Dall'ospedale
La nebbia. È da quasi 2 settimane che la nebbia avvolge gli spazi della mia città sui monti abruzzesi. Non riesco a credere che, salendo a più di 1000 metri di altitudine, la stessa scompare; come se fosse un trucco o una maledizione che vale solo per chi resta in basso (a 800 metri s.l.d.m.).
La chiamo prima di ripartire per la Spagna, ovvero, prima di riprendere il viaggio verso l'aeroporto di Fiumicino (ci accompagna mio padre, anche se odia guidare per Roma e il GRA lo spaventa alquanto).
Mi risponde con la voce squillante di sempre, ma dice che è ancora in ospedale: "Il post-operatorio. Ci sono state delle complicazioni. Non posso ancora uscire da qui". Le faccio forza, anche se a distanza; provo a distrarla; le mando le foto delle bimbe; le parlo dei prossimi impegni accademici, tra il Sud Italia e Madrid, tra Cosenza e Valladolid, tra Don Chisciotte e Sancio Panza. Lei sorride. La immagino sorridente, mentre prova a stare dritta appoggiando i gomiti sul cuscino, il letto disfatto, l'infermiera in procinto di avvicinarsi per dirle che deve riattaccare, deve fare delle nuove analisi, la devono visitare, "mi dispiace" - mi dice con tono concitato - "ma devo andare, c'è qui l'infermiera", io le dico che non c'è problema, che se vuole la richiamo dopo, che ci possiamo sentire anche dalla Spagna, "ciao ciao" e, in effetti, riattacca.
Ascolto il silenzio. Nessuno dall'altra parte del cellulare. Fuori la nebbia. Persiste. Non se ne va. I lampioni fanno fatica ad illuminare le strade vuote e fredde. Non so se riusciremo a vederci, dopo tante promesso e tanto tempo trascorso dall'ultimo incontro pisano.
Non so perché, mi ricordo di un'osservazione di Leopardi: il Lungarno di Pisa è più bello di quello di Firenze. Poi provo a dormire. Mentre penso alla nebbia che tutto pervade, circonda, accerchia.
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