David
Lynch si perde (e noi con lui) e tutto ciò è meraviglioso
Se qualcuno mi chiedesse qual è il mio regista
preferito (è successo di recente, a Madrid, mentre aspettavo un aereo per
andare ad Alicante), risponderei nel seguente modo: a) Orson Welles, perché a
24 anni (o giù di lì) ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico
inventandosi un capolavoro immenso e spericolato come Citizen Kane (“Quarto potere”); b) Francis Ford Coppola, perché con
Apocalypse Now (forse il mio film preferito) non solo ha saputo
trasporre in immagini gli incubi che Joseph Conrad ci racconta dalla penombra
con la voce di Marlow in Heart of
Darkness, ma è riuscito anche come pochi altri a descrivere l’orrore della
guerra, la follia insita in ogni impresa guerresca; c) Stanley Kubrick, perché
con 2001: A Space Odyssey (e tutti
gli altri suoi film) ci fa viaggiare verso l’infinito (e oltre); d) Woody
Allen, perché anche se sforna film come fossero panini, riesce sempre a
strapparci un sorriso – e questo non ha prezzo (cfr. la scena in cui la sorella
del protagonista di Mariti e mogli
confessa al fratello e tra le lacrime che il suo ultimo amante temporaneo
voleva farle la cacca… sulla pancia); e) Ingmar Bergman, perché come lui sono
pochi i registi che sanno usare così bene il primo piano (cfr. Sussuri e grida o Persona) e come lui nessuno sa fare meglio e con maggiore eleganza la
radiografia dei rapporti di coppia (cfr. l’horror
domestico Scene da un matrimonio); infine,
f) David Lynch, perché è il regista più folle, geniale, anormale, spiazzante,
coinvolgente e paranoico che ci sia (cfr. il suo primo lungometraggio Eraserhead – La mente che cancella, del
1977, un film che ancora oggi mi fa paura, fa venire la nausea, il mal di
testa, le vertigini, e di sicuro ancora oggi mi sentirei di vietarlo alle donne
in stato interessante – chi lo ha visto sa a cosa mi riferisco).
Insomma, in sintesi e in soldoni, non ho un
regista preferito, ma se devo scegliere su quello più affascinante proprio
perché non riesco a decifrarlo e mi spiazza sempre, ebbene, costui è l’unico, l’inimitabile
David Lynch (uno dei pochi registi il cui cognome è diventato anche un aggettivo:
“lynchiano” come sinonimo, appunto, di strano, grottesco, violento, angosciante,
inquietante, etc. etc. – e sono davvero pochi i registi che hanno questo
privilegio – anche se i nostrani non se la cavano male, si pensi a Pasolini,
Fellini, Rossellini, Moretti…).
Da Minimun Fax è uscita di recente una raccolta d’interviste
dal significativo titolo: David Lynch.
Perdersi è meraviglioso, ovvero, un’occasione d’oro per avvicinarsi al
mondo lynchiano e cercare di capirci qualcosa.
In realtà, il libro è uno spassoso campionario dei
tentativi falliti da parte dei vari intervistatori di carpire la natura del
regista e del senso dei suoi film. Una costante invariabile, nel corso degli
anni, è proprio questa sorta di auto-censura di Lynch quando si tratta di “aprirsi”
o di “condividere” col pubblico il suo mondo interiore. Guai al giornalista che
osi chiedergli “che cosa signfica” o “che cosa ha voluto dire” con quel
particolare film o in quella particolare inquadratura: la risposta di Lynch
sarà sempre la stessa, lui non lo sa, e non vuole spiegare i film, ciò che
conta per lui è l’atmosfera, e il senso di mistero che aleggia in molte di
quelle “atmosfere” che tutti noi (spettatori) riconosciamo al volo come “lynchiane”…
I film non devono trasmettere un messaggio (unico
e univoco), ma coinvolgere lo spettatore fino a fargli vivere un’altra vita,
quella proiettata sullo schermo che il regista ha inventato per lui (bellissima
la battuta di Lynch in una delle ultime interviste: “Sarebbe fantastico che gli
spettatori dei nostri film avessero il desiderio di rivedere i film che
facciamo, di rivevere più volte dentro gli universi di quei film”, cito non verbatim e al volo).
Fa quasi tenerezza, Lynch, quando ci svela che,
tra i classici della letteratura, apprezza molto Franz Kafka; e ci colpisce,
quando ci dice che adora Kubrick, ma anche Bergman e il Federico Fellini di 8 e ½, ma anche Billy Wilder (per il suo
Viale del tramonto) e Jacques Tati…
Ci fa sorridere, quando compara il sesso (un altro grande mistero) al jazz,
perché è la stessa melodia ma basata su un sacco di variazioni; e ci fa
riflettere, quando tenta di spiegare al giornalista di turno perché anche il
corpo umano è un mistero insondabile (anche se la scienza ci ha apparentemente
spiegato tutto). E fa di nuovo tenerezza, quando parla di quelle fasi della sua
vita in cui ha perso il favore del pubblico e si è trovato costretto a fermarsi
e a fare i conti con se stesso e con la sua arte (dopo i favolosi flop di Dune e di Fuoco cammina con me). E’ qui che ci rendiamo conto che, al di là
dell’immagine che vuole offrire di sé, Lynch è un brav’uomo, un americano come
tanti che crede (ancora) fermamente nella capacità che ha l’uomo di creare (dal
niente) un qualcosa di nuovo e di originale (non è un caso, dunque, che, oltre
che regista, Lynch sia anche pittore, musicista, cantante, scultore e…
inventore di mobili! Uno più strano e inutilizzabile dell’altro, sia detto per
inciso).
Ripenso – leggendo – a tutte le volte che ho avuto
paura, guardando un film di Lynch, e a tutte le volte che ho riso, o che mi
sono commosso fin quasi al pianto, a tutte le volte che ho sobbalzato dalla sedia,
guardando Velluto blu o Mulholland Drive, Inland Empire o The Elephant
Man, e poi sottolineo questa frase:
“E sono davvero grato che esistano i segreti e i
misteri, perché danno l’impulso alla scoperta e all’esplorazione. E spero, in
un certo senso, di non ottenere mai una risposta completa, a meno che questa
non sia accompagnata da un’incredibile euforia. Adoro addentrarmi nei misteri”.
E così noi, spettatori e fan di Lynch, adoriamo
addentrarci nei suoi universi senza ottenere mai una risposta completa… perché
perdersi (al cinema) è (davvero) meraviglioso, quando dietro la cinepresa c’è
un pazzo come lui…
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