viernes, octubre 03, 2008


Io e mio padre

Io e mio padre abbiamo sempre avuto un rapporto difficile, anche se non oserei mai definirlo “conflittuale” (con tutte le accezioni freudiane che si possono associare a questo aggettivo quando si parla di relazioni paterno-filiali). Mio padre, Gianni, fa il musicista per necessità e per passione. Lo fa perché gli è sempre piaciuto suonare e suona perché così gli ha insegnato mio nonno, cioè suo padre, che si chiama Tonino e suona il violino dall’età di 6 anni (oggi ne ha 86, se li porta bene anche se sta sempre lì a dire che la vecchiaia è una malattia incurabile e che presto ci lascerà e che se ne andrà al cimitero e chi s’è visto s’è visto, mondo schifo, cazzo – mio nonno parla un fluente italiano corretto da membro dell’Accademia della Crusca… con questa particolarità, però: che ogni tre per due infila una parolaccia o una bestemmia nel discorso, anche quando la parolaccia è evidentemente fuori luogo). Quindi, riassumendo, possiamo dire che mio padre, Gianni, ha imparato a suonare per trasmissione genetica ed eredità paterna: mio nonno lo ha costretto a fare i primi solfeggi dall’età di 8 anni (quindi mio padre suona da allora e fino a oggi non ha mai smesso: oggi di anni ne ha 54). Tradizione avrebbe voluto dunque che anch’io diventassi un musicista, ma così non è stato e la catena si è interrotta quando, all’età di 15 anni, decisi che era giunto il momento di smetterla con l’Ave Maria di Schubert o la Primavera di Vivaldi (uno dei musicisti preferiti da mio nonno, Tonino) e di concentrarmi di più sugli svaghi di quell’età (girate in motorino con gli amici; partite infinite a calcetto; primi approcci maldestri con l’altro sesso; incipiente passione per i libri). E così, non oso nemmeno immaginare la reazione che dovette avere mio nonno, Tonino, quando mio padre, Gianni, gli comunicò che io ne avevo abbastanza e che il pianoforte era troppo difficile per me (di sicuro partì qualche “Porca la Mad…[bip]” da parte del nonno). Ma tornando a bomba: mio padre, Gianni, non ha fatto solo il musicista nella vita; per campare e subito dopo che mia madre mi mise al mondo (con una certa sorpresa da parte sua, lui che, poco più che ventenne, forse, a quell’epoca, era ancora una scavezzacollo e di certo non pensava a diventare padre e marito di mia madre a quell’età) iniziò a fare ogni sorta di lavoretto extra: quando mio padre, Gianni, ha avuto scarsità d’alunni (e quindi di denaro), si è messo a fare l’imbianchino, il falegname, l’idraulico, il muratore, il contadino, con ottimi risultati (a quanto dicono) in tutti questi diversi campi dello “scibile” umano. Non solo: per passare il tempo o sbollentare la rabbia dei periodi più brevi, mia madre mi ha raccontato che mio padre, Gianni, cominciò a dipingere quadri (nature morte, all’inizio, nudi di donna, poi) ricevendo elogi da parte di veri pittori amici di famiglia. Poi smise: all’improvviso, così come aveva iniziato (forse non aveva più bisogno di sfogarsi coi pennelli; sta di fatto che uno dei suoi quadri – uno di quelli che ritrae una donna completamente nuda, ferma immobile davanti a uno specchio a contemplarsi i capelli – sia finito a casa mia e di Alyssa ad ornare il “salotto buono”). E così, quando a lezione, alle medie o anche alle superiori, qualche prof. o compagno di classe mi chiedeva che lavoro facesse mio padre io ero solito rispondere con un vago: “un po’ di tutto”, calcando l’accento sull’aspetto più artistico (la musica) e occultando dettagli sugli aspetti più “artigianali” (l’imbiancatura, la stuccatura, la costruzione edile, etc. etc.).

Non che mi vergognassi di mio padre, per carità e lungi da me… Ma era complicato spiegare il lavoro di un genitore che di lavori ne aveva sempre svolti tanti e, alle volte, tutti insieme contemporaneamente (per cui non era raro, a volte, vederlo fare lezione di musica in tuta da muratore o con le mani callose per gli attrezzi da contadino usati nel campo di patate in nostro possesso durante tutti i fantastici anni 80).

Mio padre ha avuto successo nella vita, non c’è che dire: ci furono un paio d’annate in cui riuscì ad avere una cinquantina d’allievi sparsi per la zona in cui vivevamo allora (oggi sono molto ma molto meno). Una foto (oggi incorniciata su cornice dorata) testimonia quanto dico: è una foto di carnevale, io sono quello in basso a sinistra, vestito da Zorro, e se l’osservatore porta pazienza e si prende la briga di contarli, ebbene sì, s’accorgerà che quegli alunni sono proprio una cinquantina (53 per l’esattezza, me escluso).

Sono trascorsi gli anni e nel corso degli anni la distanza tra me e mio padre si è fatta sempre più vasta: non parlavamo mai; non litigavamo. Io facevo delle scelte che lui disapprovava: io m’incazzavo e lui dimostrava la disapprovazione con il silenzio (l’indifferenza ferisce più di mille parolacce, certe volte; lui peccava d’indifferente e io ci stavo male, ma tant’è). Ho avuto un paio di fidanzate che si sono spaventate per il nostro rapporto difficile. Le domande delle varie fidanzate di turno erano sempre le stesse e si riassumevano sempre in queste due frasi fatte: a) “Ma come fate a non parlarvi?”; b) “Ma che razza di rapporto è mai questo?”. E in effetti potevano trascorrere giornate intere in cui le mie uniche parole pronunciate direttamente verso mio padre, Gianni, potevano essere solo: “Mi passi il pane, per favore?”, se eravamo seduti a tavola, o “Mi passi il telecomando?”, se stavamo in sala e lui guardava un programma che né io né gli altri sopportavamo.

Eppure io lo sapevo e l’ho sempre saputo: mio padre, Gianni, mi vuole bene, così come io so con certezza di volergli bene. Eppure, in tanti anni di “convivenza” a volte forzata non ce lo siamo mai detto… E le domande solite tornavano a galla, anche da parte di parenti e amici stretti, tranne che da parte di colei che sa tutto e non ha bisogno di chiedere nulla perché conosce alla perfezione le due parti in lotta, ovvero, mia madre, una vera santa e una combattente nata che ha sempre manifestato un’estrema pazienza e una fortissima sensibilità nel non costringerci a sputare il rospo e a sanare questo famoso rapporto complesso e complicato. E come si fa? Qualcosa si è fatto. Negli anni io e mio padre abbiamo cominciato a parlare; del suo lavoro (oggi gli allievi di musica scarseggiano; chi non segue il conservatorio è difficilissimo s’iscriva a un corso di musica in una scuola privata, anche perché molti, troppi, forse, preferiscono fare calcio, o basket, o karatè, o nuoto, o semplicemente non fare nulla e starsene tutto il santo giorno davanti al pc o alla tv); del mio studio e dei miei lavoretti saltuari; della mie famose “scelte” che lui in passato disapprovava e che ora, nel presente, sembra quasi accettare o approvare. Intanto, io sono diventato più adulto e lui, Gianni, si è fatto più anziano: ha i capelli grigi e lo sguardo più stanco; suona ancora Mozart e Schubert e Bach, ma non dipinge più; si preoccupa per me e i miei fratelli, ma non lo da a vedere, come se lui fosse sempre lo stesso, quell’orso freddo e distaccato che non ti degna di un sì e non ti degna di un no, che a volte usa l’indifferenza per mascherare chissà quale tumulto interiore.

Giorni fa ha rischiato grosso, finendo sotto una macchina che l’ha centrato in pieno mentre lui, distratto, attraversava la strada senza guardare e senza usare le strisce pedonali. Ci siamo sentiti per telefono e mentre mi parlava con inusitata logorrea di com’erano andati realmente i fatti, mi è venuta in mente una scena abituale di quando io ero ancora piccolo e vivevo a “casa mia”: mio padre, Gianni, che se ne sta in giardino, di notte, seduto su una sedia di plastica, sotto un gazebo bianco, mentre contempla il prato antistante casa nostra. Non parla, fuma soltanto. E se gli chiedo cosa faccia, lui non mi risponde. Poi riattacchiamo, entrambi sollevati dalle buone notizie del dottore che gli ha fatto le prime radiografie alla schiena, e penso che mio padre per me è ancora un enigma. E che comunque gli voglio bene (come lui ne vuole a me) anche se non ce lo siamo mai detti (anche se, forse, non ce lo diremo mai). In fondo, io e mio padre siamo molto, forse troppo, simili per fare uno dei due il fatidico, primo passo…

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