sábado, marzo 14, 2009


Elogio dei libri: il Philobiblon di Riccardo da Bury

Libro strano e curioso quello che ho trovato quasi per caso l’altro giorno alla Feltrinelli di via de’ Cerretani… Mi ha attratto subito il risvolto di copertina, lì dove Petrarca afferma che “nessuno aveva più libri di lui”. E chi era mai questo Riccardo da Bury da indurre il “poeta laureato” ad un’affermazione del genere? Era niente meno che il vescovo di Durham, amico e fedele alleato del Re britannico Edoardo III e custode, oltre che promotore, della biblioteca della (già allora) famosa Università di Oxford (tra le prime Università fondate nel Medioevo, insieme a quelle di Parigi, Bologna e Salamanca). Il trattatello è una vera e propria lode scritta in onore dei libri e una sorta di giustificazione a posteriori da parte dell’autore per spiegare le ragioni profonde della sua mania per i libri e per la conservazione e collezionismo degli stessi. In pratica, Riccardo da Bury scrisse sia per spiegare l’altissimo valore morale e spirituale che tutti possiamo riconoscere nella pratica della lettura sia per difendersi dagli attacchi delle malelingue che, all’epoca, si erano propagate in relazione alla sua biblioteca immensa e alle sue spese per acquistare libri da ogni parte del mondo conosciuto. L’autore chiude l’opera confessandoci che terminò di scriverla il 24 Gennaio del 1344. Di lì a poco sarebbe morto, lasciando per sempre questa valle di lacrime e affidando ai posteri la sua collezione privata nata per il bene comune e l’edificazione spirituale dei suoi studenti e di tutti coloro che si fossero avvicinati ai libri con amore e rispetto.



Il cap. I riserva subito una grata sorpresa: l’idea che la letteratura sia un modo per continuare a far vivere il passato e, dunque, in certo qual modo, che essa permetta il dialogo coi morti (vedi W.G. Sebald et similia), è espressa nel modo più chiaro e limpido possibile (il lettore essendo spinto a riflettere anche sullo stretto legame che c’è tra “lettura” come “lotta contro l’oblio” e “scrittura” come “strumento atto sia a riflettere sul passato che a ipotizzare il futuro”):

Nei libri ritrovo vivi i morti, nei libri prevedo il futuro, nei libri trovo le geometrie dell’arte bellica e dai libri escono le leggi della pace. Nel tempo tutto si consuma e marcisce e Saturno non si stanca di divorare i suoi figli: l’oblio seppellirebbe ogni gloria terrena se Dio non vi avesse posto rimedio inventando i libri (p. 37, dell’ed. Rizzoli, Milano, 1998, a cura di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri).

Una seconda immagine icastica del potere dei libri segue poche righe dopo, quando Riccardo da Bury ci illustra in che modo i libri siano “liberali” e rendano “liberi”:

Riflettiamo […] su come nei libri il sapere sia a portata di mano, quanto sia semplice e misterioso insieme; con quanta tranquillità, senza falsi pudori ci spogliamo davanti a loro della nostra ignoranza. I libri sono maestri che ci educano senza bacchetta né verga, senza strepiti né rabbia e non voglion favori né soldi! Se ti avvicini loro, non dormono e non sfuggono se li interroghi per sapere! Non ti riprendono se sbagli e non ti ridono in faccia per la tua ignoranza! O libri! Soli liberali e liberi, voi che date a chiunque chiede e che rendete liberi tutti quelli che vi hanno serviti con serietà e onore (id., p. 41).

Non deve allora sorprendere se, a partire dal cap. IV, sono i libri stessi a prendere la parola, personificati, e a lamentarsi in prima persona (del plurale) contro i “chierici degeneri”, ossia, contro tutti quegli uomini di Chiesa che salgono in cattedra, ricoprendo le più alte cariche ecclesiastiche, senza aver prima “digerito” le varie letture e, soprattutto, dimenticandosi che se sono arrivati in alto lo devono solo ed esclusivamente ai libri. La polemica ritorna nel cap. IX (“Come non si devono condannare gli studi dei moderni (anche se si amano di più i libri degli antichi)”), lì dove depreca tutti quei chierici che sfruttano la conoscenza per sete di potere e ambizioni di stampo prettamente materialista (e dietro certe frasi, quanti professori universitari si possono scorgere oggigiorno, quanta attualità in simili esternazioni!):

Questi chierici ancora con il latte sulle labbra, senza alcuna decenza ottengono immeritata la docenza di più facoltà, e salgono in cattedra non con la dovuta cautela di un passo misurato, ma saltellando come le capre! [ricordate la Gelmini, natia di Brescia, che prese la residenza temporanea a Reggio Calabria, ben conscia del fatto che laggiù è molto più facile passare l’esame di stato da avvocato? E cosa fa ora la Gelmini? Non l’avvocato, no, né il giudice né il notaio… è la nostra brava Ministro dell’Istruzione!]. Non hanno ancora assaggiato il grande fiume [del sapere], intingendovi appena le labbra, che credono di averlo giù gustato in fondo; e poiché non hanno voluto sprecar tempo a imparare le cose elementari, costruiscono pericolanti edifici destinati a crollare quanto prima. Ormai cresciuti, è una vergogna che debbano mettersi da adulti a imparare quello che avrebbero dovuto conoscere prima, e così sono costretti a scontare per sempre la loro carriera precoce sì, ma immeritata (p. 131) [e quanti ne ho conosciuti di ricercatori – in ambito umanistico – che disconoscono l’uso del congiuntivo! O che fingono di aver letto Aristotele e Platone quando non sanno nemmeno cosa significhi “peripatetico” o “parmenideo”!].

Ciò che colpisce di questo stesso capitolo è il fatto che la famosa questione des anciennes et des modèrnes fosse già attuale (e dibattuta) nel 1344… Già allora, loro, giustamente, si consideravano “moderni” rispetto a Ovidio e Omero o a Virgilio e Tacito. E già allora si domandavano su chi fosse più bravo… Riccardo da Bury non ha dubbi: sarà che gli antichi “studiavano di più”, sarà che “fossero dotati di sensi più acuti” fatto che sta lui, pur non condannando i “moderni”, apprezza di più (e si schiera dalla parte) degli “antichi” [una studentessa mi chiese via email perché nei programmi universitari attuali non comparissero mai o solo raramente corsi dedicati ad autori contemporanei; le risposi citandole Italo Calvino: “si studiano i classici perché sono libri che non hanno smesso di dire quel che avevano da dirci” e “non si studiano i contemporanei” perché, ahinoi, molti docenti soffrono di codardia o sono fin troppo incerti e insicuri nel momento in cui si tratta di usare l’intuito e l’azzardo – gli unici mezzi per poter fiutare il “classico del futuro” e poterci costruire sopra un discorso critico che aspiri alla scientificità; poi è ovvio che si può sbagliare, ma il “sale” della ricerca dovrebbe essere anche questo; intuito e azzardo; un po’ di immaginazione, accompagnata sempre dalle regole della filologia e del rispetto per la “littera” del testo, antico o moderno che esso sia].

Nel cap. XV, invece, trovo l’ennesimo elogio iperbolico, e mi viene in mente la parte finale di 2001: Odissea nello spazio (la scena in cui David Bowman finisce dentro il vortice di colori, “verso l’infinito, e oltre”):

Libri! Compagni divertenti delle giornate limpide, conforti insostituibili nei fortunali della sorte avversa. […] Quanta la loro forza, […] se solo si pensa che grazie a loro si possono scorgere i confini dello spazio e del tempo e possiamo riflettere sulle cose inesistenti non meno che su quelle che esistono, come in uno specchio dell’eternità! Scaliamo le vette, esploriamo le profondità degli abissi e nei codici vediamo specie di pesci che la nostra atmosfera non potrebbe neppure contenere; nei libri raccogliamo con ordine le caratteristiche dei fiumi e delle fonti proprie di ogni terra [...]. Con i libri possiamo far visita agli abitanti dei cieli […] su, fino a perderci nello spazio fino al firmamento ornato di segni, di gradi e di ogni varietà immaginabile di figure; eccoci con gli occhi aperti sulla Galassia e lo zodiaco dipinto di animali celesti. Via, arriviamo ora, portati dai libri, ancora più su fino alle sostanze separate, così che l’intelletto possa salutare le intelligenze sue simili e scorgere con l’occhio dell’infinito potere della mente la causa prima e immobile, e grazie all’amore si unisca a Lui per sempre. E giunti fin là con l’aiuto dei libri, visto che siamo ancora viandanti in questo mondo, assaggiamo la ricompensa della nostra beatitudine (pp. 169-71, corsivi miei).

Insieme a questi “voli ulissiaci”, il libro è pieno di consigli pratici: su come comprare a miglior prezzo; su come farsi aiutare nel riunire libri che si trovano in monasteri o chiese lontane; su come leggere e trattare i libri e come riporli negli scaffali una volta letti. In tal senso, il cap. XVII è il più “comico” e divertente. Riccardo da Bury elenca i peggiori vizi di certi suoi alunni; li depreca quanto lasciano cadere pezzi di cibo o resti di frutta dentro le pagine dei codici; o quando si mettono a leggere, senza soffiarsi il naso sgocciolante; li sgrida quando si accingono ad aprire le candide pagine con mani sudice o unghia sporche. Ha proprio ragione il vescovo di Durham: se i libri sono i custodi della sapienza, dobbiamo sfogliarli con riverenza e come se la lettura fosse un atto d’amore. Quindi ragazzi attenti la prossima volta che trattate male un libro, perché (p. 185) “I libri non sono scarpe, bisogna averne più cura, molta di più”.

Insomma, una lettura amena e che consiglierei a tutti quei docenti che si occupano di letteratura o di materie umanistiche. Oggi non si legge quasi più in classe; o almeno, si legge poca letteratura. E questo è un male che sconteremo in futuro tutti, se non vogliamo che l’ignoranza e la dittatura prevalgano. Ipse dixit. Amen.

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