STORIA
DI NESSUNO, OVVERO: PERCHE’ DYLAN DOG E’ UN CLASSICO
Un vecchio con la barba incolta e i capelli
arruffati, vestito di stracci, e intirizzito dal freddo, cammina lentamente
sotto una placida nevicata. Arrivato di fronte a un cancello, lo apre: è
l’ingresso di un cimitero. Il vecchio, per tentare di scaldarsi, si inoltra
lungo il sentiero che lo porta a una cappella. Si siede per terra, davanti ad
una cassa da morto. E qui succede l’imprevisto, nella realtà del vecchio
subentra ciò che Freud definirebbe come “il perturbante”: il coperchio della
bara si solleva lentamente, è Nessuno (il protagonista della storia) a tornare
in vita dal mondo dei morti e che, con il suo ritorno, provoca l’infarto del
vecchio barbone.
E’ così che si apre uno degli albi “storici” (e
“mitici”) di Dylan Dog, il n. 43, ovvero “Storia di Nessuno” (con la
maiuscola), perché Nessuno è tutti noi e tutti noi possiamo riconoscerci (o
rispecchiarci) nelle ansie, nelle paure, nei dubbi e nelle speranze di
quest’uomo qualunque talmente “qualunque” da avere il nome che Ulisse adottò
per sventare alle grinfie di Polifemo, Nessuno, appunto (e già qui c’è un
tacito rimando al Pirandello di Uno,
nessuno e centomila). Ecco, questo è uno dei motivi per cui sono ancora
affascinato da Dylan Dog, un fumetto
citazionista (come pochi altri in Italia) le cui storie vanno avanti a forza di
citazioni (ed è per lo stesso motivo che Umberto Eco, in una storica – e
anch’essa “mitica” – intervista con il creatore dell’ “indagatore dell’incubo”,
Tiziano Sclavi, lo definì come “opera smontabile”, proprio perché costruita su
più livelli di lettura e perché “aperta”
alle più disparate contaminazioni – in gergo tecnico, per Dylan Dog si può certamente parlare di “intertestualità” di stampo
“postmodernista”).
Ma torniamo al nostro amico Nessuno. Non ricorda
da dove viene e non sa dove deve andare. Fino a quando non ripete (come in un
mantra) una specie di filastrocca: “Sono nato, mi sono laureato, ho trovato un
lavoro, mi sono sposato, sono morto, e poi?” (da notare bene: la filastrocca
verrà ripetuta anche alla fine, ma con i verbi al futuro: “Nascerò, mi
laureerò, troverò un lavoro, mi sposerò, morirò, e poi?” – cito non verbatim, ma la sostanza è questa).
E ripetendosi queste frasi si trova a bussare al portone di quella che era la
sua casa: la moglie, spaventatissima, ci resta malissimo, non sa che farsene di
un marito redivivo, anche perché, la brava donna non ha perso tempo (e si è
rifatta una vita con il suo amante “storico”, oltre che miglior amico del
defunto).
Cosa fare se tornassero dall’al di là i nostri
cari? Dove potremmo sistemarli? Come influenzerebbero la nostra vita
quotidiana? Sono queste le domande che suscitano le vignette in cui vediamo la
moglie di Nessuno alle prese con chi è davvero (ontologicamente) “nessuno”
(ovvero, con chi è diventato un cadavere e un nome stampato su una lapide del
cimitero). Qui Sclavi potrebbe stare strizzando l’occhio a Balzac e al suo
racconto lungo (o romanzo breve) Le
colonel Chabert (in cui si narra di un ufficiale dell’esercito napoleonico
dato per morto in battaglia e che, invece, riesce a farla franca: peccato che,
quando tornerà “alla vita”, ancora innamorato di sua moglie, troverà questa tra
le braccia di un altro, un conte, un uomo della nobiltà dal quale ha avuto già
due figli), oppure al già citato Luigi Pirandello (e all’altro suo romanzo di
“de-formazione”, Il Fu Mattia Pascal
– quando tutti ti credono morto, diventi letteralmente “uno, nessuno e
centomila”, o puoi adottare il nome di un altro – o auto-nominarti “Nessuno”).
Ecco, è in queste scene, quando interviene perfino
l’amante, che consiglia al “ritornante” o “morto vivente” di andarsene al
cimitero, di tornare lì da dove è venuto, che il lettore si commuove e
parteggia per lui. Sta in queste scene la potenza della scrittura (e
dell’immaginazione malinconica) di Tiziano Sclavi. E sta in queste pagine la
motivazione della mia passione indefessa per un personaggio come Dylan Dog,
l’eterno adolescente (“old boy” lo definisce l’ispettore Bloch) che si ferma
spesso a riflettere e a mettere per iscritto, sulla scrivania del suo studiolo,
accanto al famoso modellino del galeone infinito, su Vita e Morte (Eros e Thanatos), sul significato ultimo dell’esistenza, sui limiti della
conoscenza umana, sui perché fondamentali…
E “Storia di Nessuno” è un capolavoro, in tal
senso, perché spinge fino alle estreme conseguenze le teorie più moderne, come
quella (spiegata in modo anche troppo didascalico dal “cattivo” per eccellenza,
il mad doctor Xabaras – forse padre
dello stesso Dylan) degli “universi paralleli” per cui: non c’è un solo
Nessuno, ma esistono tanti Nessuno quanti sono i mondi che la mente di un altro
può sognare o plasmare; non c’è un solo Dylan, astemio, che non fuma, che vive
a Londra, a Craven Road, e suona il clarinetto, e non riesce mai a finire il
galeone, e vive insieme all’assistente Groucho – sparabattute che in questo
albo si supera – ma anche un Dylan dedito al whiskey, che fuma e suona il sax e
ha già finito quel benedetto modellino…
Si sa, però, che un fumetto – per quanto
“filosofico” voglia essere – deve basarsi sulle immagini; i fumetti sono come
film muti e il disegno gioca il ruolo principale. In “Storia di Nessuno”
troviamo all’opera Angelo Stano che, a mio modesto parere, è uno dei
disegnatori più bravi della serie (oltre che l’autore di tutte le copertine
ultime di Dylan Dog). E a proposito dei disegni, è davvero notevole la capacità
che ha il fumettista di trasportarci in un’altra dimensione; oltre che di
“spostarci” da un mondo all’altro, nel giro di un paio di tavole. La teoria
della relatività einsteniana e quella dei “multiversi” viene qui resa
visivamente con una serie di salti spaziali e temporali che possono certamente
disorientare, ma che riescono anche ad affascinare il lettore, catapultato in
una serie di abissi, o voragini, di cui non si riesce a vedere la fine…
In una bella intervista reperibile su YouTube,
Tiziano Sclavi dice che “Storia di Nessuno” è un albo folle, che non saprebbe
riscriverlo nello stesso modo e che, ancora oggi, non sa bene cosa avesse
voluto dirci con questa storia…
Io sostengo che se Dylan Dog rimarrà nella storia
del fumetto italiano (ed europeo) è anche grazie a storie come questa, in cui
perdersi è un piacere, per gli occhi e per la mente.
P.S.: in questo albo, e a proposito di vertigini visive, c'è uno degli "zoom" all'indietro più vasti della storia del fumetto (credo): dalla stanza in cui chiacchierano Xabaras e Dylan Dog, a Londra, alla visuale panoramica dall'alto dell'Europa, per poi allargarsi ancora di più, salire ancora più alto, fino a contemplare il sistema solare e la Via Lattea... (nemmeno Stanley Kubrick ha osato tanto in 2001: A Space Odissey).
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