lunes, diciembre 24, 2007



Blow up: chi guarda chi (con Coppola "al fondo")


Sono trascorsi circa 10 anni dall'ultima volta che ho visto Blow up (1966) di Michelangelo Antonioni. Ne avevo un riccordo diffuso e sfocato. Ricordo che all'epoca non capii molto del film, ma che quando arrivai al finale rimasi di sasso, come davanti a una rivelazione (una sorta di epifania - nel senso "joyciano" e affatto cattolico del termine). In 10 anni si cambia. Non siamo più gli stessi; abbiamo letto più libri, ci siamo fatti una cultura (come dicono alcuni), anche il cinema non è più lo stesso (di quello di prima; quando, ad esempio e per restare solo in Italia, giravano registi come Fellini, Pasolini, Rossellini, Vittorio De Sica e Dino Risi). Anche il pubblico è cambiato: oggi esistono cellulari che ti permettono di vedere un film su un micro-schermo a cristalli liquidi (nutro dei dubbi sull'efficacia di una simile visione miniaturizzata, comunque, è un fatto, qualcuno li ha inventati e messi in commercio, quindi, penso, ci sarà sicuramente qualcuno che acquisterà il cellulare col mini-schermo incorporato per vedere film in micro-formato quando e dove vuole). Le telecamere sono a ogni angolo della strada e ci osservano (non per forza di cose si tratta di spionaggio) mentre facciamo la spesa, paghiamo le bollette, ritiriamo soldi dal bancomat o facciamo l'amore con l'amante di turno nell'hotel vicino alla stazione. Nel '66 il fenomeno "grande fratello" doveva essere ancora ai suoi primordi (quanto fu profetico George Orwell con 1986 lo scopriamo solo oggi). E comunque questo film mi fa venire in mente un altro capolavoro della storia del cinema, The conversation (1974) di Francis F. Coppola. Se Blow up è un film sul cinema e sul vedere (quindi sulla fotografia, sull'immagine, sull'immagine catturata da un obiettivo, per dirla in soldoni), il film del regista de Il padrino è un'opera che ci fa riflettere sul cinema e sull'ascoltare (quindi sull'atto di captare suoni, attraverso un microfono, una microspia, un buco della serratura o una parete di casa nostra). Antonioni prende spunto da un famosissimo e ormai classico racconto di Julio Cortázar che s'intitola Las babas del diablo e ci conduce per mano lungo la discesa agli inferi di un fotografo di moda che scopre per caso un omicidio fotografando una coppia di amanti in un parco. Coppola prende spunto non so se da un romanzo o dalla cronaca nera del suo paese per mostrarci la progressiva discesa verso la follia di un agente della C.I.A. (o dell'F.B.I.?) che capta e registra quasi per caso in una piazza trafficatissima la conversazione di due amanti che decidono di ammazzare il marito di lei alla tale ora nel tale luogo. Ripeto: sono due film sul cinema, perchè entrambi (anche se ognuno a modo suo) non smettono di presentarsi come metafore esplicite sull'atto del guardare e dell'ascoltare (anche se il primo spinge l'acceleratore sul pedale dell'apparato visivo e il secondo su quello dell'apparato sonoro).
Dal momento in cui David Hammings sviluppa i negativi delle foto scattate al parco non sappiamo più se quello che vediamo è reale. E se quello che abbiamo visto attraverso il punto di vista del fotografo sia davvero successo (dubitiamo con lui, insieme al protagonista). Un problema diverso è quello che deve risolvere Gene Hackman nel film di Coppola: se Hammings scopre un cadavere ingrandendo la foto ("blow up" vuol dire questo: "ingradire"), Hackman teme di rinvenire il cadavere dell'ignaro marito cornuto in un bagno di una stanza d'albergo. Ciò che ci colpisce è che entrambi si trovano costretti a fare i conti con la realtà e con la versione della realtà di cui essi sono stati gli unici testimoni. Di qui il bisogno per entrambi di "certificare" che quanto visto (e sentito) è davvero accaduto; che non è stato solo un sogno (o un incubo) e che non si sono inventati nulla. Hammings chiede a un amico di accompagnarlo sul luogo del delitto; Hackman fa tutto da solo ed entra nel bagno incriminato. Risultato: il primo non trova più il cadavere (che la notte prima aveva rinvenuto seguendo proprio le coordinate spaziali evidenziate dall'ingrandimento) mentre il secondo finisce preda delle allucinazioni (e immagina di vedere sangue che fuorisce tempestosamente dal water del bagno). Chi ha visto cosa? Chi ha sentito che?
Blow up si chiude in modo enigmatico. Hammings assiste insieme a un gruppo di artisti da strada a una partita immaginaria che due mimi "giocano" per il pubblico. Hackman torna a casa e scopre di essere spiato (lo "spione" spiato, o il gatto che si morde la coda) e finisce col mettere a soqquadro la casa pur di scovare la cimice nascosta dai suoi colleghi (dai nemici? Dal Governo? Chi si è reso colpevole dell'uccisione di quell'uomo? I due amanti o lo Stato stesso che sapeva e ha taciuto?). La responsabilità del vedere e quella dell'ascoltare. In una parola sola: la responsabilità di sapere. O di venire a sapere.
Prima di ogni azione volontaria (prima del suo scatto al parco; prima della registrazione furtiva di quella conversazione privata), nessuno dei due protagonisti sospetta nulla di nessuno. Basta soffermarsi un momento sulla realtà; basta voler andare a fondo nell'analisi di quanto vediamo e sentiamo; basta saper ingrandire (o riascoltare attentamete) perchè quella stessa realtà (all'apparenza banale e priva di sorprese) si trasformi in un mistero da svelare. E' questa stessa tematica a spingermi ad accostare due film così simili eppure così diversi. E a farmi riflettere su un fatto: chi si avvicina troppo a una porzione della realtà e prova a indagarla a fondo rischia di perdere la percezione stessa del reale e di finire in un vortice senza fine. Il punto è che vorremmo sapere tutto e risolvere ogni enigma. Aspirazione ancestrale che se da un lato ci ha permesso di evolverci dall'altro ci ha portato alla morte. E' questo il caso dell'Ulisse dantesco del XXVI canto dell'Inferno (chi troppo vuole nulla stringe); è questo il caso di Don Quijote, che dopo aver inscenato una vita da romanzo, finisce col tornare a casa sua e morire da cristiano (con buona pace del lettore che si era ormai affezionato ai suoi discorsi assurdi). La giusta distanza (da cui guardare) e capire chi guarda chi e chi ascolta cosa. Questa è la cosa più difficile da conquistare in questa vita.

jueves, diciembre 20, 2007


Jovanotti giova


Grazie Dadda (hermano) per avermi fatto ascoltare in anteprima Fango:


"ora la città è un film straniero senza sottotitoli
le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli
il ghiaccio sulle cose
la tele dice che le strade son pericolose
ma l'unico pericolo che sento veramente
è quello di non riuscire più a sentire niente
il profumo dei fiori l'odore della città
il suono dei motorini il sapore della pizza
le lacrime di una mamma le idee di uno studente
gli incroci possibili in una piazza
di stare con le antenne alzate verso il cielo
io lo so che non sono solo"

martes, diciembre 11, 2007

All'Accademia di Danimarca

A Roma esiste una via che si chiama Via Omero. Non conduce ad Itaca (sorriso spento; ironia laconica), bensì all'Accademia di Danimarca. A questa si affiancano altre accademie; tutte ruotanti intorno al Museo di Arte Moderna e alla Facoltà di Architettura di Valle Giulia. C'è quella egiziana; quella belga; quella rumena; quella olandese; quella svedese. E, appunto, quella danese.


E' qui che pernotta Jens, uno dei miei migliori amici dai tempi dell'Università di Pisa. L'aria che si respira all'interno dell'Accademia è alquanto sinistra (da fuori, di fatto, sembra una specie di obitorio: linee rette orizzontali e verticali che s'incrociano in modo geometrico, sembra il luogo ideale in cui girare un film horror, o alla Dario Argento), ma Jens, col suo umorismo, ti mette subito a tuo agio. Le luci dei lunghi corridoi sono fioche, quasi impercettibili. Tanto che fanno molta più luce (e aiutano lo sprovveduto visitatore a non inciampare per le scale) i lampadari enormi che pendono dal soffitto delle stanze dell'Accademia più vicina (quella svedese). Io lo seguo: Jens è un filosofo, esperto di Kierkegaard e dell'esistenzialismo. E' uno dei primi traduttori dall'italiano delle opere di Gianni Vattimo seebbene non sia sempre d'accordo con Vattimo (e col suo pensiero debole). Anzi: ha da poco pubblicato la versione danese de Il futuro della religione e in un appendice di 40 pagine critica molto la posizione che sia Vattimo che Richard Rorty espongono riguardo alla religione e alla laicità e al rapporto tra le due sfere. Mi mostra un mucchio di ritagli di giornale: mi spiega che sono le recensioni che ha ricevuto il libro e tutte concordano nell'elogiare le critiche del curatore e nel criticare le posizioni dei due protagonisti (Jens sorride; è orgoglioso e fa bene, io farei lo stesso, ricevessi di simili complimenti).


Poi decide che è ora di andare a cena. Siamo sempre immersi nel buio e per spostarci dal secondo al primo piano, ci lasciamo guidare io dalla sorte, lui dall'olfatto e dall'abitudine. Dice che ama passeggiare in Accademia di notte, anche nelle ore più tarde, quando non riesce a dormire e fa prendere degli spaventi o piccoli infarti agli altri ospiti o borsisti suoi conterranei. La cucina è in perfetto stile Ikea (l'hanno inventata loro, d'altronde: non poteva essere diversamente) e c'è già qualcuno che mangia. Jens mi presenta due fanciulle (bionde, com'è ovvio) che rispondono ai nomi di Lette e Gilde. Qui sono tutti artisti: Lette è violinista, Gilde ha da poco pubblicato un romanzo. Ma poi ci sono anche un cantante d'opera; una scultrice; uno studioso di storia romana; un fotografo, etc. Sembrano un'allegra famiglia allargata. Ridono e scherzano fra di loro e quando parlano tra di loro mi lascio cullare dai suoni di una lingua a me ignota. Potrebbero dirsi anche le cose più assurde, io non mi accorgerei di nulla.


Jens è di quelle persone che parlano di filosofia anche a cena, ma senza annoiarti mai. Una delle due ragazze chiede di cosa stiamo chiacchierando. Jens le risponde che si tratta di Luigi Pareyson (e della traiettoria che hanno preso Umberto Eco e Gianni Vattimo a partire dagli stessi saggi del loro maestro). La ragazza (non ricordo più se è Gilde o Lette) fa una smorfia che significa: "che noia!" o anche: "che palle!". Non la biasimo. Jens ride. Poi mi offre un bicchiere di un liquido caldo fatto di vino rosso, bacche, cannella e more. Dice che è un liquore tipico delle feste natalizie. Mi fido: sa di amarena. Potrebbe ricordare vagamente una sangria. Scende che è una bellezza e per me, tornare al secondo piano, diventa un'impresa. Jens vaga per i corridoi con la sua vista da pipistrello e io lo prego di aspettarmi. Jens ride. M'indica un'ombra. Dice che potrebbe essere un fantasma. La cosa non mi piace affatto. Poi ci infiliamo in camera sua. Mi lascia guardare la posta elettronica. E mentre mangia un arancio, parliamo del saggio di Massimo Cacciari che parla Dell'inizio. Ci ho provato a leggerlo, ma è troppo per le mie capacità. Jens mi spiega che è molto neoplatonico nello stile e nella strutturazione interna. Ci sono dialoghi che non sono dialoghi. C'è un tipo che insegue altri due tipi e non si sa se camminanoo all'indietro (o in avanti) verso comunque quello che tutti dicono essere "l'inizio". Ma è davvero tale?


Fuori fa freddo. Attraverso parte di Villa Borghese, tra alberi giganti e prati pieni di foglie morte. Jens è un filosofo che crede nell'amore. Mi ha confessato che le piacerebbe avere una conoscenza diciamo "biblica" con Lette (o è Gilde?). Peccato però che sia fidanzata e lui non è proprio il tipo da rompere coppie stabili o "entrare nel nido di un altro" (testuali parole; penso che l'espressione è molto efficace, oltre che molto metaforica).


Jens è il filosofo con cui mi confido quando cerco un senso a ciò che mi preoccupa o che non capisco. Anche se lui non dà mai risposte certe. Arrivo a Piazza del Popolo. Jens a quest'ora starà girando da solo come un pazzo per i corridoi dell'Accademia. Al buio, per spaventare gli altri connazionali e spiegare loro che un senso proprio non c'è. Anche se è ancora bello credere nell'amore. "Non ti sembra incredibile?". "E' incredibile, ma fai bene". "Anche se ormai sono vecchio per certe cose". "Ma no, che non sei vecchio. Anzi". "Ma secondo te le piaccio? Le interesso?". "Ho visto che ti guardava con occhio interessato, sì. Direi proprio di sì. Dai, fatti sotto".

viernes, diciembre 07, 2007

Il dibattito sui giovani



Causa un fastidiosissimo ascesso a un dente curato male, mi sono ritrovato bloccato a casa e ho avuto modo di inabissarmi nel vuoto televisivo. Che la televisione sia ridotta male in quanto a contenuti è cosa palese e risaputa; che in televisione si parlasse così tanto dei cosiddetti "giovani" mi ha colpito parecchio. Sembra che all'origine ci sia il delitto di Perugia (una studentessa inglese violentata e ammazzata da non si sa chi; studentessa, quindi giovane, quindi universitaria; come per Cogne, a Bruno Vespa non deve essergli parso vero avere la possibilità di farci sù tante puntate ricche di suspense e di interviste ai sospettati). Com'è possibile un delitto simile? Come mai a Perugia, città tranquilla e universitaria, e perciò piena di ragazzi? Da qui una sfilza di giornalisti (o pseudo-tali) pronti, col microfono in mano, a indagare nella vita privata degli universitari tra i 19 e i 26 anni.



Umberto Galimberti, il filosofo, l'ha detto almeno due volte: una sera, a notte tarda, da Bruno Vespa (ma va?); l'altra sera, a notte media, al Maurizio Costanzo Show. I giovani di oggi si ritrovano demotivati e incapaci a vivere in modo sano le emozioni perchè sono finiti in una società del benessere che sta per eliminare lo "stato sociale" (niente più pensioni, in futuro, se non apri un tuo fondo pensionistico a parte) e che non fa che spingere l'acceleratore sul pedale del consumismo e del capitalismo fini a sè stessi (per cui io sono non per quello che valgo - moralmente, soggettivamente - ma per quello che posseggo o posso comprarmi).



Posso essere d'accordo: la precarietà è davvero il male sociale di questi giorni. Vent'anni (o forse trent'anni) fa, a 18 anni, chi non aveva voglia di studiare si cercava un "posto fisso" e si costruiva una famiglia o una casa o tutte e due le cose insieme. Oggi bisogna: 1-laurearsi; 2-dottorarsi o fare un master; 3-trovarsi un lavoretto part-time di fortuna e poi, forse, chissà, a 30 o 35 anni ci si può davvero "independizar" (come dicono gli spagnoli) e vivere delle proprie forze (lontano dalla condizione di eterni figli; lontano dai propri genitori). Ma ci siamo chiesti davvero chi è il vero responsabile di una situazione simile? Ci siamo chiesti davvero perchè un dottorato deve finire con l'accettare anche un lavoro come cameriere a trent'anni o come dipendente call-center se non trova sbocco nell'ambito della ricerca? E perchè tanti ricercatori sono obbligati ad emigrare all'estero? E perchè tanti "masterizzati" sono costretti allo stage presso l'azienda prima che questa si decida a dargli un contratto vero (e non temporaneo e non part-time)?



Sembre Galimberti nota: "Una società che non sfrutta il potenziale dei giovani è una società destinata al declino". Non si può non sfruttare un ragazzo che, prima dei 30 anni e non dopo, è nella fase della sua maggiore forza creativa, sessuale, progettuale, fisica. E' come se in passato avessero dato il pallone a Pelè a 18 anni (e non prima). Verissimo. Ma ripeto: quali sono le cause che (mi) impediscono d'entrare davvero nel mondo del lavoro e di esprimermi al meglio (d'esprimere al massimo grado le mie potenzialità)?



Beppe Grillo propone da vario tempo di eleggere i politici con contratti co.co.co.: se lavorano bene, vanno avanti; se ci fanno schivo e ci accorgiamo che non rendono (che sono assenteisti; che fanno il proprio porco comodo), li mandiamo a casa (o a zappare la terra). Che c'entri la politica? Non c'è dubbio (in Spagna Zapatero vuol dare un aiuto economico di non mi ricordo più se 200 o 400 euro ha chi, essendo giovane, guadagna poco e vuol andare a vivere in affitto da solo). Che c'entri anche il fatto che in Italia gli avvocati, i notai, i professori, i medici che più guadagnano e che sono più rinomati sono persone che ormai rasentano la settantina? Perchè all'estero anche chi fa politica ha un'età media molto più bassa rispetto all'Italia (paese meraviglioso, non c'è che dire, ma anche paese anomolo, in cui un settantenne, un vecchietto, diciamo, come Berlusconi può sciogliere un vecchio partito, per fondarne uno nuovo di zecca - il Popolo delle Libertà, lui che parla di libertà, poi, davvero comico)? E perchè sempre all'estero, mettiamo in Germania, ci sono ingegneri che cambiano lavoro anche due volte l'anno senza mai perdere potere d'acquisto, offrendo le loro capacità all'azienda che paga meglio, mentre qui, da noi, a Roma, esistono ingegneri aerospaziali (come un mio amico) che hanno trovato il "posto" dopo uno stage e guadagnano 1200 euro (come se fare l'ingegnere aerospaziale fosse un lavoro simile all'impiegato statale)?

Tornando ai giovani: in una società in cui il potere è avidamente in mano agli adulti (ma da noi potremmo dire anche: ai vecchi), e in cui non c'è vero dialogo e scambio generazionale (per cui gli adulti guardano al mondo dei giovani come un mondo di alieni; e viceversa questi guardano ai loro padri come a degli avidi "poltronisti") si corre davvero il pericolo di non parlarsi più, di non scambiarsi più esperienze, di non crescere.

Mio nonno mi ha insegnato a riparare una camera d'aria di bicicletta; io potrei insegnare lo stesso (e anche di più) a mio figlio, avessi i soldi per mantenermi una famiglia e metterlo al mondo.

 Il passato che torna Ieri ho fatto una cosa che avrei dovuto evitare: ho aperto una cartella piena di foto del passato e, ovviamente, il pa...