miércoles, marzo 26, 2014

Alla fermata del bus


Alla fermata del bus capitano le cose più assurde e strambe e incomprensibili. Come l’altro giorno, quando un tizio coi capelli sconvolti e al vento, il fisico rachitico, l’andatura da vecchio, mi si avvicina e inizia a parlarmi e io non ricordo chi sia, né come si chiami, né quando l’ho conosciuto (“Non ti ricordi? Al congresso sul valore educativo dell’esperienza” e io mi domando subito: “Ma ho mai partecipato a un congresso sul valore educativo dell’esperienza? Può l’esperienza avere un valore educativo?”).

Arriva il bus e il tizio che non so come chiamare mi sospinge e mi fa accomodare accanto a sé. Iniziamo a parlare dell’Università, delle molte ore di lezione, dello stress creato dagli studenti più pigri o più ignoranti, quelli che ti scrivono email su questioni facilmente risolvibli consultando il sito del Campus, quelli che chiedono a che ora è l’esame, quelli che rompono le palle per ogni bazzecola, e poco a poco comincia a parlarmi dei suoi interessi, dei suoi campi d’indagine, del suo ambito di ricerca:
“Sai, qui do corsi su Lingua Inglese, ma la mia vera passione è la Letteratura Inglese”.
Gli chiedo che periodo studia o a quale autore si dedica. Ed è come se gli avessi dato il “là”. Inizia a sproloquiare, non si ferma più, so già che dovrò ascoltare fino al capolinea.
“Mi occupo di Dante Gabriel Rossetti”, mi fa, con tono papale, e aggiunge: “Studio i rapporti tra l’immagine e la parola nella poetica del Poeta”.
Provo a fare mente locale: i Preraffaelliti, Dante Gabriel Rossetti, un italiano che appare nel manuale di Letteratura Inglese, ma non ricordo se scrisse sempre e solo in inglese o se pubblicò qualcosa anche in italiano.
Il tipo assurdo mi viene in soccorso, specificando e snocciolando amabilmente date e nomi ed interi alberi genealogici:
“Suo padre, Gabriele Rossetti, fu famoso per aver pubblicato un saggio su Dante, o meglio, sull’immagine di Beatrice all’interno della Divina Commedia”.
Allora è per questo che si chiama così, deduco in quattro e quattr’otto: Dante, la grande passione di Gabriele, suo padre. Dante + Gabriel + Rossetti. Ma suo padre scrisse e pubblicò sempre e solo in italiano?
“Fece scalpore. Offriva una rilettura in chiave esoterica del famoso personaggio femminile. Il libro fu censurato e messo al bando. Era impossibile procurarsene una copia, fino a qualche anno fa”.
Mi viene subito la curiosità di sapere come s’intitola questo saggio esoterico su Beatrice e Dante.
Il tizio non lo ricorda e assume un tono a metà tra la malinconia e la depressione più nera:
“Che gran peccato non conoscere l’italiano... So per certo che quel libro potrebbe darmi qualche indizio giusto per interpretare correttamente l’intera poetica del Nostro. Una volta l’ho perfino toccato con mano. Il manoscritto originale, intendo, quello che scappò alle grinfie della censura. È conservato all’interno della British Library. Che emozione. E che tristezza non parlare la tua lingua. Dovrei studiare italiano a fondo. Conosco bene l’inglese, mi difendo in francese, ma l’italiano...mio Dio...”.
Ecco: questo folle è riuscito a contaminarmi. Mi ha già trasmesso il virus (benevolo) della curiosità erudita. Come s’intitola? Chi è davvero Gabriele Rossetti? Che razza di lettura ha fatto del capolavoro dantesco? Deriva davvero dalla sua passione per Dante il nome del figlio? Dove visse o dove nacque il figlio? Chi erano i Preraffaelliti?

Al capolinea mi saluta stringendomi forte la mano e promettendomi un caffè al bar della facoltà. La mattina seguente a questo incontro assurdo vado a cercare informazioni su Wikipedia (fonte inaffidabile, ovvio, ma è pur sempre un principio, un modo per iniziare le indagini).

E scopro che Gabriele Rossetti è mio conterraneo: è nato a Vasto, in Abruzzo, a pochi passi dal paesino di montagna in cui sono nato anch’io. Ha pubblicato un Commento analitico al Purgatorio di Dante nel 1826 e dei Ragionamenti sulla Beatrice di Dante nel 1842. Fu “conservatore dei marmi e dei bronzi antichi” del Museo di Napoli; “poeta” del Teatro San Carlo, sempre a Napoli; nel 1820 appoggiò i moti liberali (era un giacobino convinto) e per questo fu costretto all’esilio, prima a Malta, poi a Londra, dove arriva nel 1824 e dove resterà per il resto dei suoi giorni. Qui diventò professore di Lingua e Letteratura Italiana presso il King’s College, dove insegnò fino al 1847 (morirà 7 anni dopo, all’età di 71 anni). Come suo figlio, scrisse poesie, sia di carattere civile che religioso. Recentemente sono stati scoperti due manoscritti autografi di un poema che s’intitola Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo, opera subito inclusa nell’ “Indice dei Libri Proibiti” per i suoi violenti attacchi contro il Papato e contro la Monarchia.
A Vasto è attivo un “Centro Europeo di Studi Rossettiani” che, tra le altre cose, organizza i “Giovedì rossettiani”: ora, ad esempio, dal 27 Marzo al 24 Aprile, ogni Giovedì, presso la Pinacoteca del Palazzo d’Avalos, si riuniscono scrittori e critici italiani per parlare... di letteratura contemporanea.
Cerco su Amazon i due titoli che riguardano le interpretazioni di Dante e della figura di Beatrice nella Divina Commedia e scopro che costano moltissimo, dai 110 euro in su (chi ce li ha usati non li molla per meno di 90 euro). Cosa ci sarà mai scritto nei Ragionamenti sulla Beatrice di Dante... O nel Commento analitico al Purgatorio di Dante... Perché proprio il Purgatorio e non l’Inferno; perché Beatrice e una lettura esoterica del personaggio; perché giacobino e anti-papista; perché Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo...


Ecco: ormai non potrò più avere pace fino a quando non potrò trovare risposte certe a questi interrogativi. Maledetto sconosciuto che ti ho conosciuto a un congresso sul “Valore educativo dell’esperienza”... Può l’esperienza avere un valore educativo? Almeno a quest’interrogativo so rispondere: certo che sì, certo che può... Perfino alla fermata del bus.

martes, marzo 25, 2014

Troppo lavoro


Lo stress. Mi sento sotto stress, dormo poco e bevo troppi, troppi caffè. Perché non riesco a smettere?

Mi chiedono (in ordine rigorosamente sparso): a) di scrivere una recensione per un saggio su uno scrittore spagnolo attivo negli anni 20 e 30 del secolo passato; b) di scrivere (e pubblicare subito) un racconto sul tema della “città” (ho pensato subito a Le città invisibili di Italo Calvino, qui lo conoscono anche se non è famoso come in Italia, potrei “rubare” qualche idea interessante, la città come spazio dell’immaginazione, lo spazio come ricettacolo del tempo che passa, la città come luogo d’incontro e di scontro di “immaginazioni” diverse, di “enciclopedie” differenti (pensiamo anche alla “stratificazione” di tali “immaginazioni” ed “enciclopedie” nelle case e nei palazzi di Roma, così come li studiava e li contemplava attonito il buon Henry James); c) di scrivere un articolo di taglio comparatistico su un romanzo picaresco spagnolo pubblicato nel 1631 e di una novella di Francesco Sansovino apparsa a Venezia nella sua raccolta di Cento novelle del 1561; d) di leggere (per un parere spassionato) una tesi di dottorato che l’autore desidererebbe trasformare in saggio di critica letteraria; e) di preparare un intervento su un romanzo che parli di “donne” e di “femminismo” (l’intervento dovrà essere svolto nell’ambito di una serie d’incontri di “studentesse” dell’Università della Terza Età – mi hanno detto che sono “studentesse” agguerrite e piene di curiosità e pronte a fare domande difficili sull’argomento, uomo avvisato…); f) di leggere (e dare un parere su) un romanzo scritto da un’italiana e pubblicato in Argentina (a quanto pare l’autrice ora vive in Francia).

Insomma, troppe cose (tutte interessanti, per l’amor del cielo). E uno si domanda: “Ma quando lo trovo il tempo per leggere le “mie” cose? Quelle che mi appassionano per il solo piacere di leggerle? Quando potrò tornare a leggere senza secondi fini?”.


E poi uno riflette e si dice che è un privilegiato: mi pagano per fare quello che più mi piace e questo – come dice la pubblicità – è un lusso che non ha prezzo. E in più sono vivo. E in salute. È davvero una gran fortuna.

martes, marzo 18, 2014

Quel mostro di Montaigne



“Non ho visto portento né prodigio al mondo più evidente di me stesso. Ci si abitua ad ogni stranezza con la consuetudine e col tempo. Ma più mi frequento e mi conosco, più la mia difformità mi stupisce. Meno mi capisco”

Queste le parole (dirette, sincere, spassionate, sorprendenti e universalmente condivisibili) di un signore francese vissuto nel XVI sec. e impegnato nell’ardua impresa socratica di riuscire a “conoscere se stesso”… Montaigne si rintanò nella proverbiale “torre d’avorio” proprio per questo, per frequentarsi e conoscersi meglio. Non sapeva che, così facendo, stava dando vita a un genere letterario, quello del “saggio”, che avrebbe poi avuto una fortuna secolare e che, ancora oggi, ci serve per porci domande e sollevare dubbi senza fine (o senza un fine prestabilito e univoco) sui temi più vari e disparati.

La scienza pretende di trovare la risposta a ogni fenomeno empirico; la filosofia, invece, pretende di scuotere gli animi in nome del dubbio costante, della critica spietata contro l’evidenza (anche contro se stessi), della domanda che non si accontenta di trovare risposte preconcepite o scontate (o esposte in un linguaggio di tipo scientifico-matematico).

Nell’originale, in realtà, Montaigne non dice esattamente così,  la prima parte del ragionamento, la prima frase, recita così:

“Je n’ai vu monstre et miracle au monde plus exprès que moi-même”

E le cose, evidentemente, cambiano: in italiano “portento” o “prodigio” suonano auliche, nobili, sono termini quasi “poetici”; nella sua lingua materna, invece, Montaigne voleva sottolineare proprio questo, l’eccezionalità, l’abnormità e l’anormalità del suo essere in quanto “essere umano pensante” e, per questo, parla di “monstre” e “miracle”: un mostro o un miracolo, qualcosa che ci sorprende perché sfugge alle definizioni normali di ciò che è “normale” e “quotidiano” o che ci lascia a bocca aperta perché tocca la sfera del “sacro”, il “miracolo” come “evento inspiegabile” o che la ragione non può concepire e spiegare in base alle leggi della non contraddizione o dell’identità.

L’uomo come “mostro” o come “miracolo”: quanti film – nel corso della storia del cinema – sono nati proprio a partire da questa concezione alla Montaigne? Quanti primi piani non hanno tentato di mostrare il “mostro” che è dentro di noi, il “miracolo” che possiamo essere per un altro essere umano?

E mi vegono subito in mente i primi piani di Ingmar Bergman (non a caso, un altro connazionale di Montaigne, e cioè, Gilles Deleuze, affermava che il regista svedese si è spinto come nessun’altro verso la contemplazione del volto umano, trasformando i “primi piani” sui suoi attori in una figura retorica che si sgancia dalla trama del film per “narrare” un altro film, sotterraneo, anarchico, ingovernabile – e François Truffaut fa eco a Deleuze, quando dice: “Il volto umano. Non c’è nessuno che gli si avvicini tanto quanto Bergman”), o le scene più efferate dei vari “mostri” che popolano il nostro immaginario collettivo (pensiamo ai film di Dario Argento – in cui di solito del “mostro” vediamo sempre e solo la mano, almeno all’inizio – o a quell’Hannibal Lecter che Jonathan Demme è riuscito egregiamente a tradurre per immagini a partire dal famoso romanzo – dal titolo piuttosto biblico The Silence of The Lamb – di Thomas Harris – e a proposito di primi piani, non esiste spettatore al mondo – credo – che non provi terrore nel contemplare da vicino la “mostruosità” che trasmette il protagonista, cannibale e sensibile, mix esplosivo di brutalità primitiva e di buone maniere da aristocratico, perfettamente incarnato da quel “mostro” di bravura che è Anthony Hopkins).

Ma anche la pittura è piena (è fatta) di esseri umani mostruosi o portentosi (pensiamo al Grido di Munch o alla Primavera di Botticelli, tanto per fare due esempi banali); e così la letteratura (pensiamo al Grande Inquisitore che Dostoevskij s’inventa ne I fratelli Karamazov, o a Molly Bloom, un “miracolo” di donna adultera e sensibile e romantica e ironica cui nessun lettore dell’Ulysses può sottrarsi, per il fascino che trasmette, per l’umanità che incarna, per quel suo “sì” ripetuto tre volte alla fine del suo torrenziale monologo).

Ma ciò che più colpisce della riflessione di Montaigne è un altro aspetto: la temporalità. 

Più passa il tempo a frequentarsi e a tentare di conoscersi, meno capisce se stesso (addio, Socrate). Il fattore “tempo” è centrale. Montaigne ci sta dicendo apertamente che non è affatto vero che “il tempo aggiusta le cose” o che “il tempo ci rende più saggi” o “più maturi” o “più esperti”, anzi… 

Montaigne ci dice che succede esattamente il contrario: accumuliamo anni, esperienze e rughe sulla pelle, senza riuscire a venire a capo di quasi nulla. Più si invecchia e, quindi, più ci si avvicina al traguardo finale (la morte) e più ci si sorprende di quanto poco c’insegna la vita (o l’esperienza in generale). E questo pensiero è spietatamente realista, se ci riflettiamo bene, e pessimista, e direi quasi fatalista. La relazione tra gli anni che passano (o che fuggono via a grandi passi) e la capacità di comprensione dell’essere umano è una relazione inversamente proporzionale e di fronte a questo non ci sono santi, né Cristi, né divinità varie che possano consolarci… Montaigne ci da il quadro (cupo) della situazione. Prendere o lasciare, non ci sono opzioni.

Eppure… il lettore si rende conto che - andando avanti nella lettura degli Essais -, l’autore non scrive tanto per rattristarci o per contaminarci dei suoi dubbi, quanto per cercare di esorcizzare le verità che va scoprendo nel corso della sua missione: “conosci te stesso” (perché “io stesso sono l’argomento di questo libro”).

E uno non può non sentirsi avvinto da questa missione, non può non condividere con Montaigne il sapore amaro che, a volte, le sue scoperte ci lasciano in bocca. E soprattutto, non può non fare il tifo per lui, e non può ignorare le verità cui giunge (a partire dal proprio “io”) questo filosofo scettico, che dubita di tutto e che, con stoicismo, accetta ogni dolore, ogni dispiacere, ogni delusione della vita. Ogni verità. Anche quelle che più fanno male o sfiancano o sorprendono.


“Je n’ai vu monstre et miracle au monde plus exprès que moi-même”… Appunto.

lunes, marzo 10, 2014

Kassel no invita a la lógica, di Enrique Vila-Matas: un "libro" su un autore invitato a scrivere in pubblico non si sa bene per quale oscuro motivo

Sono un fan (come molti) di Enrique Vila-Matas, questo signore qui:


Ho letto praticamente tutti i suoi libri. E come sempre, quando compro il suo ultimo "parto", mi ritrovo a domandarmi: "Ma cosa significa? Dove vuole portarmi con questo nuovo esperimento narrativo? Che senso ha questo esperimento narrativo?".

Le stesse domande me le sono fatte dopo aver raggiunto l'ultima frase di Kassel no invita a la lógica (Barcelona, Seix Barral, 2014), un "libro" strano perché si presenta come un romanzo ma è, al contempo, una sorta di diario di viaggio, un pezzo di autobiografia (fittizia), un saggio sull'arte contemporanea.

La trama (se di "trama" possiamo parlare) è la seguente: uno scrittore (anonimo, ma che si inventa 2 maschere all'interno del "libro": Autre e Piniowski) viene interrotto da una telefonata improvvisa di una fanciulla dalla voce sensuale che lo invita a partecipare a un'installazione artistica presso la "Documenta 13", la più grande mostra di arte contemporanea organizzata nella città tedesca del titolo. 

Lo scrittore dovrà limitarsi a scrivere stando seduto all'interno di un ristorante cinese poco distante dal centro della mostra stessa. I curiosi spettatori potranno avvicinarglisi e fargli domande su quanto va scrivendo in un bloc-notes rosso.

In realtà, nel corso della telefonata, la fanciulla riuscirà a convincere l'autore ad accettare e a prendere l'aereo per Kassel perché gli prospetta la possibilità di capire "il mistero dell'universo", ovvero, "il senso ultimo della vita".

Ecco: già da questi presupposti si può capire quanto sia folle il Nostro, quanto giochi con il lettore, quanto rischi al momento di narrare ciò che è impossibile mettere per iscritto (il mistero dell'universo? Il senso ultimo della vita? Ma siamo matti?).

Kassel non solo non invita alla logica, ma sembra trasformarsi nel corso della narrazione in una porta d'ingresso ideale, perfetta, verso la follia.

Il narratore che sembra coincidere con l'autore (ma che è anche Autre e Piniowski) ci descrive con ricchezza di dettagli tutte le opere d'arte contemporanea più strambe e folli che ci siano e, poco a poco, va scoprendo come quelle stesse opere d'arte lo spingano a scrivere, a creare arte, a fare con le parole scritte qualcosa di nuovo, di originale, di non prestabilito, di non canonico...

Di cosa parla allora questo "libro"? Di uno scrittore che, a contatto con frammenti eccellenti dell'arte contemporanea, si domanda in cosa consiste creare "arte" o vivere dell' "arte". Di uno scrittore che riflette sul mondo circostante e su quello del passato (molti i riferimenti alle vittime della seconda guerra mondiale, al nazismo, a Hitler, alla Germania che creò uno degli incubi peggiori della storia recente). Di uno scrittore che riflettendo scrive di sè, dei suoi alti e bassi, della sua felicità al mattino e della sua apatia e tragica tristezza alla sera (secondo uno schema tragicomico di "euforia" e "abbattimento", "eccitazione mattutina" e "nichilismo notturno"). Di uno scrittore che spera che l'arte possa tornare ad occupare uno spazio centrale, all'interno del mondo contemporaneo (dove tutto è meccanizzato, strumentalizzato dal denaro, dal sistema capitalista, dalla fretta di consumare, dalla "falsa arte" di chi sfrutta l'arte solo per motivi egoistici o economici).

Kassel no invita a la lógica, recita il titolo, che ha origini italiane; fu Italo Calvino a dire di Torino che è una città che "invita alla logica" e, dunque, alla "follia". Ecco cosa scrisse l'autore de Le città invisibili in un pezzo su Torino:

"Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre la via alla follia".

Dice il narratore del libro di Vila-Matas che qui Calvino si sta riferendo all'esperienza tragica di Nietzsche che, quando viveva a Torino, finì col diventare pazzo e con l'accarezzare un cavallo come fosse un bambino.

Alla fine della lettura di questo "libro", possiamo certo ammettere che anche Kassel, come Torino, invita alla follia. E che Vila-Matas è uno degli autori più folli e stravaganti e spiazzanti che esistano nell'ambito della letteratura europea. Uno che sorprende e spiazza, che lascia il lettore in balia di una quantità impressionante di citazioni letterarie, uno che dialoga con la letteratura e con la cultura del passato per cercare le chiavi che permettano d'interpretare correttamente il presente e il futuro. Uno che si sente forte ed energico la mattina e triste e depresso al calar del sole. Uno che accetta gli inviti ad andare a Kassel (o a Torino).

martes, marzo 04, 2014

UN SOGNO LETTERARIO



“Dunque, la situazione è la seguente: siamo in una casa al mare, in un posto tipo "Le Cinque Terre" (anche se non so come siano fatte perché io non ci sono mai stato) o tipo San Vincenzo, vicino Livorno...

Abbiamo appena finito di fare l'amore (o sesso selvaggio, dipende) e tu, coi capelli al vento, ti alzi per fumare una sigaretta.

Mi chiedi se ne voglio una e ti dico di no, che ho smesso. Poi telefoni a uno e io inizio a intuire che si tratta di un amante.

Mentre penso a quello che farai, al vestito che indosserai, al profumo che userai per vedere l'amante anonimo, giro per casa in vestaglia (la stessa che hai tu in casa a Pisa, la stessa identica vestaglia con cui ti sei presentata una mattina al mio cospetto per fare colazione insieme – e mi criticasti dandomi del “selvaggio” solo per aver infilato il mignolo nel pentolino del latte per tastare se era caldo abbastanza…).

Poi rientro in camera e tu hai posizionato un proiettore sul letto e videoproietti un film (ma non capisco di quale film si tratti, riesco a sentire solo parte della colonna sonora, rumori di fondo, piatti che si rompono, forse una coppia che litiga).

"Esci?", ti chiedo.

E tu - reggiti forte - mi rispondi: "Certo, ogni uomo è artefice del proprio destino".

Io ci resto male, diciamo pure che resto come uno scemo a guardarti, inebetito e impotente dinanzi alle tue parole.

Tu te ne vai con una minigonna vertiginosa, nera, luccicante e scarpe coi tacchi alti...

Il sogno (o l'incubo) finisce qua...

La cosa più assurda di tutte? Il fatto che nel sogno mi dicevi quella frase che - bada bene - non è una frase qualunque, è una citazione da Appio Claudio Cieco (ma attribuita anche a Sallustio):

"Faber est suae quisque fortunae"...

Tu dimmi... no, dico: tu dimmi se è normale (e se tu sei normale)! Ma non potevi apparirmi solo in un sogno erotico? Privo di citazioni dalle auctoritates? Non potevi uscirtene con una frase meno letteraria e un pochettino più realista?

Un bacio, pazza…”

Questo è – nella sua versione integrale – il messaggio che ho mandato questa mattina alla mia cara amica e collega protagonista “irreale” del sogno.

Non so se e quando mi risponderà, per darmi la sua versione dei fatti, o meglio, la sua ipotesi d’interpretazione del “testo onirico” (perché lei di certo lo definirebbe così, un “testo onirico”, e non semplicemente un “sogno” o un “incubo”, come farebbe invece il resto dei comuni mortali – lo Strutturalismo ha fatto davvero tanti danni, dagli anni 70 in poi, in ambito accademico e non solo….).

Di certo so che pagherei anche una bella cifra per sapere che cazzo di film stia proiettando nel sogno Selene; sempre che si tratti di un film “vero” o “certificabile”, un film che è stato davvero girato sul piano del “reale” e non solo per me e da me diretto all’interno di quell’altro film che è un “testo onirico” come questo che ho riassunto più sopra.

Quanti film parlano di crisi di coppia? Quanti illustrano la tipica scenetta in cui lei prende e si mette a distruggere i piatti del servizio buono? Una marea… La storia del cinema ne è piena…

E poi mi domando: ma perché Selene nel sogno (o incubo) mi parla per citazioni letterarie? E soprattutto: come cazzo ho fatto io a sognare una citazione letteraria quando pensavo di non conoscerla affatto?

Prima di questa mattina io non sapevo che si trattasse di una citazione, o di una “frase storica”, come si suol dire; né sapevo dell’esistenza di Sallustio né, tantomeno, di quella di Appio Claudio Cieco, un letterato romano vissuto tra il 350 e il 271 a.C. (ovvero, se ci atteniamo alle date e diamo credito a quanto racconta Wikipedia – non tra le fonti più affidabili che ci siano in giro oggigiorno – uno morto alla veneranda età di 79 anni! Un’età davvero veneranda, calcolando che all’epoca si poteva morire per un raffreddore mal curato…).

E mi domando, infine, ma perché? Perché dovrei essere geloso di Selene, che è sì un’amica, una confidente, una specie di seconda sorella per me, ma, appunto, niente di più, né una fidanzata né una ex né, tantomeno, un’amante?

Che razza di sentimenti nutro io verso una come Selene? (certo che è bella, una delle donne più belle e affascinanti che conosca, e certo che una minigonna nera e luccicante le donerebbe, anche se io preferisco vederla con addosso una gonna più lunga e più classica, più nel suo stile “professorale”, diciamo). 

Che cosa ha spinto il mio cervello a pensare alla gelosia e a collegare questo sentimento (così pericoloso) a un volto così simpatico e affascinante, così pulito e acqua e sapone com’è il volto di Selene?

E perché quella frase che non è altro che una traduzione dal latino?
Che cazzo vuol dire, davvero, nella sua essenza, la frase: “Ogni uomo è artefice del proprio destino”? Che significa? 

Si tratta, forse, di un messaggio poi nemmeno così tanto subliminale che io stesso invio a me stesso per il tramite di Selene affinché mi assuma totalmente le mie sacrosante responsabilità circa la vita che conduco e che, bontà mia, mi sto costruendo con le mie mani e da solo qui in terra straniera? 

Sarà una specie di “pubblicità positiva” che io stesso recito a me stesso affinché mi senta meno oppresso dal senso di stress che a volte mi attanaglia e mi spinge a fare incubi davvero assurdi, oltre che assai spaventosi?

Selene, per favore, rispondimi, dimmi che ne pensi, dammi una tua versione dei fatti (o, ancora meglio, la tua ipotesi interpretativa su questo pazzo “testo onirico”). Sto aspettando. Scrivimi. Sono tutto orecchi… Sono tutto occhi... Scrivimi, dai...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...