Kubrick e me (il sottotilo esplicita: “Trent'anni accanto a lui. Rivelazioni e cronache inedite dell'assistente personale di un genio”, Milano, Il Saggiatore, 2012) è un libro che mi ha profondamente colpito e divertito ed emozionato...

E' una sorta di diario di bordo, redatto da Filippo Ulivieri (esperto kubrickiano di lunga data e responsabile dell'ArchivioKubrick sul web – mai sentito parlarne prima, dovrò farci una capatina) e “dettato” allo stesso Ulivieri dall'eroe (o anti-eroe?) protagonista Emilio D'Alessandro, destinato a diventare l'amico più intimo, l'aiuto indispensabile, la spalla su cui piangere, il tuttofare disponibile 24 ore su 24, l'assistente più tartassato, oltre che quello più rispettato, del regista di Arancia Meccanica.

Come non provare subito simpatia per uno come D'Alessandro? Fuggito da un paesino nei pressi della natia Cassino nel 1960 in Inghilterra per evitare il servizio militare obbligatorio, fa vari lavoretti per poter sopravvivere insieme alla moglie, Janette, e ai figli piccoli. Coltiva la sua passione per le auto da corsa, fino a quando non viene contattato da tale Stanley Kubrick, che lo assume per fargli fare l'autista personale (quello che, per intenderci, è chiamato a scarrozzare i vari attori chiamati a partecipare nei film del regista americano dall'aeroporto di Londra alla tenuta che lo stesso si costruisce nella periferia più verde e isolata dell'Impero Britannico).

Emilio D'Alessandro non sa che pesci pigliare: non ha particolare esperienza nel campo del cinema, non sa nemmeno bene di preciso in cosa consista il lavoro del regista cinematografico. Ma comincia a stare bene, accanto a quest'uomo corpulento e dalla barba folta che, di media, impiega un paio d'anni per documentarsi sul film in corso e ce ne mette altri 2 per portare a termine il progetto finito...

Stanley Kubrick e me è, quindi, anche questo: il racconto in prima persona di una gran bella amicizia, quella tra Emilio e Stanley, ed è, al contempo, il racconto che consente a noi lettori aficionados di “entrare” nel dietro le quinte della vita di un genio, con tutte le sue debolezze e idiosincrasie, con tutti i tic che lo rendono, appunto, una persona “geniale” (o “fuori dalla norma”).

Sono innurevoli gli anedotti di vita vissuta che potremmo citare; a me sono rimasti in mente quello che riguarda Viviane (una delle figlie di Kubrick), giovanissima regista intenta a riprendere il papà mentre gira Shining (e Kubrick la sgrida – sia perché intralcia il suo lavoro con gli attori sia perché... sta usando lenti a suo parere sbagliate! Kubrick voleva avere l'ultima parola sempre e comunque, perfino nelle scelte della figlia aspirante regista!) e quello che riguarda la scena del ballo con cui si apre Eyes Wide Shut. Emilio è chiamato, in questo caso, a dare una mano e a ballare accanto a una delle modelle figuranti per permettere a Stanley di “calcolare” al centimetro la giusta distanza tra Nicole Kidman, Tom Cruise e gli altri attori del set e la famosa “steady-cam”. Dopo 3 ore di ballo, Emilio D'Alessandro non ce la fa più, cede la modella a un altro e sbotta, non prima, però, di averci confessato che quella è stata una delle serate più belle, serene e piacevoli passate in compagnia dell'amico regista.

Genio e follia; genio è follia. Emilio D'Alessandro ci mostra il volto umano (a volte, umanissimo) di un regista che, se agli occhi dei media è sempre apparso come una sorta di “orco cattivo” o “orso solitario”, agli occhi dei futuri lettori di questo diario di viaggio riuscirà ad apparire per quello che era in realtà: un uomo pieno di ansie, di paure, di ansia da prestazione; uno che non voleva mai deludere il suo pubblico e che, pur di fare buoni film, era disposto a tutto, anche a ribaltare un'intera casa, anche a disturbare il buon vecchio D'Alessandro alle 3 del mattino (per chiedergli, magari, soltanto: “Dove sono i miei calzini?”).

Il libro è “impreziosito” (come si dice in questi casi – sembra proprio una pubblicità, sta recensione) da un bel po' di foto inedite di Kubrick, del suo “entourage” e dei set dei suoi film più famosi (e queste foto fanno impressione, perché – pur essendo solo fotografie – riescono a “bucare” lo schermo della memoria e a riattivare nello spettatore le scene dei film cui alludono).

domingo, noviembre 25, 2012


Da un po' di tempo


E' da un po' di tempo che non aggiorno questo blog (quasi 18300 pagine visitate, inizio ad avere un po' paura e non riesco proprio ad immaginare chi siano i miei "potenziali" lettori... continuo a constatare che i "post" preferiti e più letti sono quelli dedicati al "cinema" - e io che pensavo di poter puntare tutto sulla "letteratura", vabbè... e vabbè pure che con la "letteratura", o meglio, con le cosiddette "humanae litterae" - o anche "studia humanitatis"  - ci campo, almeno fino ad oggi...).

Dicevo: è da un bel po' di tempo che non aggiorno il mio "diario di bordo" (di un "bordeline") e ce ne sarebbero di cose da annotare, appuntare, o su cui discettare, riflettere, pensare...

Un pensiero fisso, da un mesetto circa a questa parte, concerne però le donne... Quelle che ho conosciuto, quelle che frequento ogni giorno, oltre che quelle che mi piacerebbe conoscere per farci (magari) che ne so una famiglia (dei figli, per dire)... Le donne (in quanti "post" parlo di voi, donne?).

E pensa che ti ripensa, mi è venuta in mente una frase, che ho messo nero su bianco, e ho cercato di trasformare in algoritmo (che ci sia riuscito, beh, questo è - come suolsi dire - un altro bel paio di maniche).

E dunque, le donne ("male necessario" per noi maschi, secondo alcuni; "bene prezioso" per me che senza di loro sarei perso, o non sarei ciò che sono - un uomo, con tutti i limiti e i difetti che il termine "uomo" implica; un amante, schiavo di certe debolezze, affascinato dal corpo femminile, e da certe parti dello stesso; un compagno di avventure, cui confidare i propri segreti più nascosti e che ama confidare a certe donne i propri segreti più inconfessabili). Ecco, questo è l'algoritmo (piuttosto sciocco e strampalato, come sono io ultimamente):

"Le donne con me sono come le altalene: ridono, piangono, si disperano, gioiscono, fanno piani per il futuro e poi sposano qualcun'altro. Delle due l'una:o sono io che le faccio schizzare o è che attiro solo le altalene. O ancora un'altra ipotesi (la più inquietante): sono io l'altalena e loro salgono su per farsi un giro..."

E ciò detto, rimando a una prossima puntata le riflessioni pseudo-seriose su "cinema" e "letteratura"...

lunes, octubre 29, 2012




Guarda gli arlecchini!... e reinventa il mondo!



Immaginate... Immaginatevi di leggere l'autobiografia di uno scrittore famoso che sembra (ma non è) Vladimir Nabokov... Immaginate anche che questo scrittore finga di chiamarsi Vadim Vadimovic e che abbia alcune delle principali idiosincrasie dell'autore di Ada o ardore... E immaginate anche che il sunnominato Vadim Vadimovic scriva per tentare di esorcizzare una specie di malattia mentale (o tic nervoso) che assomiglia in modo preoccupante alla schizofrenia... Immaginate uno che non riesce a fare dietrofront – dopo aver percorso una strada da un punto A ad un punto B – perché ha seri problemi a concepire e percepire lo spazio in termini obiettivi, fisici, spaziali, appunto (confonde costantemente lo spazio con il tempo). Ecco... ci siamo quasi: siamo vicini alla trama (ma non ancora al nocciolo, all'essenza nascosta, al nodo essenziale) dell'incredibile Look at the Harlequins! (o anche: “Guarda gli arlecchini!”, tr. it. a cura di Franca Pece, Milano, Adelphi, 2012), romanzo tra i più sconcertanti e originali e lirici tra quelli pubblicati dal Nostro (la prima edizione uscì in America nel 1974 – dopo il successo planetario di Lolita – che, nel frattempo, nel 1962, era già diventata un film per la regia di Stanley Kubrick).

Da dove nasce il titolo? Da una frase che la balia-insegnante d'inglese soleva rivolgere al piccolo ancora in fasce (o in procinto di fare il suo ingresso nel mondo degli adolescenti):

Smettila di tenere il broncio!”, gridava: “Look at the arlequins! Guarda gli arlecchini!”.
Quali arlecchini? Dove?”.
Oh, dappertutto. Tutt'attorno a te. Gli alberi sono degli arlecchini, le parole sono degli arlecchini; anche le situazioni e le addizioni. Metti assieme due cose – due arguzie, due immagini – ed eccoti un arlecchino triplo. Avanti dunque! Gioca! Inventa il mondo! Inventa la realtà!” (id., pp. 22-23).

Ecco: è in questo imperativo categorico della balia che troviamo parte (non tutto!) dell'essenza della scrittura nabokoviana, qui portata all'ennesima potenza, sviluppata con mille capriole, mille arguzie, mille battute umoristiche e con quello stile prezioso, mai lezioso, elegante, sempre originale che è lo stile di Nabokov...

Guarda gli arlecchini! è il romanzo in cui Nabokov reinventa la sua stessa vita (fino al 1974) e reinventa la realtà, fingendo d'essere un pazzo furioso che ama le donne, si sposa tre volte, per tre volte le tradisce e coltiva la passione lussuriosa dell'amore per le ninfette... oltre alla passione smodata per la letteratura, la sua, quella che non rispetta le leggi della verosimiglianza (“la verosimiglianza è stata la rovina di molti correttori di bozze scrupolosi” commenta a un certo punto a p. 136 in una parentesi) e che tenta costantemente di guardare oltre la superficie, di coltivare il dettaglio (il “divino dettaglio”) e di stimolare costantemente l'intelligenza del lettore, al di là della trama, al di là della possibile, potenziale conclusione (Guarda gli arlecchini! non finisce col punto finale, ma ricomincia esattamente nel punto in cui sembra finire per sempre, obbligando il lettore curioso a ripercorrere daccapo la traversata appena conclusa).

Sono moltissime le scene che si potrebbero citare per avallare questa ipotesi; mi limito a citarne soltanto una, perché, a mio modesto giudizio, contiene gran parte di quella magia, di quell'erotismo, di quell'umorismo, di quell'ironia, di quella poesia che rendono unica la scrittura di Nabokov: Vadim è in riva al mare, sta per fare la sua dichiarazione di matrimonio all'ennesima amante, lei è giovane e bella, anche se un po' troppo timida. C'è molto sole, quel giorno, sulla spiaggia. E molta gente nei paraggi. Ecco i due piccioncini... nell'atto di comunicarsi il grande amore (e di farsi promesse che durano una vita):

Iris, devo farti una confessione che riguarda la mia salute mentale”.
Aspetta un momento. Devo abbassare quest'antipatica... fin dove... fin dove la decenza lo consente”.
Eravamo distesi sul pontile, io supino e lei prona. Si era strappata via la cuffia e lottava con le spalline del costume da bagno umido per abbassarle ed esporre al sole l'intera schiena nuda; una lotta supplementare si stava svolgendo sul lato sinistro, in prossimità dell'ascella tenebrosa, nel vano tentativo di non mostrare il candore di un piccolo seno là dov'era la delicata giunzione con le costole. Non appena ebbe raggiunto, a forza di contorsioni, uno stato di decoro soddisfacente, si sollevò a mezzo busto trattenendo contro il busto il corpetto nero, mentre con l'altra mano frugava nella borsa con quell'agilità deliziosa, simile alle grattatine fra scimmie, tipica delle ragazze quando cercano qualcosa a tastoni [...]” (id., p. 54).

Ecco. Immaginate il biancore di quel piccolo seno; immaginate il movimento flessuoso del corpo di quella ragazza in riva al mare. E immaginate l'amore, la passione, l'eros che sprizza dagli occhi del ragazzo che le è accanto e che, tra poco, le chiederà se vuole sposarlo... a dispetto delle malelingue, e della malattia mentale che non gli permette di avere un buon rapporto con lo spazio... Immaginatevi la scena... E' facile, si può fare, quando a scrivere è uno come Nabokov...

Guardate gli arlecchini! è un romanzo sulla possibilità che abbiamo tutti di reinventarci la realtà attraverso la scrittura e la letteratura; è un romanzo su chi ancora si stupisce a collegare due o più parole anche distanti anni luce tra di loro e che, attraverso questo collegamento casuale, riesce a scoprire la bellezza dietro la bruttezza o la piattezza della vita di tutti i giorni; è un romanzo sulla tragicità della vita umana (“la morte è stupida, la morte è degradante” si dice a p. 264, verso la conclusione del libro) e sulla comicità insita nel nostro tentativo costante di renderla meno brutta... E' un romanzo che ci fa immergere completamente nel mondo pieno di arlecchini di quel burattinaio folle che fu Vladimir Nabokov... Ed è un romanzo che, una volta letto, spinge alla rilettura, perché si è vagamente coscienti del fatto che qualcosa di prezioso, di decisivo, ci è sfuggito, che dobbiamo stare attenti, e aprire bene gli occhi, se vogliano riconoscere i mille arlecchini che ci danzano attorno... Insomma, è un altro grande capolavoro targato V.N....

miércoles, octubre 03, 2012


L’amore molesto, di Elena Ferrante: l’amore è (sempre) molesto, quando non si fanno i conti col passato



Ma che bel romanzo, questo romanzo! Ma che libro coinvolgente, che scrittura cristallina si respira ne L’amore molesto della misteriosa (perché forse pseudonimo dietro cui si celerebbe un autore maschile e perché di “lei” non si hanno foto) Elena Ferrante, esordiente dalle doti già ben evidenti sin da questa prima prova letteraria (Roma, e/o, 1996 – ma la prima ed. risale addirittura al 1992).
L’amore molesto ci parla di un tema antico come il mondo (greco-romano, da cui deriviamo): il contrasto, la lotta sotterranea e a volte esplicita, la competizione subdola e a volte implicita, le molteplici e assurde incomprensioni, la guerra giornaliera tra una madre (Amalia) e una figlia (Delia). L’una (Delia) viene a sapere della morte dell’altra (Amalia): Amalia è affogata mentre faceva un bagno nuda (o semi-nuda – è stata ritrovata con addosso soltanto il reggiseno), di notte, in un tratto di mare poco lontano da Minturno, in un luogo che si chiama poeticamente “Spaccavento”. Delia decide di tornare a Napoli, di abbandonare temporaneamente Roma, per andare a parlare coi pochi parenti che le sono rimasti (lo zio Filippo, la vicina di casa e amica della madre la signora De Riso, un vecchio amante e forse complice di Amalia che risponde al nome di Caserta) e toccare con mano quel passato che, invano, ha tentato di reprimere o di ignorare fino a quel momento della sua vita di adulta.

Delia torna a Napoli per fare i conti con il passato che ritorna e con quello strano sentimento d’amore e odio che l’ha (da sempre) legata ad Amalia. E il lettore ne segue i ragionamenti oscillanti, le passeggiate inquisitive, gli incubi ricorrenti con empatia e interesse… L’amore molesto potrebbe essere scambiato anche per un romanzo giallo, di fatto, qui sì che c’è (o ci potrebbe essere?) un colpevole (o un assassino?) e un testimone che sa e che potrebbe fare luce su quell’incidente (o morte) per acqua…

Due sono le cose che colpiscono di più: a) la descrizione di Napoli, città magica e spettrale, una specie di Macondo pericolosa e piena di minacce, trasfigurata e disegnata come se fosse un acquarello sbiadito di tanti anni fa, o inquadrata come se si trattasse del set di un film iperrealistico (e non è un caso che uno come Mario Martone decise a suo tempo di trarne l’omonimo film con una splendida Licia Maglietta nel ruolo di Amalia da giovane e una bravissima Anna Bonaiuto in quello della protagonista – il film è del 1995, se non erro, ed io lo vidi quando ancora esisteva “Tele+”); b) lo stile peculiare, sinuoso, fascinoso, a tratti surrealista, che adotta l’autrice (diamo per buono che sia una donna – sul mistero legato ad Elena Ferrante cfr. anche Domenico Starnone, Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, Torino, Einaudi, 2011 – di cui ho parlato in queste stesse pagine di diario di bordo).

Mi soffermo sul punto b) perché su Napoli sarebbero davvero tante, troppe, le cose da dire. Lo stile della Ferrante, dunque… Uno stile che è fatto di precisione millimetrica nel rappresentare gli oggetti della realtà quotidiana e di andamento lirico, quasi “proustiano”, nella rievocazione di quella realtà… Come quando Delia entra in casa della madre e pensa che il fantasma della stessa aleggi ancora nell’aria, tra le mura e le lenzuola delle stanze che sanno di chiuso… E si accorge che cola acqua dal rubinetto, una goccia (lenta) dopo l’altra… E si ricorda di quanto Amalia ci tenesse a risparmiare su tutto, sul pane (che non si butta mai) e sull’acqua (che non si può sprecare):

 “Usava l’acqua con una parsimonia che si era trasformata in riflesso del gesto, dell’orecchio, della voce. Se da ragazza lasciavo anche solo un silenzioso filo d’acqua, teso verso il fondo del lavandino come un ferro da calza, un attimo dopo mi gridava senza rimprovero: “Dalia, il rubinetto”. Mi sentii inquieta: aveva sprecato più acqua con quella distrazione delle ultime ore di vita, che in tutta la sua esistenza” (id., p. 28).

E già qui uno si alza in piedi e farebbe un applauso all’autrice. Ma il periodo continua con la frase seguente:

“La vidi galleggiare a faccia in giù, sospesa al centro della cucina, sullo sfondo delle maioliche azzurre”.

E qui uno si risiede, mezzo tramortito, e pensa che la Ferrante si meriterà tutta la nostra attenzione fino al finale (si spera) risolutore…

Il romanzo è attraversato in lungo e in largo (dalla prima all’ultimissima riga) da una costante oscillazione armonica tra passato e presente; potrei citare le mille immagini che evocano nel pensiero di Delia i tessuti che Amalia confezionava per i vestiti di clienti più o meno facoltosi e più o meno attratti sessualmente da lei…

Il romanzo è “proustiano” proprio perché s’impegna (e s’ingegna) a riflettere su questo enigma insolubile che è il tempo (insolubile perché – finché siamo in vita – ci siamo immersi – come Amalia nell’acqua di Spaccavento).

Il romanzo fa riflettere sul tempo perché ci colpisce con frasi come queste:

“Quante cose attraversano il tempo staccandosi fortunosamente dai corpi e dalle voci delle persone” (id., p. 93)

“L’infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all’imperfetto” (p. 165)

“Dire è incatenare tempi e spazi perduti” (p. 169).

E a uno non può non venire in mente Marcel Proust, che col suo “dire” non solo riesce a incatenare tempi e spazi perduti, ma anche a resuscitare il tempo (passato) che fu, con la memoria involontaria (anche se l’oblio ha una funzione altrettanto importante, rispetto al “ricordare”).

E uno allora capisce anche questo: che Elena Ferrante ci insegna che l’amore è (sarà sempre) molesto, fino a quando non si fanno i conti con il passato, fino a quando non ci si riappacifica con quello che siamo stati e con quello che abbiamo fatto…

sábado, septiembre 15, 2012

Attualità (italiana)



Fa sempre un certo effetto tornare a casa, dopo quasi 2 mesi di vita all'estero. E' strano, ad es., ascoltare il tg in italiano, quando fino a poche ore prima lo si ascoltava sempre e solo in spagnolo. E' strano anche constatare come le giornaliste - volti noti da anni e cui siamo abituati così tanto, ormai, da non notarli più - invecchiano pure loro, la pelle più scura e cascante, le rughe più accentuate sulla fronte, i capelli biondi sempre meno biondi, le borse sotto gli occhi (e uno si domanda: ma se invecchia Cristina Parodi nel giro di 2 mesi, allora anch'io sto invecchiando, anche se non me rendo conto). Ed è strano vedere come siamo un paese veramente assurdo, in cui si vive tranquilli in mezzo al caos; in cui, ormai, siamo abituati a convivere col caos, come fosse del tutto normale (un esempio molto banale: l'autista del pullman che fa il tragitto dall'aeroporto alla Stazione Termini... Se gli chiedi a che ora parte: "Quanno s'ariempie, nun vede i cinesi che coreno? Appena ariveno, se n'annamo"; e alcuni tedeschi restano sconvolti a vedere come guida in mezzo al traffico, mentre gli spagnoli si piegano in due dalle risate a vederlo parlare al cellulare con sua moglie "Sine, t'ho detto sine, nun te preoccupà che pe ora de cena sto là!", e alcuni americani restano a bocca aperta a sentirlo strombazzare col clacson contro quelli fermi in doppia o tripla fila...).

E' strano vedere come non sia cambiato nulla nella politica italiana (è pur vero, però, che da quando c'è Monti siamo considerati un paese più serio, l'Italia ha riacquistato credibilità all'estero proprio grazie al Prof. Monti - per non parlare di Mario Draghi): c'è Matteo Renzi (il sosia di Mr. Bean, nonché sindaco di Firenze) che "scende in campo" per le primarie del PD con lo slogan (molto originale) "Adesso!" (con tanto di punto esclamativo) per dire basta alla politica dei vecchi, basta alla gerontocrazia, avanti i giovani (lui ha 37 anni), avanti il futuro, avanti l'innovazione e mentre parla mi sembra di ascoltare Berlusconi; c'è ancora Berlusconi, che ogni tanto si sveglia la mattina e dice che si ricandida anche lui, che cribbio! Vestito completamente di nero, prova a nascondere la stanchezza davanti alle telecamere, e mi fa effetto, sembra davvero uno zombie, il fantasma (o la caricatura) di se stesso, un vecchio che non si rassegna all'approssimarsi della morte; e c'è pure Bersani ("Non chiedetemi di fare accordi con Berlusconi, no! Io non ci sto!"), che quando parla davanti alla platea dei suoi fedelissimi e suda fa quasi tenerezza... E ci sono (purtroppo, ancora) gli operai che scioperano o che protestano, che bloccano le fabbriche che inquinano e spargono aria velenosa che fa venire i tumori... E ci sono storie che rasentano il grottesco, come quella del ragazzino che muore per colpa di un vaso caduto accidentalmente da un balcone (forse è stato il gatto che ha smosso il tutto provocando, ignaro, una tragedia immane) e qualcuno si domanda quale legge bisogna inventarsi per mettere un freno a tanti vasi esposti su tanti balconi di tante case italiane piene di fiori... E c'è ancora il Papa (che va in Libano) e mezzo mondo arabo (se non tutto) che s'incazza per un film blasfemo in cui si offende a morte Maometto e qualcuno prende spunto per dare fuoco alle ambasciate americane sparse sul territorio... 

Nel fare zapping finisco su un canale cattolico (o di stampo cattolico) in cui la bella e prorompente Caterina Balivo presenta un programma in diretta da Piazza del Plebiscito a Napoli in cui si elogia la famiglia "tradizionale" composta da padre, madre e figli... Tanti figli, sembra più che altro la sagra delle famiglie numerose e sento questa frase (pronunciata senza un filo di vergogna, senza un attimo d'esitazione dalla stessa presentatrice giuliva): "Voi siete la dimostrazione del fatto che Dio c'è, esiste, e da lassù, dall'alto, ogni tanto, ci protegge; anche se c'è crisi, voi avete 4 bambini e sono tutti sani"... E mi viene da ridere per l'uso che la Balivo fa dell'avverbio di tempo "ogni tanto" (come se Dio facesse il suo dovere - e porgesse il suo aiuto provvidenziale - solo a tempo determinato, o solo quando se ne ricorda)...

E insomma, l'Italia continua ad essere l'Italia che ho lasciato e io continuo a sentirmi italiano non troppo orgoglioso d'essere italiano, anche se apprezzo le cose che noi soli sappiamo fare bene (e guardo una pubblicità di "Italo", il nuovo treno di Montezemolo - ma scende o non scende in campo Luca Cordero? - e, a parte il nome, ne apprezzo il design, siamo sempre stati dei geni in quanto ad arte, architettura, disegno, forme plastiche, pittoriche, scultoriche... La "Bialetti" poteva essere solo invenzione d'un italiano... E così pure per ciò che concerne la moda e la "Vespa", e così pure per i grandi capolavori dell'arte universale che abbiamo sotto gli occhi - e a volte, proprio perché ci li abbiamo così sotto gli occhi, li ignoriamo e ce ne dimentichiamo, non rendendoci conto del fatto che se perdiamo quelli perdiamo quasi tutto... Ma tanto, in Italia, si sa, con la cultura "nun se magna"... che crolli pure Pompei, che crolli pure il Colosseo, i cervelli continueranno a darsi alla fuga verso l'estero...

sábado, septiembre 08, 2012

Accumulare anni...


8 Settembre e, per la prima volta, festeggio il mio "cumple" a Madrid... Città fantastica (come ho più volte esternato in questo blog, e come sanno bene le mie 3 o 4 lettrici fisse), in cui riesco a lavorare, a leggere, a studiare, a correre, a fare l'amore (o non sarà solo sesso?), a divertirmi, a ballare, ad andare al cinema, al teatro, ai musei e, infine, a "perdere tempo", come in nessun'altra città (al mondo) di mia conoscenza...

35 anni... e uno si domanda: "Sono cresciuto?". E si risponde (come ieri sera, in compagnia di Tere, dopo una simpatica, deliziosa e "opportuna" canna d'erba): "No, mi sento ancora 17 anni, massimo 18, e tu?". Tere mi sorride d'un sorriso tenero e dice: "No, 17 o 18 io no, ma 20 sì, sai, subito dopo la fase dell'adolescenza, quando cominci ad avere più chiaro in testa quello che vuoi dalla vita - l'adolescenza è un caos perché vuoi tutto e niente, non hai ancora un progetto preciso fisso in mente, ne hai mille, per questo ci si perde, nell'adolescenza - e cominci a capire anche meglio di che pasta sei fatto, chi sei, quali sono i tuoi gusti, quali i tuoi tics".

Ore 17:29 del pomeriggio: 30 gradi all'ombra e, mentre tento di riprendermi dalla sbornia di ieri sera, ascolto la stupenda colonna sonora del film Little Miss Sunshine. Ci sono 2 canzoni che mi fanno venire la pelle d'oca, se le associo alla mia ex (o alle mie ex, in generale), e sono: Chicago e Till the end of the world. Non conosco gli autori, non so chi le canta, ma sono due pezzi d'una tristezza e d'una malinconia e d'un romanticismo assoluti... da brividi...

35 anni, ci si avvicina alla soglia (quante soglie ci sono in questa nostra piccola-povera-vita?) dei 40 e uno si sente ancora un "eterno adolescente" e non sa, non capisce, se è un bene o un male, se è normale... 

Tere mi passa un bicchierino di limoncello. E' quello fatto in casa, glielo manda la mamma dall'Italia. Lo assaggio e, in effetti, sa di limoncello, non è roba chimica, non è un prodotto da supermercato (qui a Madrid, tra l'altro, non sarebbe affatto facile trovarlo, al supermercato - idem per il basilico, la mozzarella e altri cibi italiani doc). "Allora, domani sera cosa fai? Dove si va a festeggiare?".

Sono le 17:35 e ancora non so dove diavolo andare a festeggiare (a Madrid c'è una varietà impressionante di posti in cui darsi appuntamento con gli amici e bere e mangiare e chiacchierare e ridere a crepapelle). Ancora non lo so. E intanto, provo a riprendermi dalla sbronza... Ascoltando canzoni che fanno venire da piangere. 

35 anni... e tutta una (mezza) vita ancora (davanti) con cui fare i conti (sempre stato scarsissimo in matematica)... Accumulare gli anni per fare (sempre) più esperienza della validità del motto socratico: "So di non sapere"...

miércoles, agosto 29, 2012


Sesso anale (con le varie ed eventuali)



A Madrid capitano le cose più strane (anche se credo che questa frase possa applicarsi anche ad altre città e continuare ad essere valida anche se la si rapporta a Parigi o a Roma, a Santiago de Compostela o a Lodi, a Palermo o a Poitiers, a Waterloo o a Canterbury... e così via discorrendo). 

Correggiamoci, dai: a Madrid a me capitano le cose più strane. Come andare in Biblioteca Nacional e imbattersi in un saggio, una biografia (l'ennesima) su Proust, un bel libro antico su cui campeggia la foto (una foto rara) di Marcel da bambino (e uno si domanda, guardando quella foto: ma quant'è piccolo qui Marcel, quante cose ancora non sa - non può sapere né sospettare - del suo "io" da adulto, ancora non sa che diventerà uno scrittore e che passerà mezza vita a scrivere un libro che diventerà uno dei capisaldi - uno dei capolavori assoluti - della letteratura universale, quant'è ingenuo questo Marcel Proust, ignaro del Marcel Proust che diverrà di lì a poco...). E allora viene spontaneo far notare all'amica Selene il divario esistente tra la percezione che poteva avere di sè Marcel Proust a 13-14 anni e quella che riuscirà ad avere in età adulta. E diventa quasi automatico pensare alle proprie foto di quando si era bambini e diventa scontato pensare: "Com'ero ingenuo e sprovveduto anch'io all'età che ha Marcel Proust in quella foto su quel libro"...

E può capitare perfino di parlare di "sesso anale" con un'altra amica, spagnola, solare, allegra, una che ha un nome che mi vergogno a scrivere su questa pagina virtuale perché si dà il caso che sia anche il nome di una mia ex spagnola pure lei (una per cui ho sofferto abbastanza e in nome della quale ho sparso - a suo tempo - lacrime amare). "Sì", mi fa: "hai capito bene. Il sesso anale. Tu lo pratichi?". E a uno verrebbe voglia di ridere - come si fa tra bambini - o adolescenti - quando si parla di certi argomenti. "Beh, sì, quando capita, sì, non è proprio una cosa da tutti i giorni, non mi capita così spesso, o almeno, non tanto spesso quanto a me piacerebbe che mi capitasse". E lei, diretta: "Ok, ma ci hai mai fatto caso che cambia totalmente se ti affidi a dei lubrificanti o se, invece, e in modo molto più primitivo, ti limiti ad usare la saliva?". E uno pensa: "No, mio Dio, non ci avevo mai fatto caso: lubrificante contro saliva, due mondi, due concetti diversi dello stesso evento... Il sesso anale, che poi, a dirla tutta, è un'arte - come il sesso in sesso stretto e tout court - e va fatto sempre con arte, non si può imparare dai manuali, non c'è nessuno che te lo spiega, ci deve essere feeling e totale fiducia e abbandono tra i partner, non è una pratica così scontata, se non c'è feeling e totale fiducia e abbandono tra i partner...".

E uno si domanda anche: "Ma perché C. mi sta parlando di sesso anale? Cosa vuole dimostrare? Qual è il messaggio che vuole inviarmi?"... e mentre uno si pone di simili domande, suvvia, è normalissimo che l'occhio vada proprio lì, in basso, verso il fondo-schiena dell'interlocutrice... Non male, C., non male... Ma non capisco: "Tu sei esperta in materia?". E C., senza arrossire, senza censure: "Certo che sono esperta e in quanto esperta ti dico: meglio i lubrificanti, fai meno fatica, la donna gode di più, l'uomo entra con più facilità, ci guadagnano entrambi, lo sapevi questo tu?". 

E poi può capitare d'incontrare uno scrittore, un autore contemporaneo, che t'invita a Segovia a visitare la sua casa e a conoscere sua moglie. Un tipo strano, dagli occhi profondi e la barba bianca lunga e folta, una specie d'Omero dei nostri giorni, solo che lui non è cieco, R. M. ci vede benissimo e capisce tutto al volo, mi chiede qual è l'argomento che sto studiando in questo momento, gli spiego che si tratta dei rapporti tra Storia e Letteratura e, in particolare, del tema della Guerra Civile così come viene trattato e articolato all'interno del romanzo spagnolo dagli anni 50 fino ai giorni nostri. 

R. M. s'illumina d'immenso: "Domani ti porto il mio secondo romanzo. Parla della Guerra Civile e dei rapporti tra le vittime spagnole e le vittime dell'Olocausto; spagnoli ed ebrei come vittime di due tragedie immani, come testimoni oculari dell'orrore". E penso: "Sono fortunato, in fin dei conti, a vivere queste esperienze assurde e borderline qui a Madrid; sono fortunato a vivere a Madrid; ho una fortuna sfacciata ... anche solo a vivere, hic et nunc, finché Morte non mi separi...".

Ore 2:09 del mattino (e ancora non chiudo palpebra): arriva un messaggio sul cellulare. E' C. (quella dal culo tondo e perfetto, l'amica ossessionata dal sesso anale): "Ti va se domani mangiamo insieme a mensa?". 

Finché Morte non ci separi, C... finché avremo ancora fiato in gola, puoi starne certa...

martes, agosto 07, 2012


Madrid, un encanto de ciudad



Madrid, un encanto de ciudad, che città spettacolare (nel senso che si offre agli occhi del visitante come uno “spettacolo” da guardare ad occhi aperti, come una sorta di scenografia in cui poter girare ognuno il proprio film, come una specie di luna park sempre acceso e con la luce dei lampioni sempre al massimo, con la gente per le strade del centro e della periferia sempre pronta a sorriderti, o a scambiare quattro chiacchiere con te, o a strillarti nell'orecchio, subito dopo aver comprato il giornale: “Ah, gli italiani! A noi spagnole siete sempre piaciuti, voi italiani, così belli, così passionali!” (quando invece, da noi, sono le spagnole ad avere quella fama, donne tutto fuoco, passioni dirompenti, un'idea certamente romantica che rispecchia certi pregiudizi che fanno fatica a scomparire – anche oggi, che viviamo tutti nel cosiddetto “villaggio globale” - la frase citata supra me l'ha detta una simpatica e arzilla signorina di 74 anni). Madrid, città in cui girovagare senza meta, in cui perdersi, in cui innamorarsi, in cui chiacchierare del più e del meno con la tua amica di una vita senza fretta e senza inganni...

Selene mangia un cous cous in una vaschetta di plastica; lascia 3 piccoli pomodorini.
I pomodorini non li mangi?”, le chiedo.
No, perché mi scoppiano in bocca e mi da fastidio”.
Ridiamo come due adolescenti che hanno fatto forca a scuola.
Sono quasi 9 anni che la conosco, Selene, ed ha sempre la capacità di sorprendermi con le sue battute al fulmicotone (come quella volta che ero a cena a casa sua e andai al bagno; ci misi un po' e quando tornai nel salone, mentre guardava Titanic, mi chiese, a bruciapelo: “Scusa, ma hai cacato nel mio bagno? Hai avuto il coraggio di farlo?”. E uno si domanda: ma come fa a pensarle, certe cose, come fa a porle, certe domande...).

Madrid, città che mi trasmette una voglia di vivere così potente che mi risulta complicato addormentarmi prima delle 2 di notte (e alle 8 del mattino sono in piedi, con le occhiaie e la faccia stravolta, ma in piedi, cristosanto, pronto ad affrontare un'altra gioranta di lavoro). Una città in cui potrei passare il resto dei miei giorni (se non fosse che l'insonnia, a lungo andare, provoca la morte... O no?).

Mi ricordo che devo consegnare un articolo ad una rivista di Salamanca; devo rivederlo e correggerlo in quanto a lingua e stile. Non è mai facile scrivere in una lingua straniera (anche quando questa lingua la si frequenta da anni e in modo continuativo, come capita a me per lo spagnolo). Eppure, mi sforzo e qualcosa di buono verrà fuori, ne sono sicuro.

Madrid, città che m'infonde un ottimismo che, in generale, in Italia non ho (perché lì, nel mio paese, i problemi sono tanti e non si ha sempre la voglia o il coraggio di affrontarli come si deve; troppi ostacoli, troppa gente che non fa funzionare l'ingranaggio, troppi sgambetti assurdi, povera patria, come canta Battiato...).

E intanto aspetto che l'editore di Roma mi mandi 3 copie del mio primo saggio di critica letteraria (chi non ha mai scritto per pubblicare non sa, non può sapere, non immagina nemmeno lontamente che razza di lavoro immane è prendersi cura di un libro, revisionarlo, correggerne i refusi, rileggerlo fino alla nausea, scegliere l'immagine di copertina, decidere il titolo, impostare la pagina della dedica e quella dei ringraziamenti, strutturarne i capitoli, controllarne una ad una le note a piè di pagina, un lavoro davvero immane e assurdo e pignolo e lungo e faticoso e io mi domando: “Ma che vita fanno i correttori di bozze?”, io lo vorrei conoscere, nella vita reale, un correttore di bozze e stringergli la mano e fargli i complimenti e chiedergli: “Ma come fai? Che vita è la tua, correttore di bozze, impegnato a scovare il più piccolo errore o la più piccola svista all'interno delle pagine di un libro in procinto di essere pubblicato?”).

Sì, lo ammetto, e lo comunico anche a Selene (una delle donne più belle che conosca, una con la marcia in più perché, oltre ad essere intelligentissima e molto colta, è anche molto ironica ed autoironica), le dico che sta per uscire il mio primo saggio di critica letteraria e lei:
Ma dai, ma perché non me l'hai detto subito? Lo compro subito il tuo libro, dai, dimmi il titolo”.
E quando le faccio notare che siamo in Spagna e che il libro è in procinto d'uscire in Italia, Selene sorride e mi dà una pacca sulla spalla e poi dice che aspetterà, e che appena lo troverà su internet lo ordinerà e lo leggerà e mi dirà che ne pensa e, se ci sono, mi farà notare i refusi... da vera amica qual è...

Madrid, città cosmopolita, sempre in movimento, che induce al movimento, che spinge all'azione (qui ti viene subito voglia di andare a correre al Retiro, di andare a teatro e al cinema, di leggere 20 romanzi al giorno, di montare a cavallo, di fare un'escursione sulla Sierra, di passeggiare per il Museo del Prado o in quello di Reina Sofía, di tirare tardi ogni notte, in compagnia di bella gente e di tanta, tanta birra con tapas...).

Propongo a Selene di organizzarci per un piatto di pasta. E lei: “Ma siamo a Madrid, dovremmo smetterla di pensare alla pasta!”. E poi: “Domani prendo i pomodori buoni dal contadino. Se ti va, ti faccio una bella insalatona”. E mi viene voglia di abbracciarla, perché Selene è una maga delle insalatone, e anche l'anno scorso mi invitò a cena da lei e ne mangiammo una che è rimasta nella storia, una simpatica, enorme, nutriente insalatona.

E le dico che sì, che va bene. Prima però dobbiamo tornare in Biblioteca Nacional a recuperare i nostri rispettivi computer. E anche attraversare col rosso diventa una piacevole abitudine, perché quella matta di Selene non ce la fa proprio ad aspettare il verde, è da quando viene a Madrid che attraversa col rosso, e se ne frega che qualche automobilista la mandi a quel paese, lei sorride e va dritta per la sua strada, Selene sorride e mi fa cenno di affrettarmi ad attraversare la strada, senza paura e senza remore... dai, forza!

domingo, julio 22, 2012


Amore e (come sempre) altre catastrofi (naturali e non)



  1. Quando si viene invitati a un matrimonio e si accetta di parteciparvi in quanto amici dello sposo e si da il caso che ci si presenti all'evento da single, si avverte sempre la strana sensazione di essere degli “esclusi”, degli “estranei”, dei “poveretti”: il tuo amico e coetaneo convola a felici nozze, e si appresta a mettere al mondo 3 o 4 bambini (entra, di diritto, nel mondo degli adulti), mentre tu continui a sollazzarti con la prima che passa e fai vita da studente pur essendo un adulto, un professore, per giunta, uno che ha smesso da svariati anni di studiare e che, ora, si ritrova (spesso) dall'altra parte della cattedra, dalla parte di chi ha in mano il microfono e parla alla platea variegata dei variegati studenti (più o meno annoiati, più o meno attenti).
E tutto, ma veramente tutto, ci si può aspettare, nel corso di un pranzo di matrimonio (uno di quei pranzi megagalattici che cominciano alle 14 e finiscono alle 8 della sera), tranne che di ricevere la telefonata della propria ex, pochi minuti dopo aver parlato della ex con la tua amica del liceo con cui sei rimasto in contatto e in buoni rapporti, nonostante i molti anni trascorsi (la tua amica è fidanzata, pure lei, ma ha avuto il buon gusto di presentarsi da sola, così non fai la figura dello sfigato single tra coppie d'innamorati già convolati – o sul punto di convolare – a nozze; anzi, c'è perfino il padre dello sposo che vi chiede se, dopo tanti anni, vi siete fidanzati, visto che al liceo eravate sempre insieme, sempre a ridere e a parlare, e voi dovete spiegargli che no, che non siete fidanzati, che lei ha il ragazzo che è rimasto a Roma, oggi, e che tu non hai ancora la fidanzata, non una fissa e costante, almeno, non ancora...). E insomma, è davvero strano e incredibile che, pochi secondi dopo aver parlato della tua ex con la tua amica più cara ai tempi del liceo, ti chiami la tua ex per dirti che (reggiti forte): si sposa, sì, hai capito benissimo, si sposa, con il ragazzo con cui convive da 6 mesi, perché lui, a differenza tua, ha chiesto la sua mano, le ha chiesto di sposarsi dopo appena 6 mesi di convivenza... molto più sicuro dei suoi sentimenti, lui, per niente dubbioso, lui, assolutamente convinto dell'amore che prova per lei, lui, non come te, che hai rinunciato alla tua ex per sempre, che l'hai rifiutata, che hai avuto il coraggio di lasciare e abbandonare a se stessa, lui la sposa e lei te lo dice perché – sostiene – ti rispetta e ti considera come una delle persone più importanti della sua vita, e tu non sai cosa dire, e lei si mette a piangere, perché per lei tu sei davvero una delle persone più importanti della sua vita, non ci sono santi né cristi, tu sei importante per lei, talmente importante che lei arrivò perfino a chiederti di sposarla e tu rispondesti picche, dicesti che non ti sentivi sicuro e ora non sai come prenderla, ti manca il terreno sotto i piedi, ti tremano le gambe, la tua amica dei tempi del liceo ti chiede se stai bene, ti siedi e continui ad ascoltare il lento e pacato pianto di lei, e ti chiedi che senso ha tutto ciò: lei si sposa, te lo dice perché ti rispetta, tu rispondi, in qualche modo e con la solita frase fatta: “Auguri e figli maschi” e lei piange, e piange, e piange, perché non vuole perderti e perché – lo ripete due volte – tu sei comunque una delle persone più importanti della sua vita, e tu pensi: “Ma anche tu sei una delle persone più importanti della mia vita” e poi pensi: “Eppure, ho avuto il coraggio di lasciarti e di non sposarti e ora c'è un altro, al posto mio, che ha colto subito l'occasione al balzo per chiederti di sposarlo e io non so cosa pensare né cosa sentire, non so cosa dire né cosa provare, una sensazione sgradevole, come se il mondo si ribaltasse e non esistesse più il sopra e il sotto, la destra e la sinistra, l'alto e il basso”...
  1. Quando la tua ex ti dice che si sposa non c'è modo di poter tornare indietro, non serve pensare al “cosa sarebbe potuto succedere e non è successo” né al “cosa potrebbe ancora succedere e potrei far succedere, se solo mi decidessi...”. Quando la tua ex ti dice che sposerà un altro, tu diventi un altro e ti butti il passato (la vita passata) alle spalle e provi a dare un senso al trascorrere delle ore e dei minuti (e dei secondi, nei momenti di maggiore sconforto e depressione). Quando la tua ex diventa definitivamente la tua ex, diventi un altro e ti guardi allo specchio e ti vedi brutto, invecchiato e incattivito dall'esperienza. E pensi che non ti sposerai mai, credi che non avrai mai più l'occasione di sposare la donna della tua vita, semplicemente perché pensi che la donna della tua vita è andata in sposa ad un altro e tu stesso sei ora un altro e chissà chi ti si piglia, chi potrà mai sentire l'impulso di chiederti di convolare a nozze...
E invece... E invece succede che la vita cambia e fa mille giri per poi tornare al punto di partenza: illusioni, sogni ad occhi aperti, delusioni, amarezze, si torna sempre al punto di partenza, si ripercorrono le stesse strade, anche se con persone diverse. E ti ritrovi a cenare con una collega che hai intravisto mesi fa in un convegno e che hai notato per i suoi capelli biondi. E ti ritrovi a parlare della tua ex e lei coglie la palla al balzo per parlarti del suo ex e così, senza quasi volerlo, vi confessate le vostre rispettive vite sentimentali... Una specie di confessione reciproca dei vostri peccati del passato. E si instaura un piacevole clima di confidenze sussurrate o dette ad alta voce, affinché l'altro capisca e carpisca il messaggio: “Di te mi fido, ho fiducia in te, mi fido tanto da confidarti cos'ho combinato in passato con la mia ex, come se ci conoscessimo da una vita, come se fossimo due amici di vecchia data”. Ed è davvero una bellissima sorpresa scoprire che c'è intesa, tra di voi, che tu gli piaci e lei ti piace, anche se non sai ancora se sarà mai la donna della tua vita, e però pensi: “Ma com'è intelligente, questa collega, e com'è carina, come veste elegante, e come si trucca bene, che bel modo di camminare e che piacevole modo di parlare, che bel sorriso e che bella labbra e chissà come bacerà...”. E quando poi le vostre labbra si sfiorano e poi, pochi sencondi dopo, si toccano e poi le vostre lingue s'intrecciano, pensi: “Ma come bacia bene, questa mia amica e collega, ma che bella sorpresa”, e la vita prende un'altra piega, lei ti propone di guidare, tu le dici che guiderai, ma per andare a casa sua a fare l'amore, perché sei timido, sì, ma l'amore ti dà coraggio e così glielo dici a chiare lettere: “Io guido la tua macchina, ma tu non mi riaccompagni a casa, adesso andiamo a casa tua a fare l'amore” e lei incredibilmente ti dice che sì, che va bene, ma che non farete l'amore, la prima volta, perché lei non è di quelle che si concedono subito, al volo, al primo appuntamento, che farete tutto, ma non l'amore, che potrai perfino dormire da lei, ma non l'amore, e tu allora ne approfitti per mettere i puntini sulle “i” e per dirle che sì, che ok, che non farete l'amore, ma che la bacerai dalla testa ai piedi, che la riempirai letteralmente di baci, e che la bacerai nei punti più svariati del suo corpo, obbligandola a stare con gli occhi chiusi e lasciandola nella più totale incertezza circa il prossimo punto del corpo di lei che bacerai, può essere il piede, o il gomito, la pancia o l'interno coscia, i capelli o un sopracciglio, non le farai mai capire in quale punto del corpo di lei arriveranno i tuoi molteplici baci, e lei ci starà, dirà di sì, accetterà le regole del gioco e si divertirà come una matta e il ricordo della tua ex diventerà un ricordo meno pungente e meno doloroso, quando, la mattina dopo, quando la tua collega si sveglierà prima di te per andarsi a fare la doccia e tornerà in camera da letto con una tazzina di caffè tutta per te tu ti sentirai stranamente bene e coccolato e amato e l'afferrerai per la vita e la riempirai di baci e le dirai che lei è riuscita a farti sentire coccolato dopo mesi e mesi di assenza di coccole e lei ti guarderà negli occhi e ti sorriderà con un sorriso che ti spiazzerà e ti chiederai se mai esistano nel mondo le donne ideali e se questa donna che hai davanti potrà mai diventare la tua donna ideale e se accetterà mai di diventare tua moglie, in futuro, la madre dei 3 o 4 figli che pensi di fare e dare alla luce... ti domanderai se è lei e se è giunto il momento di voltare pagina, di lasciarsi il passato alle spalle e di guardare al futuro con più allegria e ottimismo...

sábado, julio 14, 2012

Ri-partenze




Viaggiare, perdere paesi, perdere amici, conoscerne di nuovi, rifare la valigia, dirsi "addio" o "arrivederci", ricominciare daccapo un'altra vita in un altro posto, un'altra città che farà da sfondo alle mie passeggiate narrative, come un filosofo peripatetico che, pateticamente, si sbronza per non pensare ai suoi guai, e mentre rincasa alle 3 di notte (o del mattino?), ripensa all'incubo fatto la notte prima, un sogno orrendo in cui ha immaginato di riabbracciare la sua ex che era la sua ex, con la sua voce, e mentre diceva le tipiche frasi della sua ex, ma con la faccia diversa, con un volto deforme e le labbra più piccole, gli occhi enormi e azzurri e - dettaglio davvero macabro e raccapricciante - priva di mascella...


Viaggiare, perdere i contatti conquistati a fatica nei primi mesi di permanenza in terra straniera; viaggiare, innamorarsi del Sud (se un giorno ci sarà la rivoluzione, questa partirà dal Sud d'Italia, non ha dubbi), restare legato a città piccole e grandi, alla magia di Napoli, al calore di Salerno, al mistero di Avellino, ai monti dell'Irpinia, ai Lungomare della costa amalfitana, ripensare a tutti quegli studenti meritevoli che ha promosso a pieni voti e al loro destino difficile (dover abbandonare la propria terra per poter trovare uno straccio di contratto di lavoro di merda), ripensare a tutti quelli che, al contrario, ha bocciato perché impreparati, e riflettere su com'è difficile essere giovani oggigiorno (ma quando non è stato difficile essere giovani? In quale epoca è stato facile?).


Viaggiare, perdersi e ritrovarsi, rivedere vecchi amici, conoscerne di nuovi, fare e disfare la valigia, ormai consunta e consumata a forza di viaggi e partenze e ritorni e ripartenze...


Viaggiare e scendere dal pullman, prendere il treno, salire sul tram, perdere la metro, chiamare il fratello perché venga a raccattare le borse piene di libri e, intanto, ringraziare col pensiero tutti coloro che hanno reso la permanenza più piacevole, interessante, bella...


[e anche se non lo verranno mai a sapere - perché ignorano perfino l'esistenza di questo mio blog - ringrazio col cuore e seguendo l'ordine sparso dei ricordi: Carla, Geppi, Giuseppe, Mimma, Laura, Desirée, Antonella, Bianca, Cristian, Armando, Nicola, Angelo, Nina, Nadine e Mariateresa e Nihel... thank you so much, folk!]

lunes, julio 02, 2012


Le stesse cose ritornano (Musil docet)




“Quanti anni hai?”, chiede, interessata (o almeno mi pare) la mia interlocutrice (una ragazza che studia Geologia alla “Sapienza” di Roma).
“Sono vecchio, ormai: 35 anni”, rispondo, incuriosito dall’espressione del volto di lei (un misto tra “non ci credo” e “non si direbbe” o “ti capisco” e “brutta cosa, la vecchiaia”).

Io sorseggio una Becks e lei un mojito; io fumo una Camel Lights e lei una sigaretta fatta a mano col tabacco tritato.
Io indosso jeans (strappati mentre salivo in macchina perché troppo lisi) e una maglietta (semplice) nera e lei un vestitino fiorato molto primaverile e sbarazzino (il vento potrebbe farle qualche scherzetto e permettermi di guardarle le cosce – all’apparenza tornite e ben fatte).

Il set dell’azione: Giffoni Valle Piana, a pochi passi dal mare e dalla costa salernitana (ma in montagna – si respira aria buona e fa freschetto, qui, anche se tra poco queste strade saranno prese d’assalto da migliaia di persone che vengono appositamente per il “Giffoni Film Festival” – il bar in cui ci troviamo ha le pareti tappezzate di foto di attori famosi, una carrellata di volti noti, da Silvio Orlando a Alessandro Gassmann, da Al Pacino a Benicio del Toro, da Laura Morante a Mariangela Melato…).

La luna è rossa e alta nel cielo; la intravediamo tra le foglie degli alberi, mentre il suono di una fontanella sita al centro della piazzetta ci fa compagnia e culla le nostre chiacchiere da 4 del mattino (non c’è alito di vento che possa sollevare la gonna fiorata della mia interlocutrice – non potrò guardarle le cosce oltre un ben delimitato confine).
E uno pensa: “Le stesse cose ritornano”.

Sempre le stesse.

Può cambiare il set dell’azione (e, quindi, invece che a Giffoni, potremmo essere placidamente seduti in un bar di Busto Arsizio, o di Orio al Serio, o di Silvi Marina, o di Pineto, o di Ariano Irpino…), ma l’azione è sempre la stessa. Come ti chiami. Quanti anni hai (o mi dai). E cosa studi. Che lavoro fai. Che lavoro ti piacerebbe fare nella vita. Sei un tipo fedele. Credi nella famiglia. Sei mai stato innamorato. Potrei mai innamorarmi di te, con quella faccia lì che hai, da bravo ragazzo (ma sotto sotto mi sa che tu sei di quelli pericolosi o che fanno male… o che possono fare male…). Ce l’hai la ragazza. Vorresti un figlio. Sei ambizioso. Tradiresti. Hai paura della morte.
Sempre le stesse parole, anche se pronunciate da un’altra persona (che prima non conoscevamo).
Uno cambia città, amicizie, conosce gente nuova, entra perfino in contatto con lingue e culture diverse (come la Turchia, nel mio caso, qualche settimana fa); uno gira il mondo, ma, alla fine, si rende conto di stare vivendo sempre le stesse scene…

Al risveglio, mezzo stonato e molto stanco, accendo il computer: mi arriva la risposta a una mia email da parte di Silvia, una vecchia e cara amica (una delle 4 o 5 lettrici fisse e fedeli di questo blog); nell’email le segnalo un post in cui parlo di lei e cito espressamente il suo nome (è un post del 2010 o 2009, non ricordo)… E Silvia mi fa notare (e domanda – con testuali parole): “Quanto tempo è passato!? E quante cose NON sono cambiate?”.

Ed è così: è come se le vite che ho vissuto a Roma, e a Pisa, e a Firenze, e a Madrid fossero sempre (tutte) presenti; come se non riuscissero (mai) a passare (del tutto); e forse è giusto così, che siano (per sempre) tutte compresenti con quella che vivo ora… E dovrei smetterla di pensare in negativo: la conversazione che ho intrattenuto stanotte (alle 4 del mattino) con quella geologa della “Sapienza” NON è esattamente la stessa che ho avuto con altre ragazze conosciute in passato (o nel passato più recente); io NON sono lo stesso, anche se sembro ripetere le stesse frasi; e NON ho ancora 35 anni, ufficialmente (mancano ancora un paio di mesi); e avere 35 anni NON vuol dire affatto essere vecchi. C’è ancora tanto da fare. E tanto da vedere (Giffoni, che luogo spettacolare! Che panorami sul mare!). E tanto da vivere. E tantissimo, su cui riflettere.

Le stesse cose ritornano, ma non sono mai esattamente le stesse…

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...