viernes, noviembre 15, 2024

 Il passato che torna

Ieri ho fatto una cosa che avrei dovuto evitare: ho aperto una cartella piena di foto del passato e, ovviamente, il passato è tornato a vivere il presente, ad invaderlo, a occuparlo in modo immediato e inevitabile, senza chiedermi il permesso.

Mi torna in mente una canzone dei Zen Circus, una canzone che s'intitola Catene e che a un certo punto dice: "Il tempo viaggia sempre e solo in una direzione / Mentre in quella opposta trovi solo le macerie / I vecchi lo sanno bene, lì è meglio non andare". E come dare torto a chi ha scritto queste parole? A volte è meglio non andarci nel passato, perché ci sono fantasmi che poi ci fanno venire gli incubi o persone che abbiamo amato in modo ossessivo e che oggi ci hanno dimenticati, altre che non ricordavamo di aver conosciuto e che, all'improvviso, ci mettono davanti alla nostra mortalità, al fatto cioè che, come loro, anche noi siamo condannati a cadere nell'oblio degli altri (o di alcuni altri che hanno attraversato le nostre vite come si attraversano le strisce pedonali in una città in cui non si tornerà più, viaggio di solo andata, città vista e non vista, o intravista solo dai finestrini di una macchina o del treno).

Il tempo viaggia sempre e solo in una direzione e nessuno può pretendere di bagnarsi due volte nelle acque dello stesso fiume, né può pensare di bruciarsi due volte nello stesso fuoco.

Ho chiuso la cartella, ho smesso di guardare certe foto, in preda a uno stato d'animo saturnino che, a sua volta, mi ha evocato l'angelo che non vola, l'essere sovrannaturale con la mano sulla guancia e il gomito sul ginocchio che Albrecht Dürer disegnò nel lontano 1513 (ovvero, 511 anni fa). Tutti ricorderanno che in quell'illustrazione (incisione a bulino) l'angelo in questione è circondato da un sacco di oggetti dal valore simbolico e anche alquanto inquietante: si vede una clessidra (il tempo che passa); strumenti della matematica e della geometria per misurare la realtà in modo scientifico; una scala che porta chissà dove e un rombo fatto di chissà che materiale (pietra? marmo? legno?); un pipistrello che tra le zampe sostiene un pezzo di stoffa con su scritto il titolo dell'illustrazione: Melancolia I (perché I? C'è anche un II?); appare anche un cane mezzo addormentato, tra un martello e dei chiodi sparsi per terra. 

Ecco, guardando lo sguardo triste di quest'angelo misterioso ho pensato che la prossima volta farò più attenzione, perché, all'interno dei nostri computer, alberghiamo pezzi del passato che possono fare male o, addirittura, indurci a pensieri tristi, per non dire deprimenti...

PS: che fine faranno tutte queste cartelle "segrete" all'interno dei nostri pc (scatole nere) quando non esisteremo più? Cosa penseranno di noi gli eventuali testimoni che potrebbero imbattersi nelle foto custodite in queste cartelle?


viernes, octubre 25, 2024


Presentare i libri degli altri

Una cara amica m'invita ad Alicante per presentare il suo libro, la sua opera prima, il primo romanzo, in una delle librerie storiche della città. Ci stimiamo entrambi. Ci rispettiamo e sappiamo entrambi che sarà una passeggiata, non serve dirselo a viva voce, a volte basta uno sguardo. 

La sala della libreria in cui si organizzano questi eventi è piena. Non una sola sedia pieghevole libera. La chiacchierata scorre senza intoppi, quasi 2 ore e il pubblico non sembra annoiato. Quando finisce l'atto (e terminano le domande da parte del pubblico) il proprietario della libreria mi stringela mano: "Lei è riuscito a parlare di questioni filosofiche e letterarie di grande complessità con un linguaggio ameno e comprensibile a tutti". 

Resto colpito dal suo commento. E dai complimenti degli altri. Stringo un sacco di mani e mi presentano persone mai viste prima...

Poi, io e la mia amica, insieme al suo compagno e a una cagnetta che si chiama Isla, andiamo a cena insieme per continuare a festeggiare in nome dell'amicizia e dell'amore per la letteratura (la nostra comune passione). 


"Dobbiamo confessarti un segreto", dice a un certo punto M. 

"Oddio, cos'è successo?".

"Sono incinta!".

"Ma non ci posso credere!!!".

Ci abbracciamo e quasi piangiamo dall'emozione. Anche Isla scodinzola. Il cameriere (che parla con forte accento tedesco) ci porta in tavola i piatti prelibati del menù tailandese. Osservo alcune coppie a spasso mano nella mano. Le luci accese in alcuni appartamenti di fronte al tailandese. Le stelle nel cielo notturno. I tavolini pieni e le candele che illuminano i volti dei clienti. La sensazione strana e affascinante di stare presenziando un evento unico che si ripete da millenni. La vita che si fa strada e la catena umana delle generazioni che continua a far girare questo pianeta da secoli. M. è felice. Ci stringiamo la mano forte. Da qui a pochi mesi la sua vita non sarà più la stessa. A volte mi domando cosa significhi essere padre (o madre). Un lavoro a tempo pieno che non finisce mai o che finisce solo il giorno in cui si smette di vivere. Un impegno costante. Un tentativo costante di trasmettere conoscenza e valori a una creatura che non sa nulla e che deve apprendere tutto. La paura di sbagliare. La paura dell'incomprensione. La paura del distacco. La necessità di distaccarsi dai figli affinché vivano la loro vita e facciano gli errori che noi abbiamo già commesso...


Poi arriva il momento di tornare a casa in taxi. M. è stanca, da quando ha scoperto di aspettare un bambino si stanca con più facilità. Ha sonno, ma canta quando il tassista alza il volume e parte una canzone di Tina Turner. M. canta in inglese (ha vissuto mezza vita tra Inghilterra e Stati Uniti, prima di tornare in Spagna, la sua terra natale) e il compagno sorride, mentre accarezza Isla. Mi ospitano nel loro appartamento al nono piano di un palazzo di recente costruzione con vista panoramica spettacolare sul mare. Guardo il mare di notte. Le luci di navi in lontananza. Penso a come reagirà la mia compagna di viaggi e di avventure quando le svelerò il segreto di M. (anche lei l'ammira molto, sia come scrittrice che come studiosa). Penso a come sarà la mia prole di qui a dieci o vent'anni. Penso al futuro, ma soprattutto a questo momento presente che mi voglio godere fino in fondo... Parliamo di letteratura fino alle 2 di notte. Poi M. crolla davvero, mi saluta di fretta, sbadigliando. Ha una vita dentro di sé che vedrà la luce a fine aprile. La vita va avanti, sempre...

jueves, octubre 10, 2024

 L'ultimo Premio Nobel per la Letteratura



Apprendo al volo (leggendo distrattamente La Repubblica online) che il nuovo (ultimo) Premio Nobel per la Letteratura è stato dato a una scrittrice sudcoreana che si chiama Han Kang e che ha scritto diversi romanzi di cui io ignoravo (ed ignoro) l'esistenza, come Atti umani o La vegetariana. Leggo l'intervista che Elena Stancanelli le fece nel 2017 e scopro una domanda che mi affascina, mi colpisce e fa rima con un progetto di ricerca in cui sono immerso insieme a colleghi che vengono dalla Germania, dalla Francia, dall'Ungheria, dall'Italia (certamente) e perfino dall'Ucraina: "Mi chiedo: che cos'è un essere umano? Cos'è che ci rende umani, cosa rende umano un essere umano?". Ecco: queste sono alcune delle domande che ci stiamo chiedendo io, i colleghi e gli studenti coinvolti in un progetto Erasmus sul tema: "Le immagini della violenza in letteratura e nell'arte dei secoli XX e XXI". Che cosa ci rende umani? E cosa rende umano un essere umano? Potremo mai fare a meno della violenza come "tratto precipuo" e "atemporale" dell'esser umano?

Non ho mai letto nulla di Han Kang, ma già solo per quest'intervista e per le domande che si pone alla fine (senza dare una risposta né a Elena Stancanelli né agli altri), mi viene l'irrefrenabile voglia di andarmi a leggere almeno uno dei suoi romanzi...

martes, septiembre 10, 2024

Sarebbe diversa...

Oggi pomeriggio il fato (o il destino) ha voluto che andassi al parco giochi a trascorrere tre delle ore più tristi della mia vita (quando uno ha solo voglia di silenzio, di stasi, di calma, di solitudine). Schiamazzi e urla di bambini dai 2 ai 6 anni, a un certo punto capto questa frase (la pronuncia una giovane, bella madre di una quarantina d'anni): "Se non fossi sposata con mio marito la mia casa sarebbe diversa; anche il frigorifero avrebbe altri cibi al suo interno e la camera coi letti sarebbe diversa, sarebbe diversa tutta la casa, senza mio marito...". 

L'amica che l'ascolta sorride e aggiunge: "Vabbè, ma lo sappiamo che il matrimonio si regge sul compromesso!".

Io torno a casa con la coda tra le gambe, l'animo a terra, la testa indolenzita da tante urla infantili. 

Il parco giochi: per me potrebbe essere denominato anche "succursale dell'Inferno". E penso a quel marito ignaro di ciò che la moglie pensa di lui e di come sarebbe la loro casa se solo lui non vi abitasse.

domingo, septiembre 01, 2024

 1 di Settembre 



Come ogni anno, quando si tratta di tornare a lavoro (di riprendere contatto con l'Università in cui lavoro e, quindi, con i colleghi, gli studenti, i segretari, etc.), mi abbatte un'ansia che un'amica cara definirebbe come "anticipatoria". È come se il mio cervello si rifiutasse di guardare i lati positivi del ritorno alla "normalità" e alla "routine" e si concentrasse solo sui lati negativi: l'impossibilità di leggere solo per piacere; quella di andare in giro in bicicletta per monti e montagne per più di 3 ore di seguito e senza nessuno attorno, solo tanta Natura, solo tanto verde e aria buona; quella di andare a fare un bagno al mare, per poi poter andare a pranzo o a cena in orari non certo abituali; quella - semplicemente - di perdere tempo sapendo che non è tempo perso, ma tempo guadagnato, sottratto alla concezione ultracapitalista e utilitarista del tempo così come lo concepisce la stragrande maggioranza degli altri esseri umani che fanno parte della società in cui mi muovo.

Eppure, oggi, 1 di Settembre del 2024, è stato un giorno speciale, indimenticabile, uno di quelli da segnalare con un evidenziatore giallo sull'agenda. Un incontro inaspettato. I segni dell'antica fiamma. La pelle che torna a tremare al tatto di un'altra pelle che credevamo ormai lontana... Un tramonto visto dal fiume, in compagnia di altri sportivi che corrono e sudano con la speranza di mettere un freno agli eccessi culinari dell'estate... 

Leggo Pedro Salinas, il suo poemario più famoso, che s'intitola La voz a ti debida (ovvero: La voce a te dovuta). Apro una pagina a caso e m'imbatto in un verso che spiega perfettamente il mio stato d'animo dopo questo reincontro improvviso, del tutto inaspettato, per niente programmato: "Y no quiero ya otra cosa / más que verte a ti querer", che potremmo tradurre così: "E non voglio nient'altro / che vederti amare".

La danza dei corpi. La sapienza che abbiamo ereditato senza sapere che un giorno l'avremmo imparata a memoria. I ciclisti che ci sorpassano, due vecchietti che vanno a passeggio con il cane e ci guardano incuriositi e forse inteneriti dai nostri scambi di sguardi. L'antica fiamma. Quei segni che non si possono nascondere. La bici sporca e piena di schizzi. La borraccia svuotata subito per l'arsura d'entrambi. E non voglio nient'altro che vederti amare. Così dice il poeta...in questo inizio del mese che ci doveva riportare con i piedi per terra e, invece, ci regala emozioni che fanno volare o spingono al sorriso e alla risata condivisa...


viernes, julio 12, 2024

 Canto del buio e della luce di Antonio Moresco (o dell'esplorazione degli spazi infiniti)


In copertina si osservano delle strane figure filiformi, a metà strada tra gli esseri animati e i fossili, che sembrano protendersi verso un cielo nero al cui centro appare una sorta di luna o di pianeta fatto di pietra e di colore giallo. Le forme sinuose e ambigue potrebbero essere perfettamente le ciglia di un virus osservato al microscopio. Baccelli che sembrano staccarsi dal nucleo e protendersi verso l'infinito. 

Il titolo del romanzo, Canto del buio e della luce, rimanda inevitabilmente a una delle dicotomie cromatiche più antiche e note della storia dell'umanità: il buio, che siamo soliti associare al male, al pericolo e allo smarrimento; la luce, che, invece, ricolleghiamo per automatismo mentale al bene, alla salvezza e alla verità. Non è un caso se la selva in cui Dante si smarrisce è "oscura". Nel buio perdiamo la capacità di riconoscere le coordinate spaziotemporali che ci permettono di stare in piedi o di muoverci con scioltezza da un punto A a uno B. Nel buio non si ha più la percezione degli oggetti, degli altri, del paesaggio stesso in cui si collocano oggetti e altri esseri umani.

Dopo il titolo segue una "Prima parte istruttiva". Il romanzo si divide in tre parti: dopo quella "istruttiva", seguirà quella "sacrificale" e, infine, quella "abissale". Un climax ascendente, dal punto di vista dello sprofondare sempre di più nel buio più nero e fitto, nel peggio, nella perdita assoluta delle coordinate spaziotemporali.

L'incipit è forse uno dei più belli tra quelli scritti fino ad oggi da Antonio Moresco (nella sua essenzialità, nella sua apparente naturalità, nella sua umiltà nell'esporre i fatti e nel coinvolgere da subito il lettore): 

"Come farò a raccontare e a testimoniare una cosa simile?".

Tutti i romanzi degni di questo nome dovrebbero cominciare con una domanda simile o porsi una simile domanda anche se solo in modo implicito. Un romanzo è una narrazione lunga in cui si prova a raccontare e a testimoniare l'indicibile o ciò che appare come inenarrabile (pensiamo a Victor Sklovski e al suo angosciante Viaggio sentimentale, in cui l'autore rievoca la sua passione letteraria - o per lo studio critico della letteratura - al momento dello scoppio della Rivoluzione d'ottobre). 

Che "cosa simile" non si può narrare o raccontare? Il lettore sperimenta l'effetto della suspense sin da questa prima frase. E dopo uno spazio bianco (ce ne saranno molti, all'interno del romanzo), ecco un primo accenno, ancora più inquietante, ancora più stimolante per la mente di chi s'inoltra nell'atto della lettura:

"È cominciato a poco a poco, lentamente, impercettibilmente. Per questo, all'inizio, non si è capito bene cosa stava avvenendo, perché i nostri cervelli si rifiutavano di prendere in considerazione una tale enormità. Come si può concepirla? Invece stava succedendo davvero".

Ecco una parola chiave fondamentale della poetica (e all'interno dell'universo narrativo) di Antonio Moresco: "enormità". Il lettore appassionato di Moresco l'ha già incontrata ne La lucina, ne La cipolla, e, soprattutto, nella trilogia iniziata con Gli esordi, proseguita con i Canti del caos e terminata con Gli increati. "Enormità" in quanto sfida costante ai canoni del realismo e del principio aristotelico della "mimesis". "Enormità" in quanto tentativo razionalizzante di spiegare l'inspiegabile (un esempio su tutti: ma nel mondo dell'al di là i morti continueranno a indossare vestiti o no? Mangeranno e berranno o no? Continueranno a parlare o cadranno nel silenzio più assoluto? Sono queste le domande che provocano i narratori allucinati dei romanzi di Moresco).

Un altro spazio in bianco e, infine, il disvelamento parziale del mistero legato all' "enormità" attorno a cui ruoteranno le quasi 600 pagine del romanzo:

"Cosa stava succedendo?", si chiedevano le persone, guardandosi attorno prima stupite, poi sbalordite, poi spaventate, atterrite. Gi umani facevano sempre più fatica a riconoscere le cose sul filo dell'orizzonte. Le città a poco a poco sparivano, i contorni svanivano, il cielo e la terra si confondevano, era sempre più difficile distingere la notte dal giorno. Gli automobilisti guidavano con gli occhi sbarrati lungo i rettilinei delle autostrade, leggevano sempre più a fatica i nomi delle località scritti sopra i cartelli. Donne e uomini si vedevano sempre meno dentro gli specchi. I bambini all'inizio si divertivano, perché potevano giocare meglio a nascondino.
"Dove sei?"
"Cucù, sono qui!".

Ecco il fatto inenarrabile e indescrivibile: se viene meno la possibilità di poter "circoscrivere" attraverso la vista ciò che ci appare sulla linea dell'orizzonte, diventa impossibile anche seguire un discorso logico e razionale, separare correttamente le azioni svolte di giorno da quelle che si è soliti compiere di notte, viene sconvolto il nostro ritmo biologico e le piante non potranno più fare la fotosintesi e l'aria che si respira non sarà più la stessa, né l'atto quotidiano di andare al ristorante potrà più essere svolto secondo le norme sociali: lo chef cucinerà a occhio, i suoi clienti mangeranno letteralmente alla cieca e così pure le ballerine di una scuola di danza che insisteranno e continueranno a fare le prove davanti alla sbarra senza l'aiuto dell'immagine riflessa nello specchio. 

Che senso ha (può avere) uno specchio in assenza totale di luce? Possono gli specchi continuare a riflettere qualche abbaglio di realtà in una realtà permeata dall'oscurità? Che senso ha che attori di un set pornografico continuo a mantenere relazioni sessuali, quando nemmeno il regista sa più cosa sta riprendendo e a favore di chi? Ci si può masturbare nell'oscurità più totale? Ha lo stesso suono un canto emesso in una Terra totalmente sommersa dal buio?

A metà tra la distopia e il genere apocalittico, con Canto del buio e della luce Antonio Moresco prosegue la sua riflessione asistematica, afilosofica e altamente immaginativa e creativa attorno ai nodi principali della società del XXI secolo in cui siamo immersi: dai disastri ambientali all'egoismo più estremo; dalla politica perpetrata da ipocriti e mafiosi all'abuso dell'intelligenza artificiale che rischia di annichilire ogni forma di libero arbitrio e di libero pensiero, in questo libro strano e affascinante e terrificante Moresco si interrega e ci spinge a interrogarci su quale potrebbe essere il nostro ruolo all'interno di un mondo in estinzione per colpa delle azioni nefaste di una specie che sa che potrà estinguersi a breve con le proprie mani.

Coadiuvato dal sapere degli scienziati, il narratore molteplice e cangiante di questo romanzo ricorre alla fisica quantistica per cercare di spiegare in modo razionale l'irrazionale (personalmente, è la prima volta che leggo un romanzo in cui prendono la parola così tanti scienziati, da Carlo Rovelli a Ignazio Licata, da Fabrizio Tamburini a Guido Tonelli). Appoggiandosi alle teorie musicali del maestro Vessicchio, questo stesso narratore multistrato - e che è capace d'inserirsi nella mente e nei pensieri di Putin, di Papa Francesco o di un Gesù redivivo che non vuole assolvere il ruolo che gli è stato affidato da Dio secondo la vulgata biblica - va elaborando teorie in cui i movimenti dei pianeti nello spazio diventano chiavi di volta per partiture dai titoli lirici (Illuminante, Ipoaggregante...).

La scienza, la musica e la religione, così come siamo abituati a concepirla nell'ambito cristiano occidentale, diventano così fonte di racconto, di riflessione, di curiositas nel senso aristotelico del termine (l'uomo si fa filosofo quando si sorprende davanti a ciò che non comprende; la meraviglia è il motore primo che porta homo sapiens a mettere in circolo e in azione i pensieri).

Canto del buio e della luce è un romanzo che ci fa esplorare quei leopardiani "interminati spazi" proprio per non terminare, nel convincimento che ci sono storie che non possono terminare e che spetta a noi, lettori empirici, portare a compimento nella reinvenzione della realtà o nella riflessione critica attorno alla realtà in cui siamo destinati a vivere e, poi, a morire. Moresco, attraverso le voci e i canti del narratore e dei protagonisti di Canto del buio e della luce, viaggia oltre Giove e verso l'infinito, proprio come il David Bowman di 2001: Odissea nello spazio, personaggio ulissiaco e kubrickiano che, dopo essere approdato in una stanza rococò in cui troverà la morte, avrà anche modo d'imbattersi o di vedersi riflesso nel feto nietzscheano che galleggia nell'oscurità dello spazio interstelleare al ritmo di Strauss, simbolo probabile di un nuovo, potenziale inizio.

jueves, junio 06, 2024

 Una scia

Una scia d'areo che solca il cielo: il piacere nella bocca di lei; il piacere nei pori della tua pelle. Lo sguardo nello sguardo: l'intesa perfetta. Tra i limoni dell'orto della città del Sud del Sud della Spagna in cui ti trovi in questo momento, quell'aereo non fa rumore, plana come se fosse disegnato sul pezzo di carta di un bimbo delle elementari, uno di quei bambini che, con la matita fra le labbra, scopre che con le mani si possono creare realtà alternative. 


Nel pomeriggio, vi ritrovate a fare la fila per assistere alla presentazione dell'ultimo romanzo di Juan Manuel de Prada, l'autore di Coños, raccolta di racconti sull' "origine del mondo" tradotto in italiano con il titolo Fiche. Lei non conosceva né l'autore né l'opera in questione e così, intimidito ma felice, gliela presti, ti azzardi a invitarla a leggere alcuni dei racconti più esilaranti (lei legge e ride, tu la guardi e sorridi).


Intanto, in quel preciso momento, mentre lei legge, tu alzi lo sguardo verso l'alto e ti ritrovi inebetito a seguire la scia di un altro aereo (non sarà mica lo stesso del mattino?) e ti chiedi da dove viene e dove va, verso che città è diretto e se all'interno ci sia qualche passeggero che guarda verso il basso, magari proprio ora, magari proprio verso l'ingresso della sala in cui si svolgerà l'incontro letterario...


È l'ora del tramonto, ormai. Entrate e vi sedete l'uno affianco all'altra. Le parli della scia dell'aereo. Le spieghi che l'avevi già visto nel mattino, mentre eravate sotto al limoneto. Lei ti stringe forte la mano e ti sorride. Non aggiunge altro. Non parla. E per uno strano motivo che non sai spiegare ti viene in mente la scena di un romanzo, Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani, quando il protagonista incrocia lo sguardo della piccola Micòl e capisce che se ne sta già innamorando.

 Il passato che torna Ieri ho fatto una cosa che avrei dovuto evitare: ho aperto una cartella piena di foto del passato e, ovviamente, il pa...