Racconti che fanno piangere: il caso di
“Profezia”, di Sandro Veronesi
Tempo fa consideravo Sandro Veronesi uno
degli scrittori più eleganti della letteratura italiana contemporanea; avevo
letto e studiato tutti i suoi libri, e avevo perfino raccolto materiale per
scrivere un articolo su “La figura del padre nell’opera di Sandro Veronesi”.
L’intenzione era vedere come evolve, nel tempo, il personaggio del padre dal
primo romanzo, quello d’esordio, ovvero: Per
dove parte questo treno allegro (1988), fino ad arrivare a Caos calmo (2005), l’ultimo pubblicato
al momento in cui avevo intenzione di buttare giù qualcosa in più che appunti o
riflessioni sparse.
Si trattava di mostrare come il
personaggio del padre fosse centrale, all’interno dell’universo romanzesco (e
della poetica) dell’autore. Si partiva, appunto, dal padre bello, edonista ed
immaturo di Per dove parte questo treno
allegro (in cui il figlio si prende la briga di aiutare il padre
attraversando l’Italia da Sud a Nord, prima d’arrivare in Svizzera e approdare
alla scena finale anti-climax) fino a quello di Caos calmo (interpretato, al cinema, da Nanni Moretti nel film
fedele ma non bello di Antonello Grimaldi), padre che, in termini freudiani, non
riuscendo a portare a termine la cosiddetta “elaborazione del lutto” dopo la
morte improvvisa della moglie, riversa tutta la sua ansia e la sua tendenza
protettiva nella figlia di dieci anni, passando per il padre dal passato ignoto e
incredibile de La forza del passato
(2000), forse la miglior prova narrativa di Veronesi, in cui si racconta di
come un modesto scrittore per bambini scopre che suo padre, in passato,
apparteneva alla sinistra più radicale e lavorava in incognito per il KGB russo
(sebbene, in vita, si fregiasse d’essere iscritto alla vecchia DC andreottiana).
Poi è passato il tempo, e mi sono
disinnamorato, ho iniziato ad intravedere alcuni limiti nella scrittura di
Veronesi, o comunque, ho cominciato a guardarlo con occhio meno benevolo, sebbene abbia continuato a leggere in ordine sparso quanto pubblicava: dall’inchiesta molto
interessante sulla pena di morte nel mondo, Occhio
per occhio (del 1992), passando per la trasposizione teatrale del film
omonimo No man’s land (del 2003),
finendo con la spassosissima raccolta di cronache italiche Superalbo (del 2002).
In questi giorni mi è capitato tra le mani
l’ultimo suo libro, la raccolta di racconti Baci
scagliati altrove (Roma, Fandango, 2011): qualcuno di questi racconti
l’avevo già letto in passato (notevoli mi sono sempre parsi “Il ventre della
macchina” e “La scarpa”); alla fine, ho deciso di lasciare per ultimo quello
che appare come il primo racconto della serie, “Profezia”, ed è stata una
folgorazione, questo racconto mi ha lasciato a bocca aperta, e mi ha fatto
piangere, cosa che non mi capitava da anni, ormai…
“Profezia” è un racconto narrato in prima
persona; la novità è che a parlare è Dio, ovvero, un Essere Supremo e
Onnisciente. Dio sa chi siamo; sa come ci comporteremo in futuro; sa cosa
abbiamo combinato nel nostro passato. Conosce perfettamente e nel dettaglio
ogni minuto, ogni secondo della nostra vita presente. Inutile nascondersi, o
fingere, davanti a Dio. Sandro Veronesi si mette nei panni di Dio e comincia a
profetizzare ciò che farà lui stesso quando scoprirà che suo padre (di nuovo,
la figura centrale del padre) si ammalerà ed inizierà a subire lo stesso
calvario della madre (morta di tumore pochi mesi prima).
“Io so chi sei, Alessandro Veronesi, conosco l’animo tuo […]”, inizia con queste
parole terribili, inequivocabili, implacabili, il racconto di Veronesi… Dio può
profetizzare il futuro, può predirci le nostre azioni future (remote o prossime
che esse siano), perché conosce chi siamo ancora prima che venissimo al mondo.
Ed è tutta in questa prospettiva temporale “straniante” (del futuro che in
realtà – e sul piano autobiografico – è già passato) che si basa la forza di
questo racconto che cattura, affascina e turba.
Veronesi ci parla dei fatti suoi, di fatti
privati, è vero, però riesce a trasfigurarli in narrazione valida per tutti,
perché la Morte è un dilemma, un mistero e un problema che riguarda tutti noi;
ed è davvero difficile non leggere tutto d’un fiato questa iniqua lotta tra un
mortale (figlio) e un morente (padre), tra chi cerca d’infondere coraggio e buon senso e chi, invece, sembra non volere altro che spegnersi per sempre, una volta per
tutte, e mandare tutto alla malora.
Non solo: Veronesi ci fa capire anche quanto
sia limitata la medicina, di fronte alla Morte, quanto possano risultare
inutili certi palliativi, e vani i gesti di certi medici. E’ in casa nostra che
vorremmo morire, non in una corsia d’ospedale, in un letto anonimo su cui sono
morti già altri pazienti a noi totalmente sconosciuti. E non ci sono livelli A
e livelli B nella cosiddetta “terapia del dolore”. Il dolore non lo si può
curare, quando si arriva alla fase terminale. E ognuno è solo, di fronte a quel
mistero.
Omaggio al padre, racconto autobiografico
iperrealista, riflessione amara e, a tratti, anche ironica sulle nostre paure
ancestrali, sull’impossibilità di fermare il tempo, sulla necessità di avere
accanto le persone care, quando arriverà il momento di andarcene per sempre.
Io ho pianto. E non so se mi ricapiterà
così facilmente, leggendo un racconto di una ventina di pagine (lette tutte
d’un fiato, come se anch’io dovessi salvare qualcuno dalla Morte)…
P.S.: sul sito della Rai http://www.letteratura.rai.it è possibile trovare il video della lettura dell'autore; ma non fa lo stesso effetto, o almeno, non mi ha coinvolto tanto quanto la lettura individuale e in silenzio.
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