Tradurre Shakespeare (possible mission)

Dunque, cominciamo col
dire che non sono un traduttore di professione; non mi pagano per tradurre
libri, anche se, in un passato piuttosto recente, l’ho fatto (due romanzi
picareschi della prima metà del XVII sec. che nessuno legge né leggerà mai – si
tratta di opere minori di autori minori della letteratura spagnola). E proprio
per tale motivo, ovvero, proprio perché ho trascorso quasi 2 anni interi della
mia vita a tradurre, so quanto sia difficile portare a termine una missione del
genere, soprattutto quando l’opera da versare nella propria lingua sia lontana
(o lontanissima) da noi nel tempo: più ci si allontana dal presente e più si fa
fatica a capire – faccio un paio d’esempi – il significato dei modi di dire
(che magari oggi non si usano più) o dei giochi di parole (il vero grosso
scoglio per ogni traduttore di opere letterarie). Già è difficile capirli, i
giochi di parole svolti in un’altra lingua, figuriamoci poi tradurli! O
renderli comprensibili in una lingua (quella d’arrivo) diversa dalla lingua del
testo originale (o quella di partenza). Insomma, per farvela breve: un gran
casino, un problema enorme, su cui si ci può sbattere la testa per giorni e
giorni e mesi e mesi, senza venire a capo di nulla (e allora ci si salva – in
calcio d’angolo – con la famosa nota a piè di pagina, quello spazio tipografico
in cui il traduttore trova rifugio quando alza bandiera bianca e sì, lo
ammette, non ha trovato un’espressione giusta o adeguata alla lingua d’arrivo…
la nota in quanto dichiarazione di fallimento: “Non ho capito e vi confesso che
non capisco; questa frase dovrei lasciarvela in originale; si fa quel che si
può; si salvi chi può; il gioco di parole è intraducibile”… Intraducibile! Che
parola! Fa davvero venire i brividi – se pensiamo che viviamo costantemente
nell’illusione che si possa tradurre tutto e da tutte le lingue del mondo).
Or dunque: fatta questa
premessa, chi mi conosce sa che ho tradotto in passato e sa che pur studiando e
dedicandomi a tempo pieno alla lingua e alla letteratura di Cervantes, amo
leggere e studiare autori e opere di ogni angolo del mondo, con particolare
predilezione per l’Inghilterra…
Sta di fatto che, molto
probabilmente, se non mi fossi dedicato alla Spagna, avrei continuato a
studiare letteratura inglese e mi sarei messo a scrivere la tesi di laurea
sull’Ulysses di James Joyce (un
romanzo che mi avrebbe portato al suicidio, non ci sono dubbi, ma amo le sfide
e adoro i romanzi che ti sfidano, che mettono a dura prova la tua capacità di
comprensione, oltre che la tua pazienza). E così, ieri, per una questione di
traduzione mal riuscita, per una cattiva interpretazione del testo, e dopo aver
fissato un appuntamento con un mese d’anticipo, mi sono recato all’Università
per parlare di una questione relativa ad un avverbio della lingua inglese con
il maggiore esperto di William Shakespeare che ci sia in Spagna, un luminare
della scienza, uno che, in poco meno di 10 anni, ha tradotto 30 opere del Bardo
(il che vuol dire quasi TUTTO Shakespeare).
Il Professore accetta di
vedermi, dopo che io gli ho mandato per email una specie d’articolo in cui
discetto di una traduzione di un altro autore (contemporaneo) spagnolo di un
verso di Hamlet. Evidentemente il
Professore non solo si prende la briga di leggermi, non solo accetta di vedermi
faccia a faccia, ma si preoccupa perfino di correggermi, cioè, di aiutarmi a
capire dove potrei correggere il mio pezzo ed esprimermi in termini più
corretti dal punto di vista filologico…
Sono emozionato e tutto
orecchi, quando mi siedo davanti a quest’uomo sulla settantina (ben portati) e
leggermente calvo, con giacca e cravatta anche se fuori fanno 32 gradi, con
stile elegante che ricorda subito da vicino lo stile dei docenti delle
Università inglesi (uno si sente quasi catapultato a Oxford o a Cambridge –
forse anche per la presenza ingombrante di un milione di dizionari inglesi e di
un miliardo di testi che a quelle Università possono essere associati: c’è
Milton, con il suo Paradise Lost, e
c’è Marlowe, il nemico o rivale di Shakespeare; c’è Henry James, coi suoi
racconti del terrore e c’è Dickens, coi suoi romanzi avventurosi; c’è il T.S.
Eliot dei Four Quartets e c’è il
Robert L. Stevenson del Dr. Jeckill &
Mr. Hide; c’è il Bram Stoker di
Dracula e c’è il Greoffrey Chaucer dei bellissimi Canterbury Tales; e c’è anche il reverendo Sir Laurence Sterne, col
suo digressivo e immenso The Life &
Opinions of Sir Tristram Shandy…
E insomma, io mi sento
immediatamente come se fossi in un’altra città e in un ambiente opposto a
quello reale in cui fisicamente io e il Professore ci muoviamo e parliamo. E il
Professore si cala totalmente nel suo ruolo e comincia a mettermi i puntini
sulle “i”, facendomi notare che l’avverbio “behind”, nell’inglese di
Shakespeare, ovvero, nell’inglese isabellino, non significava affatto “dietro”
o “indietro” o “all’indietro”, bensì “davanti” o “dopo”, ovvero: non indica
spazialmente l’essere indietro o lo stare dietro una persona o un’oggetto,
bensì l’essere avanti, o davanti, lo stare dopo temporalmente di un evento o di
un fatto… E io ci resto di sasso:
ammutolisco, forse impallidisco, improvvisamente, i 32 gradi di fuori si
trasformano nel mio cervello (e sulla mia pelle) nei -7 gradi che percepii in
Polonia, nella città di Lublin, il Novembre scorso…
E il Professore continua
(spargendo sulla cattedra un’infinità di opere del grande classico inglese,
oltre a mille appunti presi a mano e molte fotocopie che – a fine colloquio –
avrà la bontà e l’enorme e inaspettata generosità di regalarmi – insieme alle
sue traduzioni dell’Hamlet e del Macbeth, manco fosse Natale, che
giornata splendida è stata la giornata di ieri!).
“Ecco, guardi qui” – mi
fa il Professore, dandomi sempre del “lei”, senza mai passare a una confidenza
che, in effetti, non c’è stata prima né può esserci ora, anche se siamo seduti
l’uno di fronte all’altro, anche se si percepisce che ci stiamo entrambi
simpatici, e si capisce che abbiamo le stesse passioni e le stesse manie e lo
stesso immenso stupore e la stessa immensa stima di fronte al Bardo – “ecco,
sì, guardi qui, dall’atto I, scena III, v. 117: è Macbeth a parlare, dopo la
profezia delle tre streghe: loro gli preannunciano che prenderà il posto di
Glamis e poi strapperà il titolo di Barone a Cawdor e, infine, diventerà Re…
Ecco, legga qui: “The greatest, behind”, che io traduco con: “Il più grande,
dopo”, ovvero: la cosa più importante, il ruolo più prestigioso, “dopo”,
“behind” nel senso temporale di “più in là”, o “più avanti nel tempo”, o “in un
futuro imminente”. Ecco: cosa gliene pare?”.
Ripenso al mio pezzo: e
a tutte le volte che, mentre leggevo Shakespeare, traducevo letteralmente
“behind” con “dietro”; e ora provo quasi vergogna a capire che non sempre è
così, che non sempre, nell’inglese che parlavano i contemporanei della Regina
Isabella, “behind” voleva dire “indietro”, e mi sento subito di abbracciare il
Professore, di dirgli “grazie”, di dirgli: “Lei mi ha aperto gli occhi,
Professore”, e di confessargli, infine: “Come avrei fatto a capire senza di
lei, Prof.!”.
Non dico né faccio nulla
di tutto questo, ovviamente: ma quando poi il Professore mi allunga le due
copie delle sue versioni di Hamlet e
di Macbeth e mi fa capire che sono
per me, che posso portarmele a casa, che sono un suo regalo per me, non riesco
a trattenere l’espressione di giubilo: “Che forte!”, come un bambino davanti al
nuovo giocattolo…
Che idiota, invece! E
come ho fatto a non vederlo prima, come ho fatto a non capire! Perché non sono
andato a leggermi l’Oxford English
Dictionary, quello storico, che mi spiega come stavano le cose quando
Shakespeare scriveva roba, che non finiremo mai di capire, e di leggere, e di
tradurre… Come ho fatto a non capirlo prima, e quanto è complicato tradurre, e
com’è sorprendente il momento in cui capisci e pensi che sì, che tradurre si
può, che tradurre correttamente un’opera – per lontana che essa sia rispetto al
nostro presente – si può fare, missione possibile, anche quando appare
impossibile… E grazie ancora, Professore. Per il tempo speso insieme, per i due
libri e per le due belle dediche…