Il pane perduto di Edith Bruck
Pubblicato nel 2021, questo libro potrebbe assumere un valore etico ancora più dirompente se ne immaginassimo una lettura colletiva lunga la striscia di Gaza, tra palestinesi e israeliani, tra musulmani ed ebrei (soprattutto ebrei contrari allo sterminio portato avanti dalla politica di Netanyahu - non ho idea di quanti ce ne possano essere, ma sono certo che esistono, così come esistono russi profondamente, intimamente contrari alla politica di Putin).
Edith Bruck, ungherese ebraica che ha adottato la lingua di Dante per parlare della sua vita e delle esperienze che ne hanno segnato il cammino, rievoca ne Il pane perduto il dramma della Shoah e la violenza a cui ha dovuto assistere (bambina) nel corso della deportazione della sua famiglia nel campo di concentramento di Dachau.
Sono molte le pagine che restano impresse nella memoria del lettore, molte le riflessioni che scuotono la coscienza di chi non ha mai patito una guerra, anche se ne vede frammenti in diretta in ogni edizione del telegiornale (magari comodamente seduto sul sofà di casa, o mentre fa colazione o mentre pranza o cena senza stenti, né fatica, né disperato bisogno di saziare la fame).
Il pane: ecco un simbolo antico come l'uomo, un'immagine portante del Cristianesimo ("questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, mangiate e bevetene, in nome mio", dice la vulgata). Quando i nazisti entrano in casa, la madre della piccola Edith non ha fatto in tempo a prendere il pane fatto in casa, con il lievito buono. Quel pane resterà per sempre impresso nell'anima di chi si vede ridotto ad animale da macello, a numero stampigliato sul polso, a nemico da convertire in cenere o in sapone.
A p. 31 c'è già un primo approccio all'orrore (di chi non sa ancora cosa stia succedendo, del perché gli ebrei sono diventati i nemici dei tedeschi e degli ungheresi che li aiutano nel loro sogno di razza pura ariana e senza macchia):
"Con i Reisman, per la prima volta così vicini, avevo scambiato un saluto muto. Il bambino più piccolo in braccio alla madre di Eva piangeva disperato e in quel pianto c'era un dolore puro, universale. Un dolore e un grido come quelli dei maiali di Natale sotto i lunghi coltellacci. Gli aguzzini che parlavano la loro lingua li ferivano con ogni parola, dirigendoli come fossero pecore verso la piccola sinagoga, dove c'erano già tutti gli ebrei del villaggio. Chiedevano muti con lo sguardo da bestie spaventate "Che succede, che succede?" come se le loro parole, le loro domande, non avessero più senso, né valore. Le uniche voci che contavano erano quelle dei gendarmi che pretendevano soldi, valori, le fedi, gli orologi da polso che ben pochi avevano. Perquisivano donne e uomini, controllavono gli orli dei vestiti e i cuscinetti delle giacche con parole sempre più offensive. "Pezzenti, straccivendoli, spilorci, nasoni che pisciano in bocca, brutti, sporchi ebrei via, via da qui!".
"Dove, dove?", si sentiva una voce".
Le domande senza risposta: le domande che smettono di avere valore perché chi li porge sa già che il suo destino non dipenderà più da una sua libera scelta o decisione, ma dal volere del tutto soggettivo e abritrario dell'aguzzino. Ecco come poco dopo la Bibbia diventa supporto nella descrizione del cataclisma, dell'Apocalisse che si abbatterà anche su quegli ebrei ungheresi ancora all'oscuro della precisione mortifera del piano di Hitler, lo sterminio, sì, ma su scala planetaria (siamo a p. 36):
"Non c'era tempo né per piangere, né per parlare, solo per stare attenti ai passi e ai bimbi che potevano sfuggire dalle mani tremanti dei genitori, per sostenere i più vecchi che barcollavano come ubriachi e ciechi. Sembrava l'estodo dall'Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l'Eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la mandria umana venita spinta dentro con violenza".
È l'orrore di chi viene deportato senza sapere dove finirà. E di nuovo, come non pensare a tutti quei bambini palestinesi sterminati dalle bombe dell'esercito israeliano, come non pensare a quei genitori che vedono i loro figli cadere perfino mentre sono in fila per ottenere un po' di cibo dai camion delle organizzazioni che Isreale fa passare nella striscia col contagocce? Come non pensare al cinismo, alla violenza sadica di chi spara sulle folle affamate in fila e con pentole (per sempre) vuote?
Vecchi e bambini: sono le vittime più immediate, insieme alle donne, perché non sanno, perché non hanno la forza fisica degli uomini per resistere o tentare una via di fuga.
Nei campi di concentramento, così come già ci insegna Primo Levi in Se questo è un uomo, la prima incognita riguarda proprio le regole che vi si applicano. Chi si salva e perché? Dove vanno a finire i condannati? Il fumo nero che esce da alcuni comignoli non è un segnale facile da decodificare, prima di rendersi conto delle cataste di cadaveri e dell'orrendo puzzo di carne bruciata. A p. 45 le domande della bambina che inizia a capire:
"Oh, capire le regole, le rigide discipline, i ruoli, non era facile, né conoscere i trucchi della possibile sopravvivenza, né essere guardiane della nostra vita senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare all'indomani".
È tremendo questo brano perché ci fa capire (ci fa toccare con mano) come sia facile perdere la dignità quando si tratta di sopravvivere, come sia quasi automatico pensare alla propria sopravvivenza a discapito di quella degli altri. Bisogna diventare "guardiani di se stessi" sia per sopravvivere sia per tentare di non determinare (magari senza volerlo, senza prevederlo) la morte di chi ci vive affianco... Se questo è un uomo, sì, consideriamo se questo è un uomo, costretto a sopravvivere nel dubbio di provocare la morte dell'altro per il fatto stesso di sopravvivere al prossimo.
E poi la perdita della percezione del tempo: nei campi di concentramento nazisti le vittime vengono spogliate di tutto e gli orologi non servono più a nulla, perché i giorni sono tutti uguali e il passare delle ore è cadenzato da ritmi che non hanno (più) nulla della vita umana civilizzata (id., p. 45):
"Erano passati tre mesi o tre anni? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si moriva: chi per la selezione, chi all'appello, chi per la fame, chi per malattie e chi, come Eva, suicida, fulminata dalla corrente del filo spinato, rimanendo a lungo appesa come Cristo sulla croce".
Una Eva che muore appesa sul filo spinato come Cristo sulla croce: la donna che nell'Antico Testamento provoca la caduta di Adamo e la cacciata dal Paradiso Terrestre viene qui descritta come Cristo nel momento del massimo sacrificio...E perché Dio lo abbandona? Perché, mio Dio, mi hai abbandonato?
Queste domande tornano in modo molto esplicito nel finale del libro, quando Edith Bruck "invia" una lettera a Dio... Si tratta di pagine molto intime e scioccanti, di pagine piene di stupore e di umiltà, di domande senza risposte, di dubbi di chi ha visto la Morte in uno dei momenti più bui della Storia dell'essere umano e non sa darsi pace e non sa spiegarsi perché sia potuto succedere, perché tante vittime innocenti, perché tanti morti, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, in un clima che, ahinoi, potrebbe ricordare fin troppo i tempi che stiamo vivendo oggi, nel 2025, a pochi passi dal baratro...