martes, abril 28, 2009


Dopo Babele, di George Steiner (Milano, Garzanti, 1996), ovvero della “futurabilità” come la condizione sine qua non per un’esistenza sana (non solo linguistica) su questa Terra

 

Perché parliamo? Perché sulla Terra esistono così tante lingue diverse, tali da rendere ogni atto traduttivo una sfida? Come facciamo ad assimilare le regole della grammatica di una lingua quando nasciamo in una famiglia bilingue? Come si salta dalla grammatica dell’una a quella dell’altra? Perché mentiamo? Queste sono solo alcune delle domande che si pone il grande George Steiner nel saggio “cult” After Babel (saggio imprescindibile per chiunque voglia addentrarsi nei meandri e negli enigmi che circondano il fenomeno della traduzione – un’impresa quasi impossibile, eppure quotidiana, senza la quale non potremmo capirci nemmeno tra parlanti della stessa lingua; sì, perché - e questo è un primo asserto teorico da cui parte la riflessione di Steiner - noi traduciamo, in continuazione, i messaggi che ci provengono dall’esterno. Anche guardare un film o contemplare un quadro, o seguire un programma alla tv, implica una sorta di traduzione verbale e non di quanto sentiamo/vediamo/ascoltiamo).

Ebbene, una delle risposte più affascinanti che offre l’autore alle questioni scottanti succitate consiste nel difendere la tesi che “Il linguaggio è lo strumento principale del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo com’è”. In pratica, l’uomo ha usato il linguaggio non solo per comunicare qualcosa di vero (il “mondo così com’è”), ma anche per inventare una realtà diversa da quella oggettiva che gli si presentava (ogni volta) sotto gli occhi. In tal senso, risultano particolarmente chiarificatrici (oltre che brillanti) le pagine che si soffermano sulla cosiddetta “alternità” del linguaggio (pp. 256-286). La lingua serve a mentire, oltre che a comunicare. Ci offre la possibilità di inventare una realtà “alterna” o “altra” da quella che vediamo e sperimentiamo. La lingua ci consente di dire “ciò che non è”. O di sperare “ciò che ancora non è presente” in un piano futuribile (o di “futurità” o “futurabilità”, secondo la terminologia di Steiner). E’ forse qui il nodo della questione: sin dal cristianesimo e dall’ebraismo, si è data un’accezione negativa alla “falsità” e alla “menzogna”. Cosa che non accadeva ai tempi di Omero (Ulisse è elogiato perché “il più furbo” tra i menzogneri) e che, quindi, sembra non tangere la cultura e la filosofia greca. E se il mito della Torre di Babele potesse essere letto al contrario? Se non fosse una storia apocalittica, ma, al contrario, dimostrasse un exemplum positivo? Questa è l’ipotesi di Steiner: ci sono tante lingue, perché il linguaggio è creativo. L’uomo si distingue dagli altri mammiferi perché può usare il linguaggio, ricreare il mondo con le parole, contrapporre alla realtà obiettiva una realtà ipotetica (quella che costruisco grazie agli ottativi, ai tempi condizionali, alle ipotetiche e ai tempi del futuro). Sono nate tante lingue, perché ogni parlante (primitivo) deve aver visto la lingua come rifugio contro gli altri: ogni clan si è inventato un linguaggio diverso per non farsi “scoprire” dal prossimo. Per non condividere con gli altri (estranei) una verità “personale”. Steiner avalla l’ipotesi citando alcune auctoritates antiche e moderne:

 

“Secondo Ernst Bloch, l’essenza dell’uomo sta nel suo “sognare in avanti”, nella sua capacità impellente di analizzare “ciò che è adesso” come “ciò che non è ancora”. La consapevolezza umana riconosce nella realtà esistente un margine costante di incompletezza, di potenzialità sospesa, che sfida la piena realizzazione. La coscienza che l’uomo ha di un ‘divenire’, la sua capacità di immaginare una storia del futuro, lo distingue da tutte le altre specie viventi. Questo istinto utopico è la molla principale della sua politica. La grande arte contiene i lineamenti di un’esistenza non realizzata. E’, secondo la formula di Marleaux, un ‘anti-destino’. Facciamo delle ipotesi e proiettiamo pensiero e fantasia nel ‘regno del se’, nelle libere ipotesi circa l’ignoto. Tale proiezione […] è il nervo principale dell’agire umano. Le proposizioni controfattuali e condizionali, sostiene Bloch, costituiscono una grammatica di rinnovamento costante. Ci costringono a ricominciare da capo al mattino, a lasciarci alle spalle la storia fallita. Altrimenti il nostro atteggiamento sarebbe statico e soffocheremmo in sogni delusi”.

Il linguaggio come “regno del sé”. Mi vengono in mente certi romanzi dello spagnolo Javier Marías (autore assai interessante, soprattutto per ciò che concerne l’uso dei tempi verbali del sé, quali, appunto, i vari tipi di futuro, i congiuntivi, i condizionali e compagnia bella). I tempi verbali del regno del sé come gli unici strumenti che abbiamo a disposizione per ri-creare o creare ex-novo una realtà che non capiamo, che non riusciamo (sempre) a comprendere, che speriamo sopraggiunga o che speriamo sparisca il prima possibile. Il linguaggio ipotetico come mezzo per lasciarsi alle spalle una storia fallita (o finita male). Mi tornano in mente le immagini del terremoto dell’Aquila e quanto andavo scrivendo nel post di qualche settimana fa (intorno alla ginnastica mentale dell’immaginarsi come saremo tra cento, mille, milioni di anni…). Poi leggo la nota n. 171 (p. 273), dove Steiner riporta uno stralcio da un articolo di Karl Popper in cui il filosofo tedesco riflette sulla nascita stessa del linguaggio umano. Cito verbatim:

 

[…] ritengo che il momento in cui il linguaggio divenne umano sia collegato assai strettamente al momento in cui un uomo inventò una storia, un mito per scusare un errore da lui compiuto, forse dando un segnale di pericolo quando non ce n’era motivo; e ritengo che l’evoluzione di un linguaggio specificamente umano, con i suoi caratteristici mezzi di esprimere la negazione – cioè dire che qualcosa che è stato segnalato non è vero – derivi in misura assai larga dalla scoperta di mezzi sistematici per negare una falsa notizia, ad esempio un falso allarme, e dalla scoperta strettamente collegata di storie false – menzogne – usate o come scuse o come scherzi.

 

Chissà come si sarà sentito, dopo quella prima menzogna, quel primo inventore di storie, quel nostro lontanissimo parente… E come avranno reagito i suoi primi ascoltatori, i primi spettatori gabbati da un messaggio falso (o falsato ad hoc), i primi potenziali lettori della prima storia mai raccontata sulla Terra, se avranno reagito male, magari prendendo a calci l’autore del messaggio depistante, o se, al contrario, dopo aver capito il gioco, si saranno fatti un sacco di risate, consci del pericolo scampato, del mammut schivato, del dinosauro evitato per un pelo, del rinvio dell’ennesimo e probabile incontro con la Morte…

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