domingo, febrero 05, 2012


Pulp Fiction e la questione della “durée” (in senso bergsoniano, forse)




Pulp Fiction è un film che dura 2 ore e 45 minuti circa, ma che scorre liscio come un video musicale di pochi minuti. Da dove deriva questa “percezione” accelerata di un film obiettivamente “lungo”? La domanda ce la possiamo porre alla settima o ottava visione del capolavoro di Quentin Tarantino (io l’altro giorno l’ho visto per la dodicesima volta). Le risposte possono essere varie. Proviamo a stenderne un po’:

a)    I dialoghi. Assurdi, esilaranti, ironici, comici, surreali. In Pulp Fiction si parla molto e i personaggi chiacchierano di tutto: dai massaggi ai piedi alle differenze culturali tra Europa e USA in campo culinario; dalle droghe pesanti alla Bibbia (Ezechiele 25,17 – “E tu saprai che il mio nome è quello del Signore, quando farò calare la vendetta sopra di te”); dal sesso estremo alle frittelle con la marmellata di mirtilli; dal cunnilingus ai piercing, ogni dialogo tra due o più personaggi è l’occasione che il regista sfrutta per coinvolgere lo spettatore in una specie di conversazione ininterrotta e sviluppata come davanti al bancone di un bar (o all’interno di un pub o sul divano di casa). Questo tipo di conversazione coinvolge e, ovviamente, non annoia mai. E anche se i personaggi sono tutti – chi più e chi meno – delle figure “bordeline”, noi spettatori “normali” veniamo letteralmente catturati dalle loro chiacchiere scattanti, strambe e piene di humor.




b)   Il piano-sequenza (l’uso del). Tarantino ha imparato il linguaggio cinematografico non sui manuali, ma sul campo, ovvero, guardando e riguardando migliaia e migliaia di film (lavorava come dipendente in un negozio di video-noleggio). Una delle tecniche che ha imparato meglio è quella del “piano-sequenza”, cioè, quando il regista inquadra una scena senza “stacchi”, ovvero, dando l’illusione di continuare una scena senza fare ricorso al montaggio, mettendo davanti alla m.d.p. (macchina da presa) gli attori che parlano e si muovono, agiscono e camminano come se la stessa m.d.p. non ci fosse (in realtà – Orson Welles docet – è essa stessa che tenta di nascondersi agli occhi dello spettatore). Potremmo fare moltissimi esempi di “piano-sequenza” (il mio preferito resta quello iniziale in cui si vedono Samuel L. Jackson e John Travolta che si recano dal gruppetto di giovani che ha raggirato il loro capo e aspettano un po’ prima di irrompere nell’appartamento: la m.d.p. li segue, non appena escono dall’ascensore e mentre camminano, fino a fermarsi davanti alla porta e poi spostarsi sul fondo del corridoio; dopo l’ennesimo scambio di battute con l’amico, Samuel L. Jackson esclama: “Ok, è ora, caliamoci nel ruolo”, e la cinepresa smette di seguirli). Ecco, l’uso sapiente del “piano-sequenza” rende l’azione “presente” agli occhi dello spettatore, che ha l’illusione di stare dentro gli spazi occupati dagli attori (su questo aspetto inviterei tutti a leggere le pagine che André Bazin dedica a Billy Wilder in Che cos’è il cinema, illuminanti davvero). E’ questo effetto “testimoniale” a rendere il film più scorrevole e veloce, sebbene duri quasi 3 ore. Ci siamo dentro. E non importa quanto tempo impieghino i personaggi per portare a termine le loro imprese. Potremmo restare lì con loro per ore e ore (o giorni e giorni). E non annoiarci mai.




c)    La musica. Quentin Tarantino deve aver ascoltato anche molta musica, quando noleggiava videocassette. E’ bravissimo a scegliere i pezzi più azzeccati per ogni scena del film. E quando una colonna sonora varia e si armonizza in modo perfetto con le immagini, beh, allora diventa davvero difficile annoiarsi o “patire” la durata del film. Oltre che regista, dunque, Tarantino sa fare bene anche il deejay. Mette la canzone giusta al momento giusto; anche in questo caso, potrebbe continuare all’infinito, noi spettatori saremmo lieti di seguirlo in ogni sua variazione musicale (che delusione la colonna sonora di Inglorious Basterds! Al confronto perfino quella di Jackie Browne è un gioiello…).


d)    La suspense. Citiamo una delle tante inquadrature “cult” di Pulp Fiction (di quelle che poi gli altri hanno copiato, parodiato, etc.): i due killers, Jackson e Travolta, aprono il bagagliaio della macchina per prendere le loro pistole (“Avremmo bisogno di fucili per simili lavori, cazzo”). E poi richiudono, immergendo lo spettatore nel buio del bagagliaio. In realtà, questa è la tipica inquadratura che il regista sfrutta per creare suspense nello spettatore (e ora che ci penso: non è che questa inquadratura sia poi così originale, se la sono inventata i grandi registi americani dei noir degli anni 40-50-60 – solo che poi Tarantino è stato abilissimo a rivitalizzarla): a partire da questo momento non potremo non chiederci su chi, come e quando questi due brutti ceffi useranno le loro pistole per uccidere a bruciapelo. Tarantino sa usare come pochi la tecnica della suspense (da antologia la scena della siringa di adrenalina nello sterno di Uma Thurman). E l’adotta dall’inizio alla fine del film, per cui, a ogni inquadratura, ad ogni scena, lo spettatore è ormai coinvolto emotivamente e convinto che…qualcosa di tremendo sta per succedere (o dovrà succedere). Morti ammazzati, stupri, incidenti autostradali, litigate o discussioni acide, incontri improvvisi: noi spettatori siamo proiettati “dentro” un costante stato d’animo di paura e di tensione. E anche questo rende il film “veloce” o “scorrevole”. Anche se dura quasi 3 ore. Non hai tempo per rilassarti o distrarti. Ogni minuto è buono perché qualcuno ammazzi qualcun altro. O lo offenda a morte. O lo stupri. O lo minacci con una pistola in mano. E tu soffri per la potenziale vittima. Perché ormai sei anche tu vittima dello stile di quel pazzo di Tarantino…


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