martes, junio 29, 2010

Proust e la crudeltà


Più vado avanti nella lettura del maremagnum della Recherche (un mare immenso, sconfinato, intervallato, ogni tanto, da scogli improvvisi e pericolosi, da isole paradisiache, da acque putride, ristagnanti, in cui sembra di essere bloccati come nella bonaccia del Vecchio Marinaio dell'omonima ballata di Coleridge, di tramonti e albe estasianti, di ingorghi paurosi e pantani melmosi, etc. etc.) e più mi convinco del fatto che Proust sia uno scrittore "crudele", e anche crudo, perché non si censura; è uno dei pochi che va fino in fondo nel descriverci ciò che sente e che pensa; non conosce limiti di sorta (né morali né ideologici); non c'entra molto la morale, con Proust, il suo è un discorso che esula dalla "doxa" (dall'opinione comune) per sprofondare nell'io più intimo e sfuggente, e carpire da quell'io le verità più scomode e deprimenti. Forse un giorno studierò, al riguardo, i contatti tra il progetto di Proust e gli Essais di Montaigne (forse il primo saggista dell'era moderna; forse il primo romanziere moderno della modernità, ancor prima di Cervantes). Intanto, mi sottolineo e pongo note a margine su due frasi scelte a caso (su due temi tra tanti) che dimostrano quanto vado ipotizzando a proposito dell'esser crudeli (o crudelmente sinceri) come lo sono solo gli scrittori come Proust:
a) L'UOMO E LA CONOSCENZA DELL'ALTRO:
"I legami fra un essere e noi non esistono che nel nostro pensiero. L'affievolirsi della memoria li allenta, e a dispetto dell'illusione di cui vorremmo essere vittime e di cui, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, rendiamo vittime gli altri, è da soli che esistiamo. L'uomo è l'essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé; e, se dice il contrario, mente" (da Albertine scomparsa I, p. 43 dell'ed. Meridiani Mondadori, vol. IV - grassetti miei);
b) L'IDEA DELLA MORTE E QUELLA DEL MORIRE:
"L'idea che si morirà è più crudele del morire, ma meno dell'idea che un altro sia morto, che, nuovamente piatta dopo aver inghiottito un essere, senza nemmeno un risucchio a segnalarne il luogo, torni a distendersi una realtà da cui quell'essere è escluso, in cui non esiste più nessun volere, nessuna conoscenza, e da cui risalire all'idea che quell'essere è vissuto è tanto difficile quanto dal ricordo ancora recentissimo della sua vita al pensiero che esso sia assimilabile alle immagini senza consistenza, ai ricordi lasciatici dai personaggi d'un romanzo che abbiamo letto" (id., p. 112).
Brividi e vertigini...(e tra poco c'è Il tempo ritrovato).

domingo, junio 27, 2010

FRANCESCO ORLANDO SORRIDE SORNIONE (in memoriam)


Francesco Orlando sorride sornione. I capelli grigi tirati all'indietro, come fossero stati stirati, e rasati (o piuttosto corti) ai lati, gli occhi neri che fissano l'obiettivo senza timore, le labbra sottili mentre sorride, e quel sorriso produce le tipiche fossette ai lati della bocca, il naso pronunciato, ma nobile, le borse sotto gli occhi tipiche di chi legge molto e tira tardi la notte, Orlando appoggia la mano destra al mento come chi sa di essere fotografato per un ritratto e vuole fare bella figura (ripeto: non c'è segnale di timidezza alcuna, in questa immagine; né di timore reverenziale o vergogna verso il fotografo e l'eventuale futuro spettatore).

Vestito elegante, sembra un uomo d'altri tempi: questa foto potrebbe essere stata scattata anche negli anni 40 o 50 (non fosse per il colore - o fosse stata stampata in bianco e nero). Le orecchie grandi, la testa sinceramente più grande rispetto al resto del corpo che si può intuire dal mezzo busto in primo piano della foto, ha l'aria di chi tutto ascolta e tutto registra (non gli sfugge niente di quanto dice o possa dire l'eventuale interlocutore). Per la professione svolta (professore universitario), Orlando dimostra in questa foto d'avere una qualità che non tutti i docenti hanno: quella di saper ascoltare chi gli sta davanti (quando, in genere e solitamente, i professori sono coloro che parlano a chi sta loro davanti - a quella massa spesso amorfa ed eterogenea di ascoltatori giovani e distratti). Orlando parla e sa parlare con abilità di retore; ma è anche uno che ascolta e sa ascoltare come fosse un analista. Non critica mai il suo interlocutore in modo netto, la sua eleganza si esprime anche quando non si professa d'accordo con l'altro. Orlando parla, spiega e fa domande: e ascolta ogni domanda, come se ognuna delle domande che provengono dal pubblico fosse degna di estrema attenzione e di una risposta (anche quando, magari, è lontana o si allontana dalla questione dibattuta principale).

Elegante nel vestire, ma prima ancora, nel parlare, Orlando può discettare di Wagner o di Proust; della letteratura romantica inglese o del surrealismo francese primonovecentesco; di Shakespeare o di Flaubert; di Cervantes o del Don Juan di Tirso de Molina con una padronanza tale dell'argomento da lasciare esterrefatti anche gli specialisti delle varie discipline o aree linguistiche. Di fatto, nato francesista, Orlando si trasforma negli anni in "teorico della letteratura" e "comparatista" puro, capace di studiare i nodi centrali della letteratura stessa a partire da una qualsivoglia letteratura nazionale (si lamentava solo di non conoscere il russo; per il resto, credo che leggesse in originale i testi inglesi, spagnoli, portoghesi o tedeschi che gli capitavano sotto mano).

Elegante e abilissimo nell'accogliere le critiche degli altri, era in grado di smontare il discorso dell'altro per dimostrarne carenze o vuoti o contraddizioni. Orlando partiva sempre dalle premesse del proprio metodo d'indagine: e una volta che lo si accettava, era impossibile non dirsi d'accordo con lui quando si arrivava (tutti insieme - docente e discenti) alla soluzione (parziale) del quesito (o della questione letteraria dibattuta in classe).

Abile nella retorica anche quando scrive: non si possono leggere (oggi) i saggi di Francesco Orlando con la stessa facilità con cui si leggono gli altri critici o teorici della letteratura. E il punto è che, anche quando scrive di letteratura in modo teorico, Orlando non smette mai di preoccuparsi dello stile con cui sviluppa le sue argomentazioni, uno stile fatto di periodi brevi, ma densi, di un linguaggio colto, a volte erudito, ma mai serioso; uno stile contraddistinto dall'erudizione dello specialista e dall'ironia del romanziere che conosce già la fine, sa come terminerà la trama...anche se, prima d'arrivare alla fine, tempesta il suo discorso di tesi e antitesi, di paradossi e enigmi che appaiono insolubili o insanabili... Quanti problemi avranno trovato nella loro versione i traduttori inglesi de Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (del 1996 - quello che, a mio modesto parere, resta uno dei libri più belli e geniali di Orlando)!

Ma torniamo alla foto: qui il prof. Orlando sorride sornione. E' il sorriso di chi sa perfettamente per quale motivo il fotografo stia scattando proprio quella foto (in primo piano); è il sorriso dell'uomo elegante anche un po' narcisista, che non prova vergogna davanti alla macchina fotografica. Di uno che sa il fatto suo, che è abituato a essere osservato e che, soprattutto, sa osservare attentamente l'altro. Quegli occhi scuri sembrano indagare (a loro volta) l'obiettivo del fotografo che tenta di carpire l'essenza dello sguardo dell'indagato... Sono occhi di chi sa ascoltare e vedere oltre l'apparenza. E in un certo senso sono anche occhi "perturbanti" proprio perché sembrano capovolgere le intenzioni del fotografo (o dell'obiettivo della macchina fotografica): "non sei tu che mi scopri, sono io che tento di scoprire chi sei e cosa vuoi da me". Sono occhi che possono incutere timore, se li svisceriamo dal contesto di quel mezzo busto di uomo elegante e gentile che sembra uscito da un film degli anni 40 o 50. Gli occhi di un professore universitario che ne sa una più del diavolo. E che, ne sono certo, mancherà ai tanti studenti che lo hanno conosciuto in vita e ne hanno seguito - entusiasti - i corsi su "Teoria della letteratura"...

domingo, junio 20, 2010

Elizabeth Costello di J. M. Coetzee: uno sguardo dentro l’abisso (con Lord Chandos sullo sfondo)

Difficile parlare di questo romanzo, anche perché – come spesso succede con il suo autore – sono difficili le tematiche stesse che vengono affrontate sotto forma di conferenza. E questa è già una novità: il libro non si divide in capitoli, bensì in “lezioni”, quelle che da, che scrive, che detta o che legge la Elizabeth Costello del titolo (una scrittrice famosa che vive della rendita che le danno i romanzi giovanili pubblicati nel passato e che trascorre buona parte dell’esistenza che le resta da vivere a parlare in pubblico di letteratura e questioni letterarie – essendo uno dei suoi più famosi successi il romanzo The House on Eccles Street al cui centro sta la mitica Molly Bloom inventata da James Joyce nel suo Ulysses).

La Lezione Uno s’intitola semplicemente “Il realismo”. Che cos’è il realismo? E’ una domanda cui non è facile trovare risposta, anche limitandoci all’ambito letterario. Realismo sono i dettagli insignificanti, quelli che, ad esempio, Daniel Defoe fa notare a Robinson Crusoe nell’omonimo romanzo. Ed è proprio perché si tratta di dettagli banali che il lettore di romanzi li riconosce e inizia ad osservarli (grazie al romanziere) sotto una nuova lente, da un nuovo, straniato, originale punto di vista. Una seconda risposta potrebbe essere questa (ed è la stessa Elizabeth Costello a sviscerarla di fronte al suo pubblico con l’acribia dell’esperta): realismo è “incarnazione delle idee astratte” perché (cito da p. 13 dell’ed. Einaudi del 2005) “il realismo si fonda sull’idea che le idee non godano di vita autonoma, che possano esistere solo nelle cose”. Ma a questo punto è il narratore a guidarci dentro l’esistenza apparentemente grigia e banale della scrittrice e ci mostra (attraverso varie ellissi) i passaggi centrali dell’esistenza del figlio di Elizabeth Costello che, da semplice spettatore della conferenza, si trasforma in attore di primo piano, con le sue riflessioni sulla madre e su una delle spettatrici, una studiosa che ha appena scritto un saggio critico sulla scrittura femminile e – tra le altre – sulla stessa Costello.

La Lezione Due s’intitola “Il romanzo in Africa”. Questa volta a dare la sua conferenza non è Elizabeth, ma un suo collega, uno scrittore africano di successo che tenta di spiegare similarità e differenze tra romanzo europeo-occidentale e romanzo africano. Il perno, però, non riguarda affatto la questione del razzismo (o della colonizzazione o della sopraffazione dell’uomo bianco sull’uomo nero), bensì il problema del tempo (di come anche il romanziere, esattamente come lo storico, cerca di dare un ordine ai fatti accaduti in passato, cerca di dare coerenza logica al passato per poter – nei casi più felici – interpretare correttamente il presente e anticipare profeticamente il futuro). Accanto a questa, il conferenziere sviluppa una seconda idea: quella della prevalenza dell'oralità sulla scrittura nel continente africano (gli africani non sono stati storicamente abiutati all'esercizio solitario della lettura individuale; hanno sempre amato sentirle raccontare oralmente, le storie dei loro padri, dei loro antenati, di quelli che li hanno messi al mondo).

La Lezione Tre è quella che più mi ha colpito e s’intitola “Le discipline umanistiche in Africa”. Elizabeth Costello viene invitata alla celebrazione della laurea honoris causa che viene concessa da un’importante Università africana alla sorella diventata suora (ed esule da ormai diversi anni dalla madre patria, l’Australia). La sorella di Elizabeth spiega da un punto di vista cristiano e religioso cosa ha rappresentato per l’Umanità il sorgere dei cosiddetti studia humanitatis nel corso del Rinascimento e quanta importanza abbiano assunto nell’elaborazione di una vera e propria arte dell’esegesi (applicata, prima che ai classici, alla Bibbia). Ma poi si domanda: hanno ancora senso, oggi, le discipline umanistiche? Ha senso studiare la letteratura all’Università? A detta della suora (id., p. 74) “Gli studia humanitatis hanno impiegato molto tempo a morire, ma oggi, al termine del secondo millennio della nostra era, sono davvero in fin di vita”. Se prima esistevano ancora uomini che leggevano la Bibbia, o Dante, o Shakespeare, o Dostoevskij, per cercare conforto o una qualche possibile verità, oggi ciò è reso impossibile dal fatto stesso che anche questo tipo di studi si è immolato all’altare della Ragione, il mostro dai mille occhi che tutto distrugge (e contro cui non esiste difesa). L’intero capitolo si sviluppa dialetticamente attraverso il contrasto e le divergenze d’opinioni tra Elizabeth Costello e sua sorella, tra colei che non crede in Dio (o non pienamente) e colei che fa del volto di Cristo un motivo per continuare ad aiutare i bambini africani malati di Aids.

La Lezione Quattro s’intitola “Il problema del male”. Coetzee è autore dostoevskijano perché si ferma spesso a riflettere sul male e sul diritto (o meno) che hanno gli scrittori di parlarne nelle loro opere di finzione. Fino a che punto è vera l’affermazione che “leggere” ci rende persone migliori? E’ davvero accettabile leggere anche di cose che sono “oscene” e che, in quanto tali, dovrebbero essere lasciate “fuori dalla scena” pubblica (fuori dalla portata dei nostri occhi)? Chi ci dice che la lettura di un saggio sulle stragi naziste non ci trasmetta, surrettiziamente, il veleno del male che, nella realtà, hanno praticato con tanta perizia i carnefici che operavano al soldo di Hitler (o di Stalin)? Sono domande – anche queste – cui è davvero complicato trovare risposta.

La Lezione Cinque s’intitola “Eros” e tratta il rapporto ancestrale tra “uomini” e “dèi” dalla mitologia classica alle storie moderne. Forse gli dèi tendono a mescolarsi alla vita degli umani perché invidiosi della nostra stessa mortalità (oltre che carnalità). Omero e compagnia raccontano spesso di accoppiamenti non-giudiziosi tra divinità alate e donne umane, troppo umane. Che il sesso non sia l’ultimo ponte che mette in comunicazione con l’al di là? Il desiderio come base che dà luogo a Cassiopea e Alpha Centauri, allo spazio siderale e all’al di là che si trova oltre ogni confine umano… (il capitolo senza dubbio più romantico del libro).

La Lezione Sesta (ed ultima) s’intitola “Davanti alla porta”. Come è facile intuire dal titolo, qui Coetzee riscrive il famoso racconto (o apologo) di Kafka per sprofondare la protagonista (e alter-ego femminile?) in una sorta di incubo senza vie di fuga. Elizabeth Costello deve rispondere a questa semplice domanda: in cosa credi? Il problema è che lei non crede (sempre e univocamente) in Dio o in una certa, stabile versione dei fatti: in quanto scrittrice, è costretta (per mestiere) a scrivere le varie e anche contrastanti verità che gli dettano gli altri e che lei, in quanto “segretaria dell’invisibile”, si preoccupa di mettere per iscritto all’interno delle trame dei suoi romanzi. Nemmeno i suoi libri trasmettono un messaggio o dei messaggi univoci. Non insegnano niente, mostrano solo come vivevano un certo gruppo di persone in un certo luogo e in un certo tempo. E’ come se Kafka venisse trasportato di peso all’interno di un gulag o di un campo di concentramento: è nel centro dell’abisso che Elizabeth Costello (e noi in quanto suoi lettori) è costretta a sviscerare il senso del suo essere scrittrice (e autrice di finzioni).

Il libro, però, non finisce qui. C’è anche un “Poscritto”. Una lettera che Elizabeth Costello - che si firma qui Lady Chandos - scrive a Francis Bacon (l'11 Settembre del 1603) in merito alla follia che sembra aver attanagliato il povero marito, quel Lord Chandos dell’omonima e famosissima “Lettera” che Hofamannsthal scrisse nel 1902 (agli albori del XX secolo).

Con questo libro Coetzee si conferma quel grande scrittore e intellettuale che è; e ci regala momenti di puro piacere e di scoperta (sempre sul limite dell’abisso, e sempre con lo sguardo teso verso lo stesso).

miércoles, junio 16, 2010

Doubts



Sarà che ultimamente ho visto troppi film sulla crisi della coppia e sul matrimonio (cfr. l'Ingmar Bergman di Scene da un matrimonio del 1973;o la Liv Ullmann de L'infedele del 2000; o il Woody Allen di Mariti e mogli del 1992; o quello di Alice del 1990...), sarà che sono alquanto irrequieto e stressato, ma non passa giorno che non nutra dubbi sulla mia compagna, sulla mia vita amorosa, sulla possibilità che abbiamo (entrambi) di costruire una vita da adulti insieme (per formare una famiglia, dei figli, dei legami di sangue che esulano dal tuo corpo individuale e confluiscono in quelle persone che, tutte insieme, formano, appunto, una famiglia).

Sono confuso e felice: lavoro anche 12 ore al giorno ma poi, non si sa come, riesco perfino a trovare il tempo per andare ad ubriacarmi con una collega e amica al bar della stazione; una birretta si trasforma in un cuba libre; un aperitivo in una cena; mi sorride e ha già capito: voglio fumare anch'io (anche se non sono un fumatore incallito). E così respiro a pieno polmoni quantità preoccupanti di nicotina (ignaro del treno che è arrivato ed è già ripartito, senza di me)...

Mi sento così rintronato che sbaglio le aule in cui stanno svolgendo l'ennesimo consiglio di classe. E mi ritrovo a parlare di filosofia con il bidello sordomuto che, quando vuole, si fa capire benissimo, anche a gesti. A volte penso che sia più eloquente lui di tanti illustri colleghi che pascolano per i corridoi della scuola alla ricerca di una bevanda rinfrescante (con il caldo che fa!).

Sono pronto a fare un passo del genere? E' possibile non nutrire dubbi e promettere amore e fedeltà eterne alla persona che penso di amare? Che sono convinto di amare?

Immagino il giorno prima della celebrazione delle nozze: fino a quel momento, fino al fatidico "sì, lo voglio", puoi ancora tornare indietro. Dal "sì, lo voglio" e dallo scambio delle fedi in avanti, non si può più (in teoria; nella pratica, lo sappiamo tutti che esiste il divorzio, ma in teoria se ti sposi è per sempre...come diceva una certa pubblicità di diamanti) tornare indietro, non si può più fare dietro-front. E come si fa a pensare di voler stare sempre e solo con una stessa donna? Come è possibile anche solo immaginare un'intera esistenza al fianco di una e una sola donna? E il resto? E tutte le altre? Diventano per caso e immediatamente off limits? Fuori dalla nostra portata? Desideri destinati a restare per sempre tali? Illusioni romantiche da avventure romanzesche che si possono solo sognare? Si può davvero amare solo una persona sulla Terra ed escludere le altre? (su questo argomento meglio non cfr. Proust, il vol. su La prigioniera e La fuggitiva, perché Proust è sincero e troppo, troppo crudele con la sua incredibile sincerità, meglio evitare, se si vuole evitare il suicidio o la depressione permanente...).

Ricordo una citazione da Strindberg nel migliore dei film che ho citato sopra (Scene da un matrimonio non è un film drammatico; neppure sentimentale; per certi versi potremmo includerlo nella categoria "horror" - e chi l'ha visto mi capirà): "Non esiste essere più tragico di un marito o una moglie insoddisfatti" (cito al volo e non a memoria, potrei anche sbagliare, ma il succo è questo). Ed è vero, cazzo, è vero! Non c'è tragedia più grande e macabra e triste e deprimente...

Mi sento confuso come quando vidi Profondo rosso (del 1975) per la prima volta: riconoscevo scorci che sapevo appartenere a Roma, ma c'erano altre scene e altre inquadrature in cui si scorgevano monumenti e chiese che non erano di Roma. Crescendo ho scoperto che si trattava di un trucco voluto dal regista: Dario Argento, in Profondo rosso, s'inventa una città irreale mescolando Roma a Torino, creando un mix che non esiste se non nella geografia fittizia del film, per cui può succedere che David Hammings si trovi a passeggiare (di notte) per Piazza Vittorio Emanuele (a Torino) e per svoltare poi su Piazza della Repubblica (a Roma), e lo spettatore finisce con il provare lo stesso senso di spaesamento (inquietante) provato dall'attore protagonista...

Spaesato è la parola giusta: mi ritrovo a fare le 3 del mattino in casa di amici di amici che abitano in periferia in una città che non è la mia per parlare di Wittegenstein e della filosofia del linguaggio come se fosse la cosa più normale del mondo (quando di normale, in conversazioni del genere, c'è ben poco)... Oppure, mi ritrovo a commentare Italia-Paraguay a Roma, in compagnia di mio fratello, in casa di amici suoi, e a chiacchierare per cellulare con Mauro, che è un amico uruguaiano che vive a Madrid e non sospetta minimamente che io, in quel preciso istante, sto guardando la prima partita dei Mondiali del Sudafrica della mia nazionale...

Si può amare tutta la vita la stessa persona? Si può cambiare in parallelo con l'altra persona senza ferirsi o farsi del male reciproco? Si può convivere con tutta questa massa di desideri improvvisi che a volte ci spingono a ferire la persona amata? Quante domande. Ho bevuto troppo anche stasera. Meglio tornare a letto. E leggere un po'...Basta scrutini. Basta voti. Basta consigli.

martes, junio 15, 2010

CONSIGLI DI CLASSE


Che poi non è che succeda proprio così, ma Daniele Luchetti ci si è avvicinato parecchio...

lunes, junio 07, 2010

The Dalkey Archive di Flann O’Brien, ovvero: un paese di matti

Erano anni che non leggevo un libro così divertente: L’archivio di Dalkey (1964) di Flann O’Brien (tradotto in italiano da Adriana Bottini per Adelphi) è un romanzo ironico (e a volte esplicitamente comico) e lo si capisce fin dal paratesto, con la strana dedica dell’Autore al suo “angelo custode”:

Dedico queste pagine

al mio Angelo custode,

con la precisazione

che sto solo scherzando

e l’avvertimento

che toccherà a lui

far sì che non si creino malintesi

quando tornerò a casa

Ora, a lettura terminata, uno può anche immaginare quale sia l’Angelo custode cui si sta rivolgendo qui Flann O’Brien; per chi non l’avesse mai letto, non voglio svelare oltre; possiamo dire che questo romanzo è ambientato in una città immaginaria a pochi chilometri da Dublino; che questa città è abitata da una variegata e piuttosto eccentrica cittadinanza; che i protagonisti principali (gli amici Mick e Hackett) sembrano due novelli Bouvard e Pécouchet di flaubertiana memoria; che il nemico che tentano di sconfiggere si chiama De Selby e fa il fisico-teologo; che questo De Selby ha inventato una formula per fermare il tempo e poter entrare in contatto con le anime del Paradiso e tutte quelle che appartengono al nostro passato, tra cui sua eminenza Sant’Agostino di Ippona; che De Selby sembra avere in mente un piano per eliminare l’uomo dalla faccia della terra; che nelle vicinanze di Dalkey, in un altro paesino sulla costa, si scopre vivere anche James Joyce, scomparso durante le rappresaglie naziste della Seconda Guerra Mondiale e mai più tornato alla ribalta proprio per evitare la fama che gli aveva dato l’Ulisse, opera “sporca” e immonda che, in realtà, lui non ha mai scritto (i fautori dell'operazione letterario-commerciale essendo Sylvia Beach e una strana cricca di scrittorucoli da strapazzo e pornografi).

Il libro ha un tono colloquiale scorrevolissimo, ma anche molto studiato; si prenda l'incipit, in cui facciamo la conoscenza (amabile) della (a volte stressata e a volte involontariamente comica) voce narrante:

"Dalkey è una cittadina a una dozzina di miglia a sud di Dublino, sulla costa. Una citta improbabile, raggomitolata, tranquilla, che fa finta di essere addormentata: strade strette, poco assiomatiche come strade, e con incroci che si direbbero casuali; negozietti che sembrano chiusi e invece sono aperti" (id., p. 11 dell'ed. Adelphi del 1995).

Insomma, Dalkey appare in un modo essendo in un altro; ovvero: a Dalkey niente è come sembra.

Il romanzo è infarcito di discussioni “alcoliche” (nel senso che si svolgono tra personaggi che parlano o chiacchierano davanti a un'immancabile pinta di birra o bicchiere di wiskey) su Dio e la religione cattolica; anzi, in questo libro i preti e quanti ruotano attorno alla Santa Romana Chiesa la fanno da padrona. Si discute di Bibbia, di dogmi, di fede, e dei misteri più noti e inspiegabili (perché Giuda Iscariota deve fare sempre la parte del “cattivo” quando, invece, Dio ha scelto proprio lui per permettere il tradimento che condurrà Gesù Cristo sulla croce, con le conseguenze benefiche che ogni buon cristiano conosce? Che cos'è il fantomatico Spirito Santo, elemento fondante della Santissima Trinità? Siamo sicuri che non si tratti di una cattiva interpretazione della parola ebraica ruach – in greco pneuma, in latino spiritus – ovvero: respiro? E così di seguito...).

A tratti sembra di leggere Cervantes (per l'umorismo e l'ironia e l'auto-ironia della succitata voce narrante – che, a tratti, sembra narrare malgrado tutto e quasi controvoglia, nonostante la realtà “incredibile” dei fatti che vengono presentati al benevolo lettore); altre, di leggere o ri-leggere il Reverendo Laurence Sterne; i dialoghi che Mick intrattiene con James Joyce, poi, sono un vero spasso; intrisi di tutta l'amara ironia, l'ammirazione sperticata e la pietas cristiana che O'Brien professa a uno dei suoi amici e modelli letterari. E' quasi normale, quindi, che a lettura finita si resti un po' rattristati; ci si affeziona subito agli abitanti un po' folli di Dalkey...e si spera sempre in un nuovo, imprevedibile incontro con qualche altro maestro del passato...

In due parole: postmodernismo puro, e pieno d'ironia, quando ancora il postermodernismo non esisteva e la parola “postmoderno” era ancora lungi dal divenire una “categoria” del filosofare contemporaneo. Si capisce che il libro è stato scritto nei favolosi anni 60: sprigiona un'energia e una carica che certi romanzieri di oggi se le sognanano (di notte).

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...