domingo, abril 05, 2009


Un’epica dei nostri giorni: Los detectives salvajes di Roberto Bolaño (Barcelona, Anagrama, 1998)


Partiamo dall’epigrafe (che traduco, malamente, dall’originale spagnolo): “- Vuole la salvezza del Messico? Vuole che Cristo sia il nostro Re? – No”. Questo secco e (fuori contesto) misterioso scambio di botta e risposta viene da un’opera di Malcom Lowry. La pigrizia mentale di questi primi giorni primaverili mi ha impedito di andarmi a spulciare la citazione nelle opere principali dell’autore di Under the Volcano; possiamo anche ipotizzare che la citazione provenga proprio dal capolavoro (disperato) di Malcom Lowry (di Sotto il vulcano esiste anche una trasposizione cinematografica – che non ho ancora visto; la regia è di John Huston; ebbene, se Huston fa con il romanzo di Lowry ciò che è riuscito a fare sia con il racconto “The dead” dai Dubliners di James Joyce che con Moby Dick di Melville, allora possiamo sperare bene – e stare tranquilli). Comunque: qui si parla di Messico e di Cristo e di salvezza. E quando il lettore arriva alla pagina conclusiva (dopo una serie numerosissima di ricordi di diverse voci narranti e di racconti intercalati e tra loro variamente intrecciati nell’arco delle 600 pagine del romanzo) capisce subito che quell’epigrafe contiene in nuce parte del contenuto de Los detectives salvajes: il libro, di fatto, parla di Messico e di messicani; di salvezza e del suo opposto, la perdizione; di persone che vanno in cerca di altre persone, ma, soprattutto, di se stesse. Manca Cristo, ma forse il suo spirito “martoriato” e poi “resuscitato” aleggia su molti dei protagonisti del romanzo. Soprattutto intorno ai due protagonisti: Arturo Belano e Ulises Lima.


Chi sono costoro? Una prima risposta (semplice) potrebbe essere questa: Belano e Lima sono amici, due giovani poeti che credono nella rivoluzione e nella capacità della poesia e della letteratura di poter cambiare il mondo; una seconda risposta (più complessa) potrebbe essere quest’altra: sono i fondatori di un movimento letterario che disprezza i “poeti classici messicani” in generale, che odia Octavio Paz in particolare, e che promuove una poesia definita da loro stessi “real visceralista”; una terza (ultima?) risposta (decisamente complessa) potrebbe essere quest’altra ancora: sono due morti viventi che vanno alla ricerca di Cesárea Tinajero, un’altra poetessa messicana, un’altra “morta in vita”, le cui tracce si perdono nella geografia più disastrata ed emarginata del Messico degli anni 50 e la cui unica opera pubblicata (su una rivista che non ha avuto grande fortuna editoriale) sembra essere un disegnino dai significati enigmatici e bizzarri.


Il libro è diviso in 3 parti: la prima (intitolata “Mexicanos perdidos en México (1975)” consiste nelle (o si dice: “delle”?) pagine del diario di Juan García Madero, un altro poeta “real visceralista” che però studia Giurisprudenza e che spera, in futuro, di diventare un bravo avvocato. Questo diario inizia il 2 novembre del 1975 e conclude (o almeno, sembra concludere) il 31 dicembre dello stesso anno. La seconda parte s’intitola come il romanzo stesso, con in più una notazione di tipo cronologico, e cioè: “Los detectives salvajes (1976-1996)”. Questa seconda parte consta di una serie di pseudo-interviste a persone che (nell’arco dei 20 anni citati tra parentesi) hanno conosciuto o avuto contatti con i succitati Arturo Belano e Ulises Lima. Perché pseudo-interviste? Perché chi parla (chi dice “io” prendendo la parola) viene introdotto da un titoletto in grassetto in cui appaiono nome, cognome, luogo in cui si trova il parlante, oltre che mese e anno in cui “rilascia” la sua personale testimonianza intorno ai due principali “real visceralistas”. L’altra domanda da porsi (a questo punto) sarebbe: ma a chi si rivolgono? Con chi parlano? Chi è il vero destinatario empirico delle loro (a volte) lunghe, sconclusionate e affascinanti confessioni personali? (Mi accorgo solo ora che rispondere a questa domanda risolverebbe parte del mistero – e del fascino – che emana questo libro; ora che ci penso, mi da i brividi e mi piace ipotizzare che tutti questi “io” stiano rispondendo alle domande giornalistiche dell’autore stesso, Roberto Bolaño, nelle vesti del cronista che intervista i co-protagonisti del suo romanzo). La terza parte, invece, si intitola “Los desiertos de Sonora (1976)”. In realtà, questa parte consiste di un unico salto all’indietro nel tempo (dal 1996 al 1976), salto grazie al quale viene riannodata la narrazione che Juan García Madero aveva avviato nel suo diario lasciandola interrotta al 31 dicembre del 1975. E’ in questa sezione che il lettore scopre finalmente in che modo i due poeti-detectives riescono a scoprire dove vive Cesárea Tinajero e che cosa si cela dietro il silenzio che ha imprigionato (forse volutamente) la sua opera letteraria (mai resa pubblica). E’ qui che Arturo Belano e Ulises Lima ci vengono presentati come due eroi epici che si scontrano contro il Male. E Male è parola-chiave per capire l’intero romanzo.


Il libro ci parla di giovani idealisti che credono nella forza delle parole e della poesia nel modificare i dati della realtà. Ma ci parla anche della disperazione, della follia, della solitudine che implica un atteggiamento troppo idealista nei confronti del reale. Belano e Lima sono due poeti che rischiano di morire di fame, o di finire in galera, o di venire uccisi da malviventi senza scrupoli, perché credono fermamente nel loro “sogno personale” e non intendono cedere davanti a nessun ostacolo materiale che il mondo esterno voglia loro frapporre (a tratti possono ricordarci l’altra coppia “maledetta” della poesia moderna: Rimbaud e Verlaine). Si nutrono di letteratura, ed è per questo che sopportano di stare a stomaco vuoto. Girano l’Europa (Parigi, Roma, Barcelona, et similia) e l’America Latina (Messico, Argentina, Cile, oltre che parte degli USA) con un unico scopo: portare avanti la loro personalissima “protesta” contro i poeti dell’establishment e recuperare il Verbo di Césarea Tinajera. Entrambi le missioni assumono l’aura della quest epica proprio perché a parlare dei due protagonisti non sono tanto loro stessi, quanto gli altri, quelli che sono stati testimoni delle loro gesta. Ed è per questo che parlo di un’epica moderna il cui orizzonte di senso prende spessore sullo sfondo di certe operazioni metanarrative alla Julio Cortázar e alla Jorge Luis Borges (citati, tra l’altro, da alcuni dei “testimoni”).


Solo che Bolaño non è “autore postmodernista” o non lo è in pieno (sempre che ci s’intenda sul significato da attribuire all’aggettivo “postmodernista”, diventato ormai un vero e proprio concetto-ombrello buono per tutte le stagioni e per etichettare i più svariati esiti letterari o artistici). Bolaño è autore che gioca un gioco serio con la letteratura. Anche quando sembra più ironico, anche quando sembra suggerire che “La vida hay que vivirla” e che “La literatura no vale nada” (p. 301 dell’ed. che maneggio), in realtà ci obbliga a riflettere e a ragionare seriamente sulle relazioni a volte promiscue altre volte più aleatorie (o plastiche) tra vita e letteratura (sembra spingerci a godere di entrambe, insieme).


Un esempio (dai risvolti, questa volta sì, decisamente umoristici): la scena del duello tra il poeta Arturo Belano e il critico letterario Iñaqui Echavarne (pp. 474-483) (il lettore “ducho” sa che dietro le due maschere si nascondono: a) lo stesso autore, Roberto Bolaño (l’assonanza fonetica tra personaggio letterario e autore in carne ed ossa è voluta, ovviamente); b) il critico letterario Ignacio Echevarría (che ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere in Andalucía un paio d’anni fa), critico che oggi è diventato il maggiore esperto nell’opera di Bolaño oltre che legatario degli scritti che l’autore cileno (naturalizzato spagnolo) ha lasciato incompiuti per la morte improvvisa che l’ha colto - a 50 anni - nel 2003).
Ebbene, in questo brano Bolaño riesce davvero a ri-creare l’ambiente, l’atmosfera, il sapore dei duelli tipici dei libri di cavalleria o delle chansons de geste coinvolgendo il lettore in una riflessione di tipo lirico intorno ai confini labili che a volte si stabiliscono tra chi scrive e chi, di mestiere, è tenuto a valutare quanto viene pubblicato. Belano teme Echavarne perché sa che è uno dei critici più “cattivi” del panorama ispanico contemporaneo. Al contempo, lo sfida, anticipando la sua ipotetica decisione di pubblicare una qualsivoglia recensione negativa, perché così spera di dimostrargli che lui non ha paura, che è un poeta in grado di difendersi da solo, capace di scendere in singolar tenzone pur di mantenere intatta davanti al pubblico e alla critica la sua coscienza di autore indipendente e di qualità. Le ragioni dell’autore (che si mette in gioco e rischia a ogni nuovo libro pubblicato) si scontrano (questa volta, anche fisicamente) con le pretese del critico (che si mette in gioco ogni volta che cerca di separare il grano dalla paglia, spiegando ai lettori cosa è degno di essere letto e cosa è solo prodotto commerciale destinato a finire nella sepoltura dell’oblio).


I due si sfidano in un duello con le spade su una spiaggia deserta nei pressi di Barcelona. L’esito è incerto, anche se Arturo Belano sembra avere la meglio. Un mese dopo questa scena (nel luglio del 1994), Ignacio Echavarne viene intervistato e rilascia la sua testimonianza in questi termini (l’uso delle maiuscole per alcuni termini-chiave è ironico – o così mi sembra):


“Fino a un certo punto la Critica accompagna l’Opera, poi la Critica svanisce e sono i Lettori ad accompagnarla. Il viaggio può essere lungo o breve. Poi i Lettori muoiono uno alla volta e l’Opera continua da sola, anche se la Critica e altri Lettori poco a poco iniziano a muoversi allo stessa andatura. Poi la Critica muore un’altra volta e i Lettori muoiono di nuovo e su tale percorso lastricato di ossa l’Opera prosegue il suo viaggio verso la solitudine. Avvicinarsi a essa, navigare sulla sua scia, è segno inequivocabile di morte certa, anche se altra Critica e altri Lettori le si avvicinano instancabili e implacabili e il tempo e la velocità li divorano. Alla fine, l’Opera viaggia irrimediabilmente da sola nell’Immensità. E un bel giorno l’Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estinguerà il Sole e la Terra, il Sistema Solare e la Galassia e la più recondita memoria degli uomini. Tutto ciò che inizia come commedia finisce in tragedia”.


Quest’ultima affermazione è un lemma che potremmo adottare per altri racconti e romanzi di Roberto Bolaño (penso soprattutto all’altra opera labirintica e “totale”, quel 2666 pubblicato postumo e che tanto successo sta riscuotendo negli USA dopo le prime traduzioni in inglese).


Ecco, possiamo dire che Los detectives salvajes è un finto romanzo giallo che inizia come commedia e finisce come tragedia. Un’epica percorsa da personaggi bizzarri e da eroi “maledetti” come Belano e Lima (o come Bolaño e il critico “cattivo” Ignacio Echevarría) in cui il lettore viene coinvolto “visceralmente” nella sua trama frastagliata e, apparentemente, infinita…

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