martes, diciembre 27, 2011


Come ogni anno




Come ogni anno, anche quest’anno siamo giunti alla fine di Dicembre e, come di consueto, è tempo di bilanci. Si stilano elenchi, si fanno le liste: dei libri più letti, dei film più visti, dei cd più ascoltati o più scaricati da internet. Si fanno bilanci, insomma. E io non ho più voglia di farne. Nemmeno di fare il bilancio della mia vita oggi. Non sono più adolescente; non sono più quel ragazzo che conservava tutti i ritagli di giornale, tutte le recensioni dei film che più lo interessavano; non faccio più l’elenco dei libri non ancora letti (o dei film non ancora visti); non colleziono più poster o manifesti dei film preferiti, come ero solito fare intorno agli anni 90.

E così, come ogni anno, di questi tempi, stacco il telefono fisso, spengo il cellulare e smetto di frequentare amici e parenti; una volta finita la vigilia di Natale e portati a termine i rituali previsti per i mega-pranzi e le mega-cene comandate da calendario, mi rintano in casa, non vedo nessuno, e mi limito a guardare il mondo da una finestra (quella della mia cameretta, della stanza che mi ha visto crescere, nel tempo, fino a oggi, che ho 35 anni, ormai…). E mi limito a guardare filmacci horror splatter come Hostel: Part II (2007) di quel sadico col gusto del “gore” di Eli Roth o The Exorcism of Emily Rose (2005) del collega – altrettanto visionario e amante delle scene sanguinolente – Scott Derrickson… A volte approfitto delle feste natalizie per riguardare quei film che, quando li vidi la prima volta, mi lasciarono a bocca aperta o mi coinvolsero in modo anomalo, o stimolarono la mia attenzione, roba tipo Cléo de 5 à 7 (1961) di Angès Varda, con la deliziosa Corinne Marchand, o lo “spielberghiano” The Goonies (1985) di Richard Donner, o il sottilmente inquietante, oltreché elegante, Festen (1998) di Thomas Vinterberg…

Mi piace starmene da solo in casa, in questo periodo di spese folli e di parenti serpenti che si ritrovano allo stesso tavolo dopo mesi d’indifferenza o di semplice distacco educato. E ascoltare musica, che mi rilassa e mi tiene compagnia, mentre guardo gente impazzita correre a destra e a sinistra dalla finestra della mia cameretta… Da Nina Simone a Luigi Boccherini, con la sua arcinota e notevole Musica notturna per le strade di Madrid, dai Radiohead (“Karma Police” e “No surprises” in cima alla lista) agli Skunk Anansie (con la voce acuta e potente di Skin), da Mozart (i brani più allegretti dal Don Giovanni di Monsignor Da Ponte) agli Articolo 31, da Cole Porter (riscoperto grazie all’ultimo film di Woody Allen) a Lou Reed, quando cantava con i Velvet Underground, da Billy Idol a Elvis Presley, da Nora Jones (“Not too late” mi fa piangere) ai classici di De André, etc. etc.

E ogni tanto passeggio tra i boschi dei monti dei paesini abruzzesi che mi circondano, ripensando a quante cose sono capitate anche quest’anno, incontri fortuiti, che solo in seguito crediamo scritti dal destino, e amori incipienti mai nati o diventati solo storie d’una notte di passione consumate su divani dell’Ikea (“per favore, usiamo il preservativo, non ho voglia di avere figli ora”), volti di amiche note (tra cui alcune delle 3 o 4 lettrici fisse di questo blog) e di amici ritrovati dopo anni (“Ma dai! Ti sei addottorato e non mi hai detto niente? Eri a Praga, non ci siamo sentiti, sei sparito tu, non io”), di morti ammazzati e di suicidi collettivi, di strepitosi crolli in borsa e di nuovi pianeti scoperti ai confini dello spazio noto, di libri freschi di stampa (pensavo che mi avrebbe fatto molto più effetto vedere il mio nome stampigliato sul frontespizio di un libro) a traduzioni appena finite (e romanzi gelosamente custoditi nel cassetto – prima o poi lo troverò il coraggio di fartelo leggere, abbi pazienza, amore mio…), e catene di Sant’Antonio che ti fanno solo bestemmiare, sigarette fumate davanti a perfetti sconosciuti e dialoghi surreali in mezzo al vorticare del traffico di Napoli, pizze alla margherita da 30 e lode e bacio accademico, e lezioni preparate con precisione svizzera, cronometri di precisione e appuntamenti (per sempre) mancati…

Avevo iniziato questo post dicendo che odio fare elenchi, bilanci e liste e invece… l’intero post non è altro che questo: un elenco (un bilancio?) o una lista di cose, persone, titoli, fatti e oggetti che prima o poi ci aiuteranno (forse) a capire il senso (della vita?). Buon Natale a tutti… e felice anno nuovo…

jueves, diciembre 22, 2011


Midnight in Paris: le età dell’oro (e i sogni ad occhi aperti)




Un uomo e una donna camminano lungo la balaustra secolare di un ponte di Parigi, di notte, mentre piove. “Parigi è più bella quando piove”, dice la ragazza, che non ha paura di bagnarsi e che s’accorda, senza saperlo, allo stato d’animo e ai gusti del suo interlocutore (in sottofondo parte la musica di Cole Porter, la canzone che s’intitola “Let’s do it” e che, in parte, traduce in musica il senso del film, Midnight in Paris, l’ultimo di Woody Allen).

Il Nostro sembra Federico Fellini quando gioca con la “macchina-cinema” per dare libero sfogo all’immaginazione e farci attraversare (come Alice nel Paese delle Meraviglie) le soglie di mondi apparentemente distanti o contrapposti fra di loro: era già successo, in parte, nel geniale (a tratti onirico o fantascientifico) Zelig, del 1983, con il personaggio del povero ebreo che cambia personalità e tratti somatici a seconda di chi si trova davanti e, poco dopo, nel 1985, con La rosa purpurea del Cairo, quando Mia Farrow s’innamora dell’attore dei suoi sogni e finisce per indurlo ad “oltrepassare” lo schermo cinematografico per vivere una storia d’amore passionale proprio perché si sa già impossibile e destinata a fallire. Accade lo stesso in Midnight in Paris, in cui si raccontano le vicende di uno sceneggiatore frustrato che si guadagna da vivere scrivendo trame per film-spazzatura hollywoodiani e che, nel tempo libero, lavora al libro della sua vita, quello in cui tentare di esprimere tutte le sue doti letterarie. E’ in procinto del matrimonio con la sua fidanzata bella e superficiale, figlia di gente ricca, che Gil (questo il nome del protagonista) si ubriaca, perdendosi per le strade della sua amatissima Parigi e, a mezzanotte in punto - e a differenza di Cenerentola -, vive l’incantesimo di finire nella capitale degli anni 20. E’ qui che, dopo lo shock iniziale, entrerà in contatto con i suoi miti personali: da un rude e burbero Ernest Hemingway a un simpatico e gioviale Scott Fitzgerald (alle prese con le follie e la gelosia di Zelda); dall’intelligente e disponibile Gertrude Stein (che si presta addirittura a leggere e a dare consigli letterari all’incredulo scrittore in erba) al folle e mitomane Salvador Dalí; da Luis Buñuel (cui Gil suggerirà la trama del “futuro” L’angelo sterminatore) a Pablo Picasso. Un mondo meraviglioso, pieno di gente interessante, molto più affascinante e appassionante dei nostri primi anni 10 del XXI secolo…

In realtà, non è tutto oro quello che luccica: dopo aver conosciuto la bellissima amante di Picasso, Gil capisce che tutti sogniamo di vivere in una Parigi che non esiste più perché ormai appartenente al passato; il relativismo temporale (e il sogno di vivere in un passato visto come “età dell’oro”) colpisce tutti, anche chi, come l’avvenente fanciulla, sogna di vivere nella Parigi della Belle Epoque, quella dei Gauguin e dei Toulouse-Lautrec… (e così loro: molto meglio il Rinascimento! Quando a dipingere c’erano mostri sacri come Michelangelo o Raffaello)…

Ognuno ha il presente che si merita; e sognare non costa nulla, anzi, a volte ci aiuta a capire meglio quello che abbiamo davanti (o sotto) ai nostri occhi. Lo impara anche Gil, che tornato al “suo” (e al “nostro”) presente decide di lasciare la futura moglie e di restare a Parigi per scrivere e dedicarsi a ciò che più lo appassiona; forse lo impareremo anche noi spettatori – anche se per un’oretta e mezza abbiamo avuto il lusso di assistere alle chiacchiere e ai discorsi di gente molto più interessante di quella con cui abbiamo a che fare quotidianamente: Picasso, Hemingway, T. S. Eliot, Scott Fitzgerald, che mondo meraviglioso quello del passato… e quant’è piccolo e insulso e prosaico e privo di magia, quello del presente…

P.S.: alla fine, quando il film è finito e i titoli di coda hanno cominciato a scorrere, ho pensato a come potrebbe essere il futuro senza più Woody Allen che, anno dopo anno, sforna film come fossero biscotti al burro. E mi sono subito consolato, al pensiero che, anche quando non ci sarà più lui, fisicamente presente e in carne ed ossa, ci resteranno sempre i suoi film, a ricordarci chi era, e quant’era bravo a farci ridere, sorridere, e sognare ad occhi aperti per un’oretta e mezza o poco più con le sue storie e i suoi personaggi sognanti, perennemente insoddisfatti e alla perenne ricerca della felicità o di qualcosa che non esiste o che è, semplicemente, irraggiungibile.

lunes, diciembre 12, 2011


1Q84 di Haruki Murakami: quando l’inverosimile fa perdere mordente



Dopo l’entusiasmo che mi hanno trasmesso i suoi racconti (cfr. post dedicato alla raccolta Tutti i figli di Dio danzano), mi sono accinto a leggere l’ultimo romanzo di Haruki Murakami: 1Q84 è un’opera-mondo (per dirla con Franco Moretti) ambientato nella Tokyo del 1984 e, al contempo, in una sorta di universo parallelo in cui il cielo ospita due lune, simili, eppure diverse, l’una dall’altra (una è più piccola e di colore verde, rispetto a quella grigia – o giallastra – che conosciamo tutti). Non si tratta di un romanzo distopico alla 1984 (e i riferimenti a George Orwell e al personaggio del Grande Fratello ci sono, anche se non sono quelli più decisivi); né di un romanzo fantascientifico (sebbene si citino il film Un viaggio allucinante e universi in cui, appunto, è possibile scorgere due lune in cielo) né di un’opera fantastica (sebbene Alice nel paese delle meraviglie, con lo specchio che fa scivolare in un’altra dimensione, e il cappellaio matto, insieme allo Stregatto, facciano anche loro una piccola, breve comparsa); si tratta, piuttosto, di un’opera eterodossa, ibrida, in cui si mescolano tutti questi elementi per trasportare il lettore in un mondo romanzesco in cui si smarriscono le coordinate spazio-temporali e i personaggi vivono esperienze al limite (della verosimiglianza, della moralità, della fede religiosa).

Non riassumerò la trama di un libro che, nella traduzione italiana per Einaudi, arriva a un totale di 718 pp. (e siamo solo al primo dei due volumi previsti! Nell’ed. giapponese, e a quanto leggo da due recensioni del New York Times, il testo è suddiviso in 3 volumoni per un totale di… chissà quante pagine – nessuno lo dice, ma quante sono?); sottolineo, invece, come proprio il mancato rispetto del principio di verosimiglianza, in alcuni brani, tolga credibilità al narratore (esterno, in terza persona, come nei buoni romanzi ottocenteschi, o come in un romanzo di Dickens – pure lui viene citato al volo, all’interno della trama); è proprio la mancanza di verosimiglianza di certe scene o brani a togliere a volte al lettore il piacere di farsi cullare da questo stesso narratore abilissimo a seguire (come se si trattasse di due diversi spartiti musicali) i destini dei due protagonisti.

Aomame (in giapponese il nome significa “pisello verde”) è una giovane fredda e determinata che, di giorno, fa l’insegnante di aerobica e stretching per clienti ricchi e facoltosi e, di notte, si trasforma in una spietata serial-killer che “manda all’altro mondo” uomini che odiano le donne, stupratori di bambine e odiosi mariti che si macchiano di sadismo nei confronti delle povere mogli.
Tengo, invece, è un trentenne calmo e tranquillo che conduce una vita regolare e fa il docente di matematica in una scuola privata che prepara ad entrare all’Università. Ogni Venerdì ospita nel suo umile appartamento una donna sposata di dieci anni più vecchia di lui. E nel tempo libero, Tengo coltiva la passione per la scrittura, anche se finora ha scritto solo racconti e non ha pubblicato mai nulla con il proprio nome.

1Q84 si sviluppa attraverso le trame dei due protagonisti per cui, ai capitoli dedicati ad Aomame si alternano quelli dedicati a Tengo. Fino a quando, in modo rocambolesco e con spiegazioni che lasciano alquanto di stucco, i destini dei due non si incroceranno (cosa che accade, per poco, nei capitoli finali di questo primo volume e che, spero, verrà narrato distesamente nell’altro tomo ancora non pubblicato in italiano).

Perno attorno a cui ruotano sia Aomame che Tengo è la diciassettenne Fukada Eriko, autrice di un romanzo che s’intitola La crisalide d’aria e che, invece che una narrazione fittizia, sembra essere scritto come una “cronaca” di eventi realmente accaduti. Fukada Eriko, cresciuta all’interno di una sorta di setta religiosa con regole tutte sue, ha lasciato morire una capretta che le era stata lasciata in custodia; punita e lasciata sola all’interno di una stanza isolata e buia, di notte, la ragazza vede fuoriuscire dalla bocca dell’animale i cosiddetti Little People, degli esseri dalle sembianze umane, ma in miniatura, che, a quanto pare, si divertono a sbilanciare l’equilibrio tra bene e male all’interno del mondo parallelo di 1Q84… (non disdegnando nemmeno di cantare in coro un motivetto musicale che fa “ho ho”)…

Ecco: ci siamo; è qui, è proprio qui che trovo l’inghippo o l’intoppo. Il narratore è troppo, davvero troppo inventivo (e, ahinoi, anche troppo inverosimile) nel creare quest’altra Terra su cui agiscono e si muovono nell’oscurità questi cosiddetti Little People. La verosimiglianza è fondamentale, anche all’interno di un universo di finzione di stampo distopico (anche se, ripeto, qui Orwell c’entra poco; ci sono solo velati accenni alla contrapposizione tra comunismo e capitalismo, ma in quanto a una presa di posizione netta, dal punto di vista ideologico, il narratore resta sul vago).

Il problema aumenta, se pensiamo a come potrà finire la storia (d’amore) tra Tengo e Aomame (chiamati, forse per il tramite di Fukaeri – questo il nome d’arte della diciassettenne – a risolvere i problemi del mondo nell’eterna lotta tra bene e male).

Murakami è un maestro nell’arte di raccontare le vite minime, banali, piatte dei suoi anti-eroi e lo fa con uno stile peculiare che affascina e strega, ma sbaglia quando, seguendo la sua immaginazione, si lascia andare a soluzioni narrative che sfiorano il fumetto manga o il film di serie Z. Eppure… ho letto questo tomo in poco meno di due settimane, e ogni volta che smettevo di leggere, perché dovevo studiare o lavorare o uscire di casa, non vedevo l’ora di tornare ad aprire il libro per seguire le vicende di Aomame e Tengo… e chissà, a questo punto, come finirà la loro storia d’amore e che fine faranno quei brutti mostriciattoli detti Little People…

domingo, diciembre 04, 2011

Tra operetta e film noir

Esterno notte: una città di provincia, nel Sud Italia, completamente immersa nella nebbia. E' l'alba e mi sveglio con una strana sensazione di angoscia, come se un peso mi opprimesse il petto e facessi fatica a respirare. Sono le sei del mattino; fisso il soffitto vicino, a pochi centimetri dal mio volto (la mansarda si abbassa lungo la pendente del tetto e il letto è posizionato nel punto più basso): osservo delle macchie di cui non mi ero mai reso conto prima d'ora, macchie che sono come ombre sul soffitto, ombre che mimano forme strambe, come un topo, un serpente, forse un gufo dalle ali spiegate... Mi alzo e preparo tutto l'occorrente per fare una lauta colazione (tazza di latte e caffè, uno yogurt, delle fette biscottate imburrate, la marmellata, il cucchiaino e il cucchiaio più grande, lo zucchero e i corn-flakes, i biscotti al cioccolato e una banana). Accendo la tv e un giornalista dai capelli bianchi molto ricci ripassa le notizie principali a partire dalle prime pagine dei giornali. Fa freddo. Mangio in fretta. Mi rinchiudo nel bagno e mi lavo rapidamente la faccia e le ascelle. Preparo i libri e gli appunti per la lezione. Afferro le chiavi e indosso al volo il cappotto imbottito. Scendo le scale e mi preparo a vivere la mia giornata di lavoro quotidiano.

Esterno giorno: la nebbia è ancora folta; la prima persona che incontro, camminando a passi rapidi sul marciapiede, è un vecchietto stranissimo che indossa la tipica coppola e sostiene, nella mano sinistra, un bastone di legno tutto piegato e, nella destra, una motosega, luccicante, con i denti bene in vista, senza la copertura o la guaina di plastica d'ordinanza. Il vecchio cammina aiutandosi col bastone e mi domando come faccia a sostenere con tanta facilità una motosega all'apparenza pesante, lui che sembra magro come un chiodo...

Arrivo al piazzale da dove partono i pulllman. L'autista che guida quello che mi porterà all'Università indossa gli occhiali da sole. Accende il motore, accelera lasciando la marcia in folle, come per verificare che sia tutto in ordine, e poi parte, allegro, sorridente. Fortunatamente, solleva gli occhiali da sole sulla fronte; mi vedevo già in mezzo alle lamiere del pullman fumante e accartocciato contro qualche altra auto o contro il guard-rail della superstrada. Altri studenti intorno a me chiacchierano allegramente della giornata che li attende, tra lezioni, pranzi a mensa, riunioni con gli amici e organizzazione di feste in discoteca per la serata che verrà.

Interno giorno: ufficio. Sulla mia scrivania un caos di libri e appunti sparsi, fotocopie a colori e foto di vecchi poeti morti ormai tre o quattro secoli fa. Entra la donna delle pulizie, senza bussare: "Mi scusi, professore, non sapevo che fosse dentro". Le spiego che mi ha spaventato e che la prossima volta, prima di entrare, è pregata di bussare. La donna si scusa di nuovo e comincia a passare l'aspirapolvere. Il punto è che quello non è l'orario delle pulizie.

Ormai sono a lezione, nelll'aula 21, una delle più grandi e capienti dell'Università. Parlo di Shakespeare, sto spiegando la funzione del "meta-teatro" all'interno di The Tempest (Prospero, Miranda, Calibano... li cito come fossero persone reali, come se anche loro fossero presenti, presenze vere e in carne ed ossa, in aula, lì, insieme a noi, davanti a noi). Finché, nella parte finale, preso dall'entusiasmo e nel corso della spiegazione, tocco con il dorso della mano sinistra la bottiglietta d'acqua che uso sempre quando sono a corto di saliva... L'acqua si rovescia sulla cattedra; una parte dell'aula ride; altri studenti hanno il viso preoccupato; chiedo aiuto a qualcuno che possa darmi dei fazzoletti di carta: una ragazza in prima fila mi cede il suo pacchetto intero e, mentre continuo a parlare a voce alta e forte dal microfono, cerco di rimediare e di prosciugare il laghetto artificiale che si è creato, mio malgrado, mentre continuo a parlare di "meta-teatro".

Sono a pranzo e una collega che non conosco inizia a parlarmi di sé e dei suoi guai personali. Vorrei spiegarle che la nostra confidenza non è tale da permettere di simili confidenze (lei tradisce il marito, per ripicca e vendetta, perché ha scoperto che lui la tradisce da anni con un'altra), ma non c'è verso di intendersi, di capirsi, di comunicare alcunché, questa donna è pazza, e non smette, e parla e parla, aggiungendo dettagli intimi e sgradevoli che non ho nessuna intenzione di ascoltare, faccio finta di prestare attenzione, la guardo dritta negli occhi, ma in realtà, rivolgo il mio udito verso il dialogo che due professori anziani stanno avendo a pochi passi da noi, mentre sorbiscono una zuppa o minestrone vegetale.

Sono di nuovo sul pullman, lungo la via del ritorno: una studentessa mi sorride e mi mostra una cifra scritta a penna sul dorso della sua mano sinistra. E' un numero di telefono? E' per caso il suo numero di telefono? Le sorrido anch'io, per non essere scortese. E lei cambia all'improvviso espressione, diventa acida, arcigna, mi guarda come fossi un maniaco sessuale, come a dire: "Cosa cazzo hai da guardare?".

Esterno notte: è ora di cena. Le strade sono deserte. La nebbia, però, è scomparsa. Il vecchietto con il bastone e la motosega, pure. Salgo le scale a due a due e mi rintano in casa. Non c'è più il frigorifero. Non riesco a credere ai miei occhi, ma il frigorifero che era in cucina è scomparso. Mi siedo sul divano, l'unico divano che ho, e mi guardo attorno, osservo la scrivania piena di libri e fotocopie, la libreria sul punto di crollare per il carico eccessivo di libri, il tavolino su cui mangio, e all'improvviso sento un rumore, il rumorino tipico del motore interno del frigorifero: viene dal bagno. Il frigo è finito in bagno; qualcuno ce l'ha portato e ha attaccato la spina al posto della lavatrice. La lavatrice c'è, anche se è lì dove non dovrebbe essere, e cioè, a pochi centimetri dalla vasca da bagno, staccata.

E' notte fonda, ormai. Le quattro del mattino. Non ho chiuso occhio e prevedo di starmene a occhi aperti fino a che non sorga il sole. Squilla il cellulare. E' mia madre. Mi chiede quand'è che mi decido ad andarla a trovare. Ci sono stato ieri (Domenica), come sempre. Ma lei non ricorda, mi chiede se mi sento bene. Le dico di sì. Come fa a non ricordarsene? Ci siamo visti ieri, a casa sua. Mia madre mi chiede se ho bevuto. Io le chiedo cosa ci fa alzata a quell'ora del mattino, Mia madre non risponde. E riattacca, dopo avermi augurato buon lavoro.

Verso mezzogiorno, vado a buttarmi sul letto, per disperazione, più che per stanchezza o sonno. Sul soffitto non ci sono più macchie o ombre strane. Solo bianco, un bianco luminoso, come se avessero riverniciato da poco le pareti della mansarda. Come se qualcuno fosse entrato mentre ero via e avesse dato una riverniciata alla casa...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...