L’amore molesto, di Elena Ferrante: l’amore è (sempre)
molesto, quando non si fanno i conti col passato
Ma che bel romanzo, questo
romanzo! Ma che libro coinvolgente, che scrittura cristallina si respira ne L’amore molesto della misteriosa (perché
forse pseudonimo dietro cui si celerebbe un autore maschile e perché di “lei”
non si hanno foto) Elena Ferrante, esordiente dalle doti già ben evidenti sin
da questa prima prova letteraria (Roma, e/o, 1996 – ma la prima ed. risale
addirittura al 1992).
L’amore
molesto ci parla di un tema antico come il mondo (greco-romano, da
cui deriviamo): il contrasto, la lotta sotterranea e a volte esplicita, la
competizione subdola e a volte implicita, le molteplici e assurde
incomprensioni, la guerra giornaliera tra una madre (Amalia) e una figlia
(Delia). L’una (Delia) viene a sapere della morte dell’altra (Amalia): Amalia è
affogata mentre faceva un bagno nuda (o semi-nuda – è stata ritrovata con
addosso soltanto il reggiseno), di notte, in un tratto di mare poco lontano da
Minturno, in un luogo che si chiama poeticamente “Spaccavento”. Delia decide di
tornare a Napoli, di abbandonare temporaneamente Roma, per andare a parlare coi
pochi parenti che le sono rimasti (lo zio Filippo, la vicina di casa e amica
della madre la signora De Riso, un vecchio amante e forse complice di Amalia
che risponde al nome di Caserta) e toccare con mano quel passato che, invano,
ha tentato di reprimere o di ignorare fino a quel momento della sua vita di
adulta.
Delia torna a Napoli per fare i
conti con il passato che ritorna e con quello strano sentimento d’amore e odio
che l’ha (da sempre) legata ad Amalia. E il lettore ne segue i ragionamenti
oscillanti, le passeggiate inquisitive, gli incubi ricorrenti con empatia e
interesse… L’amore molesto potrebbe
essere scambiato anche per un romanzo giallo, di fatto, qui sì che c’è (o ci
potrebbe essere?) un colpevole (o un assassino?) e un testimone che sa e che
potrebbe fare luce su quell’incidente (o morte) per acqua…
Due sono le cose che colpiscono
di più: a) la descrizione di Napoli, città magica e spettrale, una specie di
Macondo pericolosa e piena di minacce, trasfigurata e disegnata come se fosse
un acquarello sbiadito di tanti anni fa, o inquadrata come se si trattasse del
set di un film iperrealistico (e non è un caso che uno come Mario Martone
decise a suo tempo di trarne l’omonimo film con una splendida Licia Maglietta
nel ruolo di Amalia da giovane e una bravissima Anna Bonaiuto in quello della protagonista – il film è del 1995, se non erro, ed io lo vidi
quando ancora esisteva “Tele+”); b) lo stile peculiare, sinuoso, fascinoso, a
tratti surrealista, che adotta l’autrice (diamo per buono che sia una donna –
sul mistero legato ad Elena Ferrante cfr. anche Domenico Starnone, Autobiografia erotica di Aristide Gambìa,
Torino, Einaudi, 2011 – di cui ho parlato in queste stesse pagine di diario di
bordo).
Mi soffermo sul punto b) perché
su Napoli sarebbero davvero tante, troppe, le cose da dire. Lo stile della
Ferrante, dunque… Uno stile che è fatto di precisione millimetrica nel
rappresentare gli oggetti della realtà quotidiana e di andamento lirico, quasi
“proustiano”, nella rievocazione di quella realtà… Come quando Delia entra in
casa della madre e pensa che il fantasma della stessa aleggi ancora nell’aria,
tra le mura e le lenzuola delle stanze che sanno di chiuso… E si accorge che
cola acqua dal rubinetto, una goccia (lenta) dopo l’altra… E si ricorda di
quanto Amalia ci tenesse a risparmiare su tutto, sul pane (che non si butta
mai) e sull’acqua (che non si può sprecare):
“Usava l’acqua con una parsimonia che si era
trasformata in riflesso del gesto, dell’orecchio, della voce. Se da ragazza
lasciavo anche solo un silenzioso filo d’acqua, teso verso il fondo del
lavandino come un ferro da calza, un attimo dopo mi gridava senza rimprovero:
“Dalia, il rubinetto”. Mi sentii inquieta: aveva sprecato più acqua con quella
distrazione delle ultime ore di vita, che in tutta la sua esistenza” (id., p.
28).
E già qui uno si alza in piedi
e farebbe un applauso all’autrice. Ma il periodo continua con la frase seguente:
“La vidi galleggiare a faccia
in giù, sospesa al centro della cucina, sullo sfondo delle maioliche azzurre”.
E qui uno si risiede, mezzo
tramortito, e pensa che la Ferrante si meriterà tutta la nostra attenzione fino
al finale (si spera) risolutore…
Il romanzo è attraversato in
lungo e in largo (dalla prima all’ultimissima riga) da una costante
oscillazione armonica tra passato e presente; potrei citare le mille immagini
che evocano nel pensiero di Delia i tessuti che Amalia confezionava per i vestiti
di clienti più o meno facoltosi e più o meno attratti sessualmente da lei…
Il romanzo è “proustiano”
proprio perché s’impegna (e s’ingegna) a riflettere su questo enigma insolubile
che è il tempo (insolubile perché – finché siamo in vita – ci siamo immersi –
come Amalia nell’acqua di Spaccavento).
Il romanzo fa riflettere sul
tempo perché ci colpisce con frasi come queste:
“Quante cose attraversano il
tempo staccandosi fortunosamente dai corpi e dalle voci delle persone” (id., p.
93)
“L’infanzia è una fabbrica di
menzogne che durano all’imperfetto” (p. 165)
“Dire è incatenare tempi e
spazi perduti” (p. 169).
E a uno non può non venire in
mente Marcel Proust, che col suo “dire” non solo riesce a incatenare tempi e
spazi perduti, ma anche a resuscitare il tempo (passato) che fu, con la memoria
involontaria (anche se l’oblio ha una funzione altrettanto importante, rispetto
al “ricordare”).
E uno allora capisce anche
questo: che Elena Ferrante ci insegna che l’amore è (sarà sempre) molesto, fino
a quando non si fanno i conti con il passato, fino a quando non ci si
riappacifica con quello che siamo stati e con quello che abbiamo fatto…
No hay comentarios:
Publicar un comentario