domingo, enero 02, 2011

Il punctum nei film

Come ogni fine d'anno, anche questo Dicembre 2010 mi sono rintanato in casa per fare scorpacciata di film di qualità (o che il mio fiuto riteneva tali) e, devo dire, non mi è andata male, anzi, mi è andata di lusso, come suolsi dire.

Ho visto, nell'ordine, i seguenti "capolavori":

a) A single man, di Tom Ford (USA, 2009);
b) Jarhead, di Sam Mendes (USA, 2005);
c) Il marchese del Grillo, di Mario Monicelli (Italia, 1981).

Mi hanno appassionato tutti e tre e tutti e tre in modi diversi; sono film che raccontano storie distanti anni luce l'una dall'altra; eppure... guardandoli attentamente mi sono accorto che tutti e tre ce l'hanno qualcosa in comune, ed è qualcosa che, forse, accomuna tutti i grandi film, e cioè (vediamo se riesco a spiegarmi), il fatto che tutti i grandi film presentano, a un certo punto, una scena "memorabile" o che si fissa in maniera indelebile nella mente dello spettatore come a sintetizzare l'intero contenuto del film. Una scena, ma in realtà può trattarsi anche solo di una singola inquadratura: ed eccole, le scene o inquadrature che, a un certo punto della trama, interrompono il flusso temporale della stessa e spingono lo spettatore a riflettere su quello che Roland Barthes chiamò (per applicarlo alla fotografia) il punctum (riprendendo dal latino il termine), ovvero: il "punto focale", l'elemento visivo che attrae l'occhio dello spettatore (in questo caso, dello spettatore di film, e non solo di quello di fotografie) e lo spinge irresistibilmente a concentrarsi su quel "particolare" significativo che da un senso al tutto (gli esempi di punctum che fa Barthes si possono leggere nel suo studio ormai classico: La chambre claire).


A single man (interpretato dal bravissimo Colin Firth) narra la storia di un professore di Lettere che deve far fronte al lutto della scomparsa del suo compagno di una vita (15, per l'esattezza, gli anni della loro felice relazione). Il film è davvero bello e disperato; anzi, bello perché assolutamente disperato (voglio dire: il regista riesce a trasmettere a ogni singola inquadratura quel senso di angoscia, di smarrimento, di apatia che colpisce chi ha perso una persona cara e desidererebbe raggiungerlo sparandosi un colpo di pistola in fronte). Il punctum, o scena "focale", o scena "clou" che spezza la narrazione e ferma la storia, si ha quando il professore raggiunge a casa sua un'antica amante (Julian Moore, anche lei angosciata, per il divorzio dal marito) e i due si mettono a ballare sulle note della canzone "Green Onions" dei Booker T & MG's... E' un momento di apparente allegria; festosità; ironia; è tutto sospeso, e per un attimo, né il professore né la sua amica divorziata pensano più alle loro angosce personali; ballano e la telecamera sta loro addosso come ad avvolgerli; è un momento, appunto; dura poco, poi cadono a terra entrambi esausti dal ritmo forsennato del ballo e ricominciano a parlare del dolore e del lutto, della morte e di come finì (male) la loro relazione, quando lui, evidentemente, non era ancora così omosessuale da non disdegnare le attenzioni dell'amica; non svelo cosa si dicono subito dopo questo balletto in camera; ma è chiaro che quel balletto incarna proprio "il momento prima della tempesta".

Jarhead è uno dei film di guerra più belli e riusciti che abbia visto negli ultimi anni; Sam Mendes (quello di American Beauty e di Revolutionary Road) cita il Kubrick di Full Metal Jacket e il Coppola di Apocalypse Now per parlarci della Guerra del Golfo e della famosa operazione "Desert Storm", riprendendo "in diretta" e "da vicino" le violenze psicologiche, i disagi, la rabbia dei marines chiamati all'uopo per servire l'Esercito e la loro Nazione. Qui, a mio giudizio, il punctum arriva in uno dei momenti più drammatici dell'intero film, quando i soldati si vedono piovere letteralmente sulla faccia e sulle uniformi una lenta pioggerella del petrolio dei pozzi bruciati dagli iracheni. In mezzo a questo caos fatto di fuoco, fiamme, lapilli e cielo oscurato dal petrolio, il protagonista, Anthony Swofford, s'imbatte improvvisamente in un cavallo, privo del padrone e in preda alla paura. E' un cavallo arabo, bellissimo, e ricoperto anche lui del liquido nero. Il marine si ferma (ma ripeto, in questo caso, nei casi delle scene "clou" ricche di "senso", è l'intero film a fermarsi) per carezzarlo e rasserenarlo, per dirgli che presto tutto finirà, che andrà tutto bene... Un'apparizione quasi fantasmagorica, una specie di "illusione ottica" in pieno deserto in cui l'animale smarrito serve all'essere umano per tranquillizzare se stesso e pensare che quell'Apocalisse, prima o poi, finirà... E il cielo tornerà a schiarirsi... Davvero una scena bellissima, e commovente.


Il marchese del Grillo è uno dei pochi film di Monicelli che - mea culpa - non avevo ancora visto. E qui c'è tutta la poetica del grande regista recentemente scomparso in quel modo assurdo, e brutto, e triste, che sappiamo... Il marchese del Grillo del titolo non è altri che un nobile romano squattrinato che, per vincere la noia, si da alla pazza gioia; passa il tempo a tramare scherzi di pessimo gusto; a mescolarsi tra la plebe, travestendosi da ubriacone che frequenta le peggiori bettole di Roma capoccia; a fare l'amore con la serva o la governante di turno; a far vivere a un vero ubriacone (suo sosia) una vita che questi potrà solo sognare. Alberto Sordi è da Oscar; la regia è impeccabile; l'ironia amara è ai massimi livelli. Il punctum che ti fa fermare a guardare attentamente il film (la scena che ferma il film per lasciarsi guardare essa stessa e a lungo) la troviamo nel momento in cui il marchese viene incarcerato e poi, subito dopo, scarcerato dalle guardie che, appunto, lo scambiano per uno qualunque, un morto di fame qualunque dei tanti che passano il tempo a giocare a carte e ad ubriacarsi nelle più malfamate trattorie romane. Il capitano che lo scagiona - perché lo ha riconosciuto - redarguisce severamente una delle guardie; e il marchese, rivolgendosi agli altri astanti, ai poveracci, alla gente di borgata, si ferma e prima di salire in carrozza dice: "Perché io so io e voi nun siete un cazzo" (citato a memoria, ma la sostanza è questa). E' una frase che spiega tutto il film; ma ciò che è più interessante notare (ciò che spinge lo spettatore a fermarsi a riflettere e a bloccare per un minuto il normale scorrere delle inquadrature) è la faccia e il tono con cui Alberto Sordi la pronuncia: strafottente, ma anche serio; ironico, ma anche amaro. Sembra quasi suggerire che lui non è poi così convinto d'essere migliore di loro; sembra quasi (e dico: quasi) che gli dispiaccia "non essere un cazzo" come loro.


E le riflessioni da farsi sarebbero troppo lunghe per non annoiare ancora di più il paziente (improbabile) lettore di questo post (ma sul tema del punctum al cinema ci tornerò; e poi in fondo il cinema non è altro che "fotografie" in movimento; deve avercelo pure lui, sto "punto" che colpisce, e frena, e rallenta o sgancia la scena dal resto per spiccare e brillare di luce propria, proprio come accade con l'arte della fotografia)...

2 comentarios:

  1. Paziente sì ma improbabile no;-)

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  2. Ah ah!!! Guarda, Silvia, che tu sei una delle tre o quattro "privilegiate" o "happy few" che dir si voglia (a quanto ne so io); un abrazo fuerte y hasta pronto (su questi schermi).

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