
jueves, octubre 30, 2008

viernes, octubre 24, 2008
miércoles, octubre 22, 2008

Mentre Alì chatta con i suoi fratelli e riesce a sentire la sua Giordania molto più vicina di quanto non sia grazie a messanger, e mentre qualche cliente entra ed esce dall’hotel in preda a chissà quale strana smania o inquietudine interiore, leggo un romanzo strano sin dal titolo. Un’opera dello scrittore spagnolo Luis Goytisolo; un libro il cui titolo è già (di per sé) un enigma: “Teoria della conoscenza”… Che s’intende per teoria? E cosa per conoscenza? Esisterà mai una “teoria della conoscenza”? Mi vengono subito in mente altri due libri: due saggi, in realtà: l’uno di Immanuel Kant (Critica della capacità di giudizio, la cosiddetta “terza critica” – quella in cui il filosofo tedesco s’interroga su che cosa sia il “bello” e se esista una “capacità” o “facoltà” di giudizio che operi nel momento stesso in cui decidiamo che qualcosa ci risulta essere “bello”); l’altro di Ludwig Wittengstein (Osservazioni filosofiche, una specie di work in progress in cui non sapremo mai chi è l’assassino, anche se un qualche assassinio deve essere stato commesso in principio). E mentre mi ripeto la domanda: “esisterà mai una vera teoria della conoscenza, una teoria che sappia spiegarci per filo e per segno cosa succede quando “apprendiamo” e “conosciamo” qualcosa?”, leggo sul risvolto di copertina dell’edizione dell’81 che maneggio che Teoría del conocimiento è, in realtà, la quarta parte di una tetralogia composta dagli altri tre capitoli: Recuento (1973); Los verdes de mayo hasta el mar (1976) e La cólera de Aquiles (1979). Inutile aggiungere che la scoperta non fa che aggiungere ansia a sconforto, sconcerto a ansia. Non so se riuscirò a leggere mai le altre tre parti. E non so ancora di cosa mi parla la fine, questo quarto capitolo che, chissà in quale strano modo, dovrebbe concludere e chiudere l’intero impianto narrativo…
Eppure vado avanti a leggere. Mi affascinano i libri che non riesco a capire o a interpretare subito; mi piacciano le trame complesse o inesistenti. La prima pagina mette in crisi chiunque: perché ripete il titolo che si legge in copertina ma aggiunge un dettaglio, anzi, due: a) il nome del presunto autore, tale Raúl Ferrer Gaminde; b) il sottotilo “novela”, ovvero, in italiano, “romanzo”, come a voler sottolineare il fatto che sì, chi legge si trova davanti a un “romanzo”, un libro che ha una sua trama narrativa, un suo sviluppo e, eventualmente, una sua fine… o conclusione esplicativa.
Il libro è diviso in 12 capp.; sono arrivato al cap. VIII, ma non so ancora niente del finale né se ci sarà un finale. Intuisco che sulla pagina scritta si alternano i monologhi di diversi personaggi; spicca su tutti la voce di un tale, un architetto, che sembra rispondere al nome di Ricardo Echave (niente a che vedere con il Raúl Ferrer Gaminde del titolo iniziale; il secondo, dopo quello ufficiale che appare in copertina). Non che mi sia molto simpatico, ma i discorsi che questo Ricardo fa intorno alla sua infanzia, i familiari, l’adolescenza, i primi atti di ribellione politica all’Università (contro il franchismo, che dal 39 al 75 regna sovrano imbavagliando ogni forma di resistenza interna alla Spagna più civile e democratica), i suoi amori plurimi con donne che rispondono ai nomi di Magda, Rosa e Margarita, i suoi odi o dissensi nei confronti del padre o dei fratelli, insomma, tutto ciò che dice con uno stile forbito e un periodare complesso, da analista, da filosofo analitico, mi coinvolgono e mi spingono a continuare la lettura… fino a quando non si verifica una prima grossa sorpresa. A un certo punto qualcuno fa un commento intorno al presunto diario di Ricardo Echave: si nota che vuole scioccare il lettore, descrivendo nel dettaglio alcune sue esperienze sessuali. Ma si nota anche l’influsso dello stile di Luis Goytisolo… Accidenti! Ma allora il diario è solo un finto diario autobiografico. Chi scrive dicendo di parlare con tutta onestà e franchezza lo fa con lo stile-Goytisolo… c’è qualcosa che non quadra.
Vado avanti nella lettura e nel cap. V trovo un paragrafo che mi chiarisce e, al contempo, mi complica ulteriormente le cose: Teoría del conocimiento è evidentemente un meta-romanzo; ma chi guarda chi (o chi legge chi) quando chi scrive ci mette sotto i nostri stessi occhi le sue stesse critiche al modo di poter scrivere dei propri dubbi nel momento stesso in cui si mette a scrivere di sé? Chi guarda chi? Chi legge chi? Chi scrive di chi? Il cap. V è centrale, in tal senso: e l’ultimo paragrafo (dal titolo significativo “El ojo” – ovvero “l’occhio”) serve a ribadire quanto andavamo solo ipotizzando. In questa parte l’autore ci coinvolge pienamente nel lavoro di “scrittura” e “ri-scrittura” del testo attraverso le sue riflessioni:
1- mentre leggiamo un testo di finzione (traduco al volo e, forse, male)scopriamo aspetti non solo imprevedibili da parte dello stesso autore, ma anche insospettabili, completamente estranei ai piano di questi;
2- ciò accade non solo e non tanto perché quanto l’autore si è proposto di scrivere racchiude significati non progettati, e che in tal modo si riflettono nell’opera, ma anche e soprattutto perché leggere un libro è come sottolinearlo a matita, come evidenziare, segnalare e perfino aggiungere commenti a margine, non tanto intorno a ciò che è importante rispetto al testo in sé, quanto intorno a ciò che è importante per noi, motivo che spiega perché ci dia tanto fastidio prestare libri sottolineati nella misura in cui la nostra intimità può venire coinvolta; ciò porta a questo nuovo ragionamento:
3- il lettore di un’opera di finzione trova sempre una serie di significati che l’autore non saprebbe spiegare perché sono lì, nell’ipotesi che si sia accorto del fatto che ci sono, per progettata che avesse pensato l’opera, tanto nelle linee maestre che la determinano, quanto in rapporto ai dettagli minori della sua realizzazione, soppesata parola per parola;
4- e allora che cosa diventa l’opera, da questo punto di vista? L’opera diventa il punto verso cui convergono autore e lettore, l’ambito in cui si riflettono le loro rispettive attitudini.
Mi fermo a pensare. Mi accendo una sigaretta, anche se non si può (ordino ad Alì di spalancare le porte e di consegnare lui le chiavi se torna qualche cliente nottambulo o ritardatario). Rileggo il punto 4. E mi viene in mente Proust. E Cesare Pavese (in particolare il suo diario intimo, Il mestiere di vivere). Non solo vivere è un mestiere (che a volte richiede pazienza e forte capacità d’adattamento o doti di prestigio), ma anche leggere è vivere e scrivere è vivere; mi viene in mente un altro scrittore spagnolo, Enrique Vila-Matas, che colpisce perché non sai mai quando parla sul serio o sta solo scherzando. E penso a James Joyce. Dopodiché continuo a leggere e il narratore prova a spiegare la sua “teoria” attraverso vari esempi, tra cui Proust e il suo Contre Saint-Beuve; e il Velázquez de Las Meninas, quel quadro in cui si vede Velázquez nell’atto di dipingere un quadro di cui vediamo solo la parte posteriore, e mai il soggetto, che (sono i Re) appare di riflesso su uno specchio posto dietro il pittore, mentre in primo piano vediamo le “damigelle” che accompagnano la piccola “infanta”, e sullo sfondo uno spettatore scuro che, incorniciato dentro una porta, sta per salire delle scale (o forse le ha appena scese) e contempla la scena (il pittore che dipinge) mentre su tutto aleggia un’atmosfera da sogno, bello e inquietante, com’è l’atto del leggere, com’è leggere questo romanzo, che comincio a sottolineare a matita e a commentare con commenti e giudizi al margine, senza riuscire più a capire chi scrive cosa e chi legge chi, ma con la ferma convinzione del fatto che sì, è vero, il testo scritto (di finzione) è davvero l’unica superficie riflettente in cui autore e lettore possono incontrarsi e scontrarsi o venire a patti, in cui l’universo dell’uno si completa e prende vita grazie all’universo dell’altro, e i nostri occhi guardano l’universo attraverso gli occhi dell’autore, che, non visto, forse ancora ci sta guardando, come Velázquez guarda il soggetto del suo quadro, un quadro che non vedremo mai (più).
sábado, octubre 18, 2008

viernes, octubre 03, 2008

David Foster Wallace (DFW, da ora in avanti) e le aragoste

Io e mio padre
Io e mio padre abbiamo sempre avuto un rapporto difficile, anche se non oserei mai definirlo “conflittuale” (con tutte le accezioni freudiane che si possono associare a questo aggettivo quando si parla di relazioni paterno-filiali). Mio padre, Gianni, fa il musicista per necessità e per passione. Lo fa perché gli è sempre piaciuto suonare e suona perché così gli ha insegnato mio nonno, cioè suo padre, che si chiama Tonino e suona il violino dall’età di 6 anni (oggi ne ha 86, se li porta bene anche se sta sempre lì a dire che la vecchiaia è una malattia incurabile e che presto ci lascerà e che se ne andrà al cimitero e chi s’è visto s’è visto, mondo schifo, cazzo – mio nonno parla un fluente italiano corretto da membro dell’Accademia della Crusca… con questa particolarità, però: che ogni tre per due infila una parolaccia o una bestemmia nel discorso, anche quando la parolaccia è evidentemente fuori luogo). Quindi, riassumendo, possiamo dire che mio padre, Gianni, ha imparato a suonare per trasmissione genetica ed eredità paterna: mio nonno lo ha costretto a fare i primi solfeggi dall’età di 8 anni (quindi mio padre suona da allora e fino a oggi non ha mai smesso: oggi di anni ne ha 54). Tradizione avrebbe voluto dunque che anch’io diventassi un musicista, ma così non è stato e la catena si è interrotta quando, all’età di 15 anni, decisi che era giunto il momento di smetterla con l’Ave Maria di Schubert o la Primavera di Vivaldi (uno dei musicisti preferiti da mio nonno, Tonino) e di concentrarmi di più sugli svaghi di quell’età (girate in motorino con gli amici; partite infinite a calcetto; primi approcci maldestri con l’altro sesso; incipiente passione per i libri). E così, non oso nemmeno immaginare la reazione che dovette avere mio nonno, Tonino, quando mio padre, Gianni, gli comunicò che io ne avevo abbastanza e che il pianoforte era troppo difficile per me (di sicuro partì qualche “Porca la Mad…[bip]” da parte del nonno). Ma tornando a bomba: mio padre, Gianni, non ha fatto solo il musicista nella vita; per campare e subito dopo che mia madre mi mise al mondo (con una certa sorpresa da parte sua, lui che, poco più che ventenne, forse, a quell’epoca, era ancora una scavezzacollo e di certo non pensava a diventare padre e marito di mia madre a quell’età) iniziò a fare ogni sorta di lavoretto extra: quando mio padre, Gianni, ha avuto scarsità d’alunni (e quindi di denaro), si è messo a fare l’imbianchino, il falegname, l’idraulico, il muratore, il contadino, con ottimi risultati (a quanto dicono) in tutti questi diversi campi dello “scibile” umano. Non solo: per passare il tempo o sbollentare la rabbia dei periodi più brevi, mia madre mi ha raccontato che mio padre, Gianni, cominciò a dipingere quadri (nature morte, all’inizio, nudi di donna, poi) ricevendo elogi da parte di veri pittori amici di famiglia. Poi smise: all’improvviso, così come aveva iniziato (forse non aveva più bisogno di sfogarsi coi pennelli; sta di fatto che uno dei suoi quadri – uno di quelli che ritrae una donna completamente nuda, ferma immobile davanti a uno specchio a contemplarsi i capelli – sia finito a casa mia e di Alyssa ad ornare il “salotto buono”). E così, quando a lezione, alle medie o anche alle superiori, qualche prof. o compagno di classe mi chiedeva che lavoro facesse mio padre io ero solito rispondere con un vago: “un po’ di tutto”, calcando l’accento sull’aspetto più artistico (la musica) e occultando dettagli sugli aspetti più “artigianali” (l’imbiancatura, la stuccatura, la costruzione edile, etc. etc.).
Non che mi vergognassi di mio padre, per carità e lungi da me… Ma era complicato spiegare il lavoro di un genitore che di lavori ne aveva sempre svolti tanti e, alle volte, tutti insieme contemporaneamente (per cui non era raro, a volte, vederlo fare lezione di musica in tuta da muratore o con le mani callose per gli attrezzi da contadino usati nel campo di patate in nostro possesso durante tutti i fantastici anni 80).
Mio padre ha avuto successo nella vita, non c’è che dire: ci furono un paio d’annate in cui riuscì ad avere una cinquantina d’allievi sparsi per la zona in cui vivevamo allora (oggi sono molto ma molto meno). Una foto (oggi incorniciata su cornice dorata) testimonia quanto dico: è una foto di carnevale, io sono quello in basso a sinistra, vestito da Zorro, e se l’osservatore porta pazienza e si prende la briga di contarli, ebbene sì, s’accorgerà che quegli alunni sono proprio una cinquantina (53 per l’esattezza, me escluso).
Sono trascorsi gli anni e nel corso degli anni la distanza tra me e mio padre si è fatta sempre più vasta: non parlavamo mai; non litigavamo. Io facevo delle scelte che lui disapprovava: io m’incazzavo e lui dimostrava la disapprovazione con il silenzio (l’indifferenza ferisce più di mille parolacce, certe volte; lui peccava d’indifferente e io ci stavo male, ma tant’è). Ho avuto un paio di fidanzate che si sono spaventate per il nostro rapporto difficile. Le domande delle varie fidanzate di turno erano sempre le stesse e si riassumevano sempre in queste due frasi fatte: a) “Ma come fate a non parlarvi?”; b) “Ma che razza di rapporto è mai questo?”. E in effetti potevano trascorrere giornate intere in cui le mie uniche parole pronunciate direttamente verso mio padre, Gianni, potevano essere solo: “Mi passi il pane, per favore?”, se eravamo seduti a tavola, o “Mi passi il telecomando?”, se stavamo in sala e lui guardava un programma che né io né gli altri sopportavamo.
Eppure io lo sapevo e l’ho sempre saputo: mio padre, Gianni, mi vuole bene, così come io so con certezza di volergli bene. Eppure, in tanti anni di “convivenza” a volte forzata non ce lo siamo mai detto… E le domande solite tornavano a galla, anche da parte di parenti e amici stretti, tranne che da parte di colei che sa tutto e non ha bisogno di chiedere nulla perché conosce alla perfezione le due parti in lotta, ovvero, mia madre, una vera santa e una combattente nata che ha sempre manifestato un’estrema pazienza e una fortissima sensibilità nel non costringerci a sputare il rospo e a sanare questo famoso rapporto complesso e complicato. E come si fa? Qualcosa si è fatto. Negli anni io e mio padre abbiamo cominciato a parlare; del suo lavoro (oggi gli allievi di musica scarseggiano; chi non segue il conservatorio è difficilissimo s’iscriva a un corso di musica in una scuola privata, anche perché molti, troppi, forse, preferiscono fare calcio, o basket, o karatè, o nuoto, o semplicemente non fare nulla e starsene tutto il santo giorno davanti al pc o alla tv); del mio studio e dei miei lavoretti saltuari; della mie famose “scelte” che lui in passato disapprovava e che ora, nel presente, sembra quasi accettare o approvare. Intanto, io sono diventato più adulto e lui, Gianni, si è fatto più anziano: ha i capelli grigi e lo sguardo più stanco; suona ancora Mozart e Schubert e Bach, ma non dipinge più; si preoccupa per me e i miei fratelli, ma non lo da a vedere, come se lui fosse sempre lo stesso, quell’orso freddo e distaccato che non ti degna di un sì e non ti degna di un no, che a volte usa l’indifferenza per mascherare chissà quale tumulto interiore.
Giorni fa ha rischiato grosso, finendo sotto una macchina che l’ha centrato in pieno mentre lui, distratto, attraversava la strada senza guardare e senza usare le strisce pedonali. Ci siamo sentiti per telefono e mentre mi parlava con inusitata logorrea di com’erano andati realmente i fatti, mi è venuta in mente una scena abituale di quando io ero ancora piccolo e vivevo a “casa mia”: mio padre, Gianni, che se ne sta in giardino, di notte, seduto su una sedia di plastica, sotto un gazebo bianco, mentre contempla il prato antistante casa nostra. Non parla, fuma soltanto. E se gli chiedo cosa faccia, lui non mi risponde. Poi riattacchiamo, entrambi sollevati dalle buone notizie del dottore che gli ha fatto le prime radiografie alla schiena, e penso che mio padre per me è ancora un enigma. E che comunque gli voglio bene (come lui ne vuole a me) anche se non ce lo siamo mai detti (anche se, forse, non ce lo diremo mai). In fondo, io e mio padre siamo molto, forse troppo, simili per fare uno dei due il fatidico, primo passo…
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