miércoles, octubre 03, 2012


L’amore molesto, di Elena Ferrante: l’amore è (sempre) molesto, quando non si fanno i conti col passato



Ma che bel romanzo, questo romanzo! Ma che libro coinvolgente, che scrittura cristallina si respira ne L’amore molesto della misteriosa (perché forse pseudonimo dietro cui si celerebbe un autore maschile e perché di “lei” non si hanno foto) Elena Ferrante, esordiente dalle doti già ben evidenti sin da questa prima prova letteraria (Roma, e/o, 1996 – ma la prima ed. risale addirittura al 1992).
L’amore molesto ci parla di un tema antico come il mondo (greco-romano, da cui deriviamo): il contrasto, la lotta sotterranea e a volte esplicita, la competizione subdola e a volte implicita, le molteplici e assurde incomprensioni, la guerra giornaliera tra una madre (Amalia) e una figlia (Delia). L’una (Delia) viene a sapere della morte dell’altra (Amalia): Amalia è affogata mentre faceva un bagno nuda (o semi-nuda – è stata ritrovata con addosso soltanto il reggiseno), di notte, in un tratto di mare poco lontano da Minturno, in un luogo che si chiama poeticamente “Spaccavento”. Delia decide di tornare a Napoli, di abbandonare temporaneamente Roma, per andare a parlare coi pochi parenti che le sono rimasti (lo zio Filippo, la vicina di casa e amica della madre la signora De Riso, un vecchio amante e forse complice di Amalia che risponde al nome di Caserta) e toccare con mano quel passato che, invano, ha tentato di reprimere o di ignorare fino a quel momento della sua vita di adulta.

Delia torna a Napoli per fare i conti con il passato che ritorna e con quello strano sentimento d’amore e odio che l’ha (da sempre) legata ad Amalia. E il lettore ne segue i ragionamenti oscillanti, le passeggiate inquisitive, gli incubi ricorrenti con empatia e interesse… L’amore molesto potrebbe essere scambiato anche per un romanzo giallo, di fatto, qui sì che c’è (o ci potrebbe essere?) un colpevole (o un assassino?) e un testimone che sa e che potrebbe fare luce su quell’incidente (o morte) per acqua…

Due sono le cose che colpiscono di più: a) la descrizione di Napoli, città magica e spettrale, una specie di Macondo pericolosa e piena di minacce, trasfigurata e disegnata come se fosse un acquarello sbiadito di tanti anni fa, o inquadrata come se si trattasse del set di un film iperrealistico (e non è un caso che uno come Mario Martone decise a suo tempo di trarne l’omonimo film con una splendida Licia Maglietta nel ruolo di Amalia da giovane e una bravissima Anna Bonaiuto in quello della protagonista – il film è del 1995, se non erro, ed io lo vidi quando ancora esisteva “Tele+”); b) lo stile peculiare, sinuoso, fascinoso, a tratti surrealista, che adotta l’autrice (diamo per buono che sia una donna – sul mistero legato ad Elena Ferrante cfr. anche Domenico Starnone, Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, Torino, Einaudi, 2011 – di cui ho parlato in queste stesse pagine di diario di bordo).

Mi soffermo sul punto b) perché su Napoli sarebbero davvero tante, troppe, le cose da dire. Lo stile della Ferrante, dunque… Uno stile che è fatto di precisione millimetrica nel rappresentare gli oggetti della realtà quotidiana e di andamento lirico, quasi “proustiano”, nella rievocazione di quella realtà… Come quando Delia entra in casa della madre e pensa che il fantasma della stessa aleggi ancora nell’aria, tra le mura e le lenzuola delle stanze che sanno di chiuso… E si accorge che cola acqua dal rubinetto, una goccia (lenta) dopo l’altra… E si ricorda di quanto Amalia ci tenesse a risparmiare su tutto, sul pane (che non si butta mai) e sull’acqua (che non si può sprecare):

 “Usava l’acqua con una parsimonia che si era trasformata in riflesso del gesto, dell’orecchio, della voce. Se da ragazza lasciavo anche solo un silenzioso filo d’acqua, teso verso il fondo del lavandino come un ferro da calza, un attimo dopo mi gridava senza rimprovero: “Dalia, il rubinetto”. Mi sentii inquieta: aveva sprecato più acqua con quella distrazione delle ultime ore di vita, che in tutta la sua esistenza” (id., p. 28).

E già qui uno si alza in piedi e farebbe un applauso all’autrice. Ma il periodo continua con la frase seguente:

“La vidi galleggiare a faccia in giù, sospesa al centro della cucina, sullo sfondo delle maioliche azzurre”.

E qui uno si risiede, mezzo tramortito, e pensa che la Ferrante si meriterà tutta la nostra attenzione fino al finale (si spera) risolutore…

Il romanzo è attraversato in lungo e in largo (dalla prima all’ultimissima riga) da una costante oscillazione armonica tra passato e presente; potrei citare le mille immagini che evocano nel pensiero di Delia i tessuti che Amalia confezionava per i vestiti di clienti più o meno facoltosi e più o meno attratti sessualmente da lei…

Il romanzo è “proustiano” proprio perché s’impegna (e s’ingegna) a riflettere su questo enigma insolubile che è il tempo (insolubile perché – finché siamo in vita – ci siamo immersi – come Amalia nell’acqua di Spaccavento).

Il romanzo fa riflettere sul tempo perché ci colpisce con frasi come queste:

“Quante cose attraversano il tempo staccandosi fortunosamente dai corpi e dalle voci delle persone” (id., p. 93)

“L’infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all’imperfetto” (p. 165)

“Dire è incatenare tempi e spazi perduti” (p. 169).

E a uno non può non venire in mente Marcel Proust, che col suo “dire” non solo riesce a incatenare tempi e spazi perduti, ma anche a resuscitare il tempo (passato) che fu, con la memoria involontaria (anche se l’oblio ha una funzione altrettanto importante, rispetto al “ricordare”).

E uno allora capisce anche questo: che Elena Ferrante ci insegna che l’amore è (sarà sempre) molesto, fino a quando non si fanno i conti con il passato, fino a quando non ci si riappacifica con quello che siamo stati e con quello che abbiamo fatto…

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