viernes, mayo 30, 2008

Mario Monicelli e l'arte di essere coerenti

L'altra notte, intorno all'1,30, mi sono messo a guardare la tv (che in genere lascio spenta, onde evitare rincretinimento temporaneo) e mi sono imbattutto in una lunga intervista dedicata da un programma di Rai2 a Mario Monicelli.

Il giornalista parlava senza microfono, attorniato dai suoi aiutanti (cameraman, fotografi, attrezzisti vari) dentro la casa del Maestro. E già questo è un dettaglio che colpiva: non è mica facile oggi entrare in casa dei Maestri. Si trattava di una casa normale, diremmo quasi “comune”, anche se si notava il tocco dell'artista. Libri sparsi un po' ovunque, mobili antichi, molte foto e molti premi del regista de La grande guerra, I soliti ignoti, Amici miei, L'armata Brancaleone e tanti altri capolavori che sono giustamente entrati a far parte della Storia del Cinema Mondiale.

Ma la cosa che colpiva di più era l'atteggiamento dello stesso Monicelli: 93enne, pieno di rughe, con la barba bianca sfatta che ha da sempre caratterizzato la sua “maschera”, Monicelli parlava senza censure e senza curare troppo la forma, senza un linguaggio forbito, ma dicendo sempre la verità (la “sua” verità, ovviamente, non quella che il giornalista si sarebbe aspettato o quella che il pubblico potrebbe indovinare sulla base dei fatti noti intorno a questo autore).
Monicelli sembrava infastidito dal “chiacchiericcio” del giornalista, anche se guardava con amore gli spezzoni dei film che questi sottoponeva alla sua attenzione. Poi, a un certo punto, si è messo a spiegare quello che è successo all'Italia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale: la Resistenza e l'anti-fascismo avevano fatto la Repubblica, l'Italia aveva tutte le carte in regola per diventare un paese civile e progredito, e invece, cosa è successo? E' successo che dagli anni 50 in poi, dietro alle false illusioni del Progresso, si è persa la ragione e abbiamo gettato nel dimenticatoio quello che eravamo e quello che avremmo potuto essere in futuro:“Oggi regna la raccomandazione; in Italia non esiste una vera meritocrazia; chi è bravo stenta e chi è asino e raccomandato va avanti e arriva al potere, anche a quello politico. Non si salva nessuno: anche tra loro, tra le maestranze, c'è sicuramente qualcuno che è entrato grazie alla raccomandazione di qualcun altro. E così, all'Università il professore promuove solo il figlio o il nipote del collega; all'ospedale, il Primario fa entrare i familiari o i conoscenti più stretti; in un qualsivoglia tipo di lavoro, si va avanti grazie alla raccomandazione, è uno schifo, è una catastrofe immane, guarda, io te lo dico con tutta onestà, spero che prima o poi arrivi il collasso, perché un sistema che funziona in questo modo è destinato a collassare, non ci sono altre soluzioni...”.

Uno ascolta queste parole e ci resta di sasso: è così, è proprio così, ti viene da dirti. E allora la domanda che nasce spontanea è: “ma perché queste cose le dice Mario Monicelli e non gli altri? Perché i media, i politici, i medici, gli studenti non vi fanno quasi mai cenno, o almeno, non in questi termini così chiari e cristallini?”.

Il giornalista gli chiede se crede in Dio: e Mario Monicelli risponde di no, non crede in un solo e unico Dio cattivo e temibile che ci punisce e ci fa vivere nel terrore del peccato, crede in Venere, in Marte, nei tanti dei pagani della tradizione. “Che male gli ho fatto io a Dio, se è stato lui a mettermi al mondo? Io non devo perdonargli nulla, fatti suoi se mi ha messo qui dove sto... sempre che sia stato lui ed esista davvero”.

Forse solo quando si è molto piccoli o, al contrario, quando si è molto grandi; forse solo chi è bambino o chi è giunto alla vecchiaia più piena, può permettersi il lusso di dire le cose che pensa con tanta onestà e chiarezza; senza girarci attorno; senza usare maschere ipocrite. Ecco anche perché si dice che i vecchi sono come i bambini: dicono la verità, e non importa loro un bel nulla che qualcuno non sia d'accordo o possa sgridarli. Quando ci si avvina alla morte diventa tutto più chiaro: e anche il parlare si fa più limpido e onesto. Di quanti Monicelli avremmo bisogno di questi tempi bui affinché le cose cambino o migliorino almeno un po'?

lunes, mayo 26, 2008





Vergogna, di J. D. Coetzee e L'elenco telefonico di Atlantide, di Tullio Avoledo



Approfitto della pausa semi-estiva prevista per legge dalle lezioni universitarie per riempire le ore libere che mi lasciano i miei alunni con due attività per me fondamentali: le corse in mountain-bike e la lettura.

Il primo libro che ho “divorato” in questi giorni s'intitola Vergogna (Torino, Einaudi, 2000; tit. originale: “Disgrace”, 234 pp.) ed è del Premio Nobel del 2003 J. D. Coetzee. Non conoscevo questo scrittore afroamericano e Vergogna è il primo romanzo che mi capita di leggere, tra quelli che ha pubblicato fino a oggi.

David Lurie è un docente che insegna Letteratura Inglese all'Università. Sogna di scrivere un'opera lirica che racconti con l'aiuto della musica l'ultima fase della vita avventurosa di Lord Byron, quando questi si trova a Ravenna e accende di passione irrefrenabile la bella Teresa Guiccioli, moglie del suo amico italiano. Potremmo considerare David Lurie una sorta di “versione parodica” del famoso poeta romantico: nei primi capitoli ci viene narrata la sua placida vita di cinquantenne che, con due matrimoni falliti alle spalle e per soddisfare le voglie sessuali, ricorre a una prostituta piacevole e simpatica che si fa chiamare Soraya. Nei capitoli seguenti, invece, ci viene presentato quando scoppia improvvisa la passione per una sua studentessa, di circa trent'anni più giovane di lui., e la sua vita subisce una specie di scossa sismica.
Come reagisce il mondo a una simile relazione? Con lo scandalo e l'indignazione. L'Università caccia il vecchio lascivo; anzi, lo obbliga a partecipare a una sorta di processo in cui David dovrebbe ammettere le proprie colpe e pentirsi pubblicamente. E' questo il nodo tematico del romanzo: Vergogna ci parla di che cos'è diventata oggi la “morale”; di come è impossibile distinguere il bene dal male se il metro di giudizio è stabilito a priori da una corte di individui che si considerano migliori degli altri; di che cosa voglia dire realmente pentirsi (o provare vergogna). Vergogna ci parla della difficoltà di scegliersi una vita al di là della morale e dei valori che la società (troppo spesso surrettiziamente) ci impone (inutile rimarcare la radice dostoevskiana di un simile romanzo).

Per sbarcare il lunario e dopo essere caduto in disgrazia, David fa un viaggio a ritroso nel tempo: va a visitare sua figlia Lucy in quella che dovrebbe essere la sua fattoria personale. Lucy ha rifiutato le norme sociali: lesbica e convivente con una donna più grande di lei, accetta che Petrus, un africano suo vicino di casa, si impossessi della sua terra in cambio di protezione contro gli sbandati e i razziatori della zona. Lucy non capisce più il padre, non solo per il distacco generazionale, ma anche e soprattutto perché lui la considera ancora una bambina, e un personaggio secondario in quel romanzo “centrale” e “importante” che è la sua vita (Lucy gli risponderà che “siamo tutti personaggi centrali e importanti nelle nostre vite” - come darle torto).

David prova a capire quali meccanismi guidino il comportamento di Lucy e a un certo punto si mette al servizio di Bev Shaw, una sorta di veterinaria che aiuta i cani malati a morire, iniettando loro del veleno con una siringa. Le pagine dedicate alle descrizioni delle varie malattie degli animali sono terribili, nella loro scarna efficacia e nel loro duro realismo. Vergogna è anche questo: una rappresentazione icastica del mondo contemporaneo come apocalisse. I primi a morire sono loro, gli animali, soprattutto i cani, che ci amano incondizionatamente, senza volere nulla in cambio. L'inceneritore brucia le loro ossa e le riduce in cenere. Cosa possiamo fare per contrastare questa catastrofe quotidiana? Come fermare l'apocalisse? Sono queste alcune delle domande (anch'esse di stampo morale) che ci invita a porci l'autore con questo libro scritto con una prosa semplicemente perfetta nella sua apparente (e falsa) semplicità.

Ben diverso è il discorso su L'elenco telefonico di Atlantide, di Tullio Avoledo (Torino, Einaudi, 2003, 500 pp.). Qui i problemi morali ci sono, ma restano sullo sfondo. Ciò che conta è la trama, sviluppata con piglio energico e con grande senso dell'avventura (e del colpo di scena ottocentesco). Non è una caso se lo stesso autore confessa (in un'intervista reperibile su internet) che Salgari è stato uno degli autori che più lo hanno influenzato nella sua esperienza di lettore (prima) e di scrittore (poi).

Al centro della serie degli eventi a volte assurdi, altre grotteschi che formano il plot c'è Giulio Rovedo (inutile dire che foneticamente il nome del protagonista riprende quello dell'autore in carne ed ossa), un giovane che lavora in banca come responsabile legale. La vita quotidiana del dipendente bancario sembra l'anticamera dell'inferno per gli atteggiamenti che minano i rapporti umani tra dipendenti e superiori, oltre che tra dipendenti e familiari. Ovunque regna l'ipocrisia e la corruzione; l'arrivismo e l'egoismo sono l'unica vera moneta di scambio. In un quadro così triste, una cena dal cinese in compagnia dei vecchi amici sembra un evento eccezionale. E' in corrispondenza di questo capitolo (l'VIII), che Giulio scherza e ride coi vecchi compagni di liceo giocando a quello che loro definiscono “il Bartezzaghi”. In sintesi: si sceglie una definizione arbitraria per permettere all'avversario d'indovinare il termine esatto cui ci si sta riferendo con giochi di parole a volte davvero divertenti (in genere, il titolo di un film o di un romanzo famoso). Esempio: “scena muta all'esame di geometria: I solidi ignoti”; oppure: “speculazione edilizia: Rasa Howard”. Uno degli amici si lamenta del cibo: e l'altro, come fosse Groucho Marx: “i pignoli finiscono negli involtini”.

A un certo punto, Giulio finisce immischiato nella mega-fusione che porta la sua piccola banca a ridimensionamenti drastici e a licenziamenti in tronco; Bancalleanza, che è il gruppo che comanda su tutte le piccole filiali, lo vuole spedire a Milano. Un incontro sul treno, però, cambia le carte in tavola. Non sto qui a raccontare in quale modo strampalato Bancalleanza diventa una specie di consorteria massonica che va in cerca dell'Arca dell'Alleanza di origine biblica. Né posso qui spiegare come nel Nobile (il condominio in cui vive temporaneamente Giulio, dopo una crisi con sua moglie e un tradimento a sorpresa con la responsabile delle risorse umane), si scopre una fonte sacra la cui acqua sembra fare letteralmente i miracoli. Il punto è che la narrazione scorre velocemente verso un finale quasi-apocalittico ma molto più artificiale e artificioso di quello evocato da J. D. Coetzee nel romanzo succitato. Una volta lessi un saggio di Carla Benedetti dal titolo: Pasolini contro Calvino; lì si prefigurava la contrapposizione tra due stili che sono anche (inevitabilmente) due modi diversi di intendere la letteratura e la vita (oltre che il ruolo dello scrittore nei confronti della vita). Se Pasolini è lo scrittore “impegnato”, allora Calvino è lo scrittore “giocoso” o "ludico", che tratta l'intera Storia della Letteratura come “enciclopedia aperta” e sempre ricomponibile a piacere e ad libitum. La scrittura pasoliniana si sporca degli elementi del reale, quando quella calviniana tenta di offrirci eleganti arabeschi postmoderni del mondo (appunto) postmoderno in cui siamo sommersi e di cui formiamo parte.
Se dovessimo allora catalogare Avoledo in una di queste due “scritture”, non avrei dubbi: rientra in quella più sopra allusa come “calviniana”. Ciò non toglie che L'elenco telefonico di Atlantide intrattenga offrendo spunti di riflessione e squarci lucidi sullo “sporco” che caratterizza certi paesaggi.

Venezia, Milano, e una non ben definita e futuristica “Pista Prima” (o era "Prima Pista"?) sono gli scenari in cui si muove questo povero cristo alle prese con una banca vampira che succhia il denaro dei suoi clienti e prova a dominare le menti dei più; alla fine, nella “Coda” finale, scopriamo che tutto è già successo: ovvero, che c'è già stata una terza guerra mondiale; che Milano (insieme al Sud Italia) è stato percorso da tumulti razziali terribili nel 2027 (come non avvertire il tono profetico di questo brano leggendo i giornali di oggi? Il romanzo è stato pubblicato nel 2003 – Alemanno non era ancora sindaco di Roma, i rom non erano stati attaccati a Napoli da gente forse stufa delle loro baracche, forse spinta a gesti estremi su consiglio o sotto l'influenza della Camorra); le grosse multinazionali sono riuscite a catturare le immagini della nostra mente e i nostri ricordi vitali grazie a dei programmi che, racchiudendo tutto in microchip minuscoli, permettono al giocatore di “rivedere” e “rivivere” l'avventura della persona deceduta. Non sorprende allora scoprire come nella finalissima pagina dei ringraziamenti Avoledo ringrazi proprio Sir Arthur C. Clarke (l'inventore del romanzo 2001: A Space Odissey, da cui Kubrick trasse il famoso film). Anzi, dall'intervista che ho citato sopra da internet si capisce che Avoledo condivide con Rovedo una passione tutta letteraria: anche lui, come il suo protagonista romanzesco, intrattiene una corrispondenza fitta con i suoi autori preferiti. Tra questi, il famoso autore di opere di fantascienza.

Se questo è quanto ci aspetta nel futuro, allora non possiamo non dirci “stressati”. Uno crede che la morte sia la fine di tutto o l'ingresso in un mondo altro, in un mondo eterno in cui potrà gioire dei piacere paradisiaci di cui ci racconta anche Dante (tra gli altri) e invece scopre che la nostra anima potrà finire incapsulata in un microchip che verrà utilizzato come “sceneggiatura primaria” per rimontare il film della nostra vita a uso e consumo di spettatori futuri... Un quadro apocalittico anche questo, ma a mio parere un po' meno “angoscioso” e meno “profondo” di quello disegnato da Coetzee in Vergogna. Se lì uno degli "ipotesti" centrali è Dostoevski, qui è Martin Mystère, accompagnato da tanto cinema e da tanta letteratura "distopica" e "di genere"...

domingo, mayo 25, 2008



Le fasi dell'amore?

Ci sono delle fasi regolari che scandiscono un rapporto amoroso senza che noi ce ne accorgiamo. L'amore è prevedibile, al contrario di quanto si possa pensare. C'è il momento (fantastico, nel senso etimologico del termine) dell'infatuazione; c'è il momento (pieno di illusioni e di speranze per il futuro) dell'innamoramento vero e proprio (quando si conosce la persona che ci ha colpito, che ha colpito i nostri sensi e titillato la nostra immaginazione); c'è la fase dell'amore stabilizzato, quello fatto di tanti piccoli, a volte minuscoli, gesti quotidiani, che scandiscono una vita di coppia ormai collaudata per cui l'altro capisce le vere intenzioni dell'altra (o i suoi desideri più nascosti) con un semplice sguardo o gesto d'intesa; e c'è la fase della crisi, dell'allontanamento, dell'abbandono, della separazione (sono i momenti peggiori, quelli durante i quali ci si domanda perché: perché è finita; perché proprio a me; perché questa persona che avevo affianco mi ha mostrato un lato del suo carattere che io disconoscevo; perché questa reazione così violenta - o così fredda e indifferente – in amore i valori sono eternamente e inevitabilmente relativi: ciò che oggi amiamo possiamo domani arrivare ad odiarlo; un luogo familiare, un letto in cui abbiamo fatto l'amore innumerevoli volte, una casa in cui abbiamo pranzato a nostro completo agio possono diventare rispettivamente un luogo terribile, un letto di spine e una casa in cui ormai saremo accettati sempre e solo come ospiti - momentanei, ospiti che non sono destinati a durare, lì sono di passaggio, purtroppo).
E poi c'è la fase del re-incontro insperato: è quella in cui i due si rivedono dopo magari un mese (o una settimana, o un anno: anche il tempo, in amore, assume valori altamente relativi e malleabili) e si scrutano l'un l'altra per vedere se la persona che ora non è più al nostro fianco ha già trovato un sostituto, ci ha già rimpiazzati con un'altra o un altro; e basta accorgersi del fatto che lui (o lei) è solo (o sola) per farsi coraggio e continuare a guardare e ad avvicinarsi, quasi a fiutarsi, come fanno tra loro i cani (indipendentemente dal sesso), e ci si osserva in cagnesco (appunto), lui guarda lei come fosse ancora “lei”, una sua metà, la sua dolce metà, e una “cosa sua”, che faceva parte poco prima della propria intimità, e lei ricambia lo sguardo e guarda lui come fosse ancora “lui”, la persona sulla quale faceva tanto affidamento, colui che avrebbe potuta portarla all'altare, ma non l'ha fatto per una strana forma di codardia o di paura atavica, colui che la rassicurava poco tempo prima durante la notte e le carezzava i capelli se aveva fatto un brutto sogno...
Lei e lui si guardano di sottecchi ed entrambi pensano la stessa cosa: “Quello sguardo mi ha contemplato in estasi per tante notti, poco prima che io mi addormentassi; quel corpo è stato dentro di me – oppure: io sono stato dentro quel corpo – così tante volte che è quasi impossibile distinguerle l'una dell'altra, quella bocca l'ho baciata così spesso e con variabile passione che mi sembra assurdo non poterla baciare ancora oggi, che non stiamo più insieme, che non formiamo più una “coppia”, che non viviamo più nello stesso spazio, non abitiamo più la stessa casa, non parliamo più con la stessa sincerità e spontaneità del passato”.
E allora succede che dopo i saluti di rito ci si allontani l'uno dell'altra senza avere il coraggio di riannodare il filo interrotto della storia passata e vissuta in un passato magari ancora recente e ci si ritrova da soli, nella propria camera da letto, a guardarsi allo specchio e a chiedersi se siamo cambiati davvero poi così tanto perché “lei” (o “lui”) non abbiano sentito il desiderio (o il bisogno) di abbracciarci e di stringerci forte, di toccarci i capelli o di baciarci con la lingua come in passato, quando questi gesti (abbracciare, stringere forte, toccare i capelli e baciare con la lingua) non erano l'eccezione, ma la regola, la semplice e pura e cristallina normalità.
E allora è quando ci si sente soli e abbandonati dall'altro (o dall'altra) e si prova un terrore infingardo: quello di restare per sempre orfani di quella persona quando giustamente quella è una delle poche persone che non perderemo mai (perché è entrata a far parte di noi e della nostra personalità e perché non ci abbandonerà mai anche se dovessimo finire la nostra vita tra le braccia di un altro amante, quello che ancora non conosciamo perché non lo abbiamo ancora incontrato, quello che ci sta aspettando chissà dove e da chissà quanto tempo e che chissà se un giorno riusciremo finalmente a raggiungere...).

domingo, mayo 18, 2008

Roma e lo scudetto in potentia



Van Morrison mi culla con la sua splendida Brown eyed girl mentre il cielo si schiarisce e le nuvole vanno via, lasciando il centro del palcoscenico a un sole quasi estivo. Qui a Roma fanno "solo" ventitrè gradi e si sta bene anche in camicia a maniche corte e pantaloncini. Le strade sono stranamente vuote. Poche macchine, poco traffico, perchè è da poco cominciata la partita che potrebbe portare la Roma a vincere lo scudetto (idem per l'Inter, che teme e trema). Io non sono tifoso. E perciò non seguo le partite in tv. Però simpatizzo per i romanisti. Non ho dubbi. Ho pronte macchina fotografica e telecamera nel caso in cui vincesse (il che vuol dire che stanotte non si dorme e che per mesi e mesi i romanisti tartasseranno i laziali e gli interisti con i loro sfottò e le loro battute d'orgoglio di squadra capitolina - i figli della lupa, come amano chiamarsi tra di loro i tifosi di vecchio stampo e di vecchia data).

Van Morrison continua a cantare con la sua voce "desgarrada"; chissà se fuma. Ha il tono del fumatore. Il suono "graffiato" di chi beve e fuma insieme.

Entra mio fratello: "Collegati a simpsonizeme.com. E' un sito in cui ti modificano la foto tessera e ti rifanno i connotati secondo lo stile dei Simpson".

Come no. Ci colleghiamo subito e sottopongo le mie fattezze alle modifiche del programma: ora che sono abbronzato voglio vedere come vengo sotto le spoglie di Apu, il commerciante indiano.

Grandi risate. Poi entra Michela, una sua amica, a prendersi il caffè. Fa ancora più caldo di prima. Spalanchiamo le finestre e il balcone (l'unico che c'è in questa casa al quarto piano d'una palazzina in perfetto stile anni 70). Fumiamo tutti e tre, con calma e chiacchierando del più e del meno, senza fretta alcuna di arrivare ad una conclusione più o meno certa.

E il tempo scorre tranquillo, mentre in giro c'è solo qualche turista, ignaro di quanto potrà accadere da qui a un paio d'ore (i clacson delle auto, il centro intasato, le bandiere giallo-rosse ovunque e sventolanti, la gente impazzita, i tifosi in tripudio...).

Van Morrison è passato a T.B. Sheet, una filaromica taglia a fette l'aria della cameretta. La batteria fa il suo dovere. Il basso accompagna senza dare nell'occhio. La voce passeggia tra i tavoli e le sedie della cucina. Non potrei chiedere di più. Momento perfetto. Perfetta la calma, perfetto il ritmo, piacevole la compagnia, ideale la musica, in una domenica pomeriggio come questa...

jueves, mayo 15, 2008

L'Overlook Hotel




Freddo. Notte fonda. Solitudine che si taglia a fette. La nebbia m'impedisce di ritrovare la strada dell'albergo. Poi impreco e bestemmio a voce bassa e l'incantesimo si scioglie. Sono davanti al famoso Turista Hotel. Una struttura che è rimasta ancorata agli anni '80. Non solo per l'architettura e lo stile della tappezzeria e del mobilio, ma anche per la musica che fa da colonna sonora all'incauto ospite che si mette a fare colazione nel salone della hall. Non so come ha fatto, ma sembra proprio che il proprietario sia riuscito a scovare una frequenza che propone solo ed esclusivamente musica degli anni '80. Anna Oxa, i Ricchi e Poveri, gli Europe, i Duran Duran, gli Spandau Ballet, Loretta Goggi, come cazzo ha fatto questo tizio a trovare una stazione radio che emette solo questa roba? Come?

Lascio lo zainetto su una sedia. Mi accomodo in un tavolino della hall. Mi sento come Jack Nicholson nell'Overlook Hotel. Potrei iniziare anch'io a scrivere su questo block-notes frasi senza senso, del tipo: "Il mattino ha l'oro in bocca", oppure: "mi sento come Jack Nicholson... vieni qua, amore, non ti faccio niente, non avere paura, solo quella tesolina te la spacco... ". Leggo un libro (il mio zaino è sempre stracolmo di libri e per questo è sempre pesante - un macigno sulle spalle). E' di quel folle di Enrique Vila-Matas: s'intitola Bartleby e compagnia e parla di scrittori che hanno smesso di scrivere. Io non ho mai scritto. O meglio: è da quando ho 15 anni che scrivo racconti e poesiole sciocche e diari spuri, ma mai una riga destinata alla pubblicazione. Per vergogna. Perchè non ho mai (mai) creduto (nemmeno per un minuto) che le mie "scritture" potessero interessare qualcuno o avessero il benchè minimo valore "letterario". Se è per questo è molto più "letterario" questo Turista Hotel.

Ecco che entra in scena il portiere di notte. E' un vecchio sulla settantina. Non riesco a dormire quindi potrei approfittarne per scambiare due chiacchiere con lui, ma mi sembra un tipo molto burbero. Mi si avvicina con sguardo incuriosito e, al contempo, compassionevole. Si starà chiedendo che diavolo scrive questo cliente così strambo a quest'ora tarda della notte nella hall deserta.

"Se vuole, di là c'è un televisore. Se è stanco di scrivere. O di leggere".

Non sospettavo l'esistenza di una tv nella hall. E non pensavo che il portiere di notte potesse prendere l'iniziativa e spingersi fino a tanto (rivolgermi la parola e propormi di smetterla di scarabocchiare questo taccuino). Ho accettato. Sono nella stanza segreta. E' una specie di sala per le riunioni o i congressi. Tante sedie vuote, come scheletri in una sala di anatomia. Il televisore, enorme e al plasma, è al centro. Tutte le sedie sono libere. Mi sembra di essere al cinema. Accendo e capisco: c'è la parabolica, si possono vedere anche i canali satellitari. Finisco su canale 145, il programma s'intitola "I viaggi di Alessia" o "di Paola" o "di Romina", una roba del genere. Una voce fuori-campo (la voce della protagonista femminile del programma) accompagna lo spettatore in un viaggio nel mondo della "trasgressione". Alessia (o Paola o Romina) intervista una donna sulla cinquantina, bellissima e "padrona". E' la sadica che, vestita di pelle e tacchi a spillo pungenti e frustini vari, soddisfa i desideri dei suoi clienti masochisti. Dice che ha un passato turbolento. L'intervistatrice invade la sua privacy e ci mostra in soggettiva gli oggetti che si trovano sparpagliati sul suo letto (matrinomiale). "Ho avuto anche un figlio, dal mio ex". Una foto (appositamente oscurata) mostra il figlio quando era un neonato. La donna piange. Paola (o Alessia o Romina) la consola. O almeno, ci prova. Poi si sposta a Bologna, dove ha appuntamento con una "entreneuse" russa. Una prostituta d'alto borgo. E' simpatica e gioviale e offre un caffè all'inviata speciale nel mondo delle perversioni sessuali.

Mi verrebbe da piangere, se non fosse che sono troppo stanco anche per quello. Spengo la tv. Mi accendo una sigaretta, richiudendomi la porta d'ingresso alle spalle. Il portiere di notte sta giocando al solitario al computer. Potrei proporgli di fare una partita a due, con carte vere. Ho paura a tornare in camera. Questo posto è davvero inquietante. E la nebbia avvolge tutte le cose. Un latrato di cane in lontananza. Chissà ora chi starà intervistando Romina (o Alessia o Paola)...

jueves, mayo 08, 2008



L'asino di Sancho

Esiste una branca del "cervantismo" (disciplina interna all'ispanismo che si dedica a indagare il senso profondo e i significati presuntamente nascosti di tutte le opere di Miguel de Cervantes Saavedra, "regocijo de las Musas" in quanto autore del famoso - e qui già citato più volte - Don Quijote de la Mancha) che si occupa dei famosi "descuidos" presenti nel romanzo del folle idalgo. I "descuidos", ovverossia, quegli errori plateali, quell'insieme d'incongruenze presenti nel testo e che rompono la verosimiglianza (o interrompono improvvisamente la coerenza narrativa della trama) spingendo il lettore a comportarsi esattamente come lo spettatore che, al cinema, va a caccia di "bloopers", ovvero di quegli errori di cui il regista non si è accorto nel montaggio finale dell'opera (un microfono che appare all'improvviso dall'alto dell'inquadratura; un attore che nella scena successiva indossa una maglia d'un colore diverso da quella che aveva nella scena precedente, e così via).
Tra i vari "descuidos" (o "bloopers") ce n'è uno che è passato alla storia e di cui si accorse subito lo stesso Cervantes (fornendo spiegazioni alquanto raffazzonate nella "Segunda Parte" del Quijote: il furto dell'asinello su cui viaggia il buon Sancho Panza. Non sto qui a ricostruire la storia della spiegazione razionale (o più o meno logica) che diede l'autore dopo essersi accorto del fatto che, in un determinato capitolo della "Primera Parte" (il 23, se non erro), si narrava di come Sancho perdesse il proprio asino (per un furto compiuto da Ginés de Pasamonte, addirittura) e tornasse a cavalcarlo al fianco del fedele Rocinante di Don Quijote nei capitoli seguenti (sono stati scritti - e continueranno a pubblicarsi - un mucchio di saggi su simili questioni). Ciò che colpisce il lettore è lo stile e il tono in cui è scritto il lamento del povero scudiero:
"Oh, hijo de mis entrañas, nacido en mi misma casa, brinco de mis hijos, regalo de mi mujer, envidia de mis vecinos, alivio de mis cargas y, finalmente, sustentador de la mitad de mi persona, porque con veinte y seis maravedís que ganaba cada día mediaba yo mi despensa!"
In questo brevissimo brano scorgiamo la cosiddetta "ironia superiore" di Cervantes, un'attenzione tutta umana per i dolori terrestri e un'acuta capacità di alternare al tono grave il tono basso (Sancho calcola quanti soldi riesce a guadagnare grazie alla fatica tutta fisica dell'asino).
Sancho è disperato, d'ora in poi dovrà montare in groppa a Rocinante o andare a piedi o, peggio, rifarsi del maltolto rubando un altro cavallo o asinello a qualche viandante. Don Quijote, che è suo amico, prova a consolarlo. Poi gli promette di procacciargliene almeno tre, in ricompensa dei suoi servizi (stessa identica promessa farà nel cap. 25, quando redige la lettera a Dulcinea che lo stesso Sancho dovrà recapitarle).
Come finisce il brano in questione? Con queste parole, sintetiche ma efficaci:
"Consolose Sancho con esto y limpio sus lagrimas, templo sus sollozos y agradecio a don Quijote la merced que le hacia [...]".
La paura è passata; l'angoscia pure: i due sono di nuovo pronti ad affrontare le innumerevoli e assurde avventure che Don Quijote sogna nei suoi sogni di pazzo innamorato di letteratura. Non basta il furto dell'asino per fermarli; e poi sono amici, si danno una mano, come suolsi dire, l'un con l'altro. Nei capp. successivi Sancho ritroverà (o dirà di ritrovare) l'amato animale. Il figlio delle sue interiora, l'invidia dei suoi vicini, la gioia di sua moglie, il divertimento dei suoi figli... tutto è bene ciò che finisce bene... e il lettore sorride, nel leggere le spiegazioni più o meno valide che ci offre l'autore nella seconda parte di un romanzo talmente "in progress" che fa acqua da tutte le parti, si perdono i pezzi, si scordano gli asini, ci si dimentica di quante volte Don Quijote cena nella stessa locanda, e via di seguito...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...