domingo, enero 13, 2013


David Lynch si perde (e noi con lui) e tutto ciò è meraviglioso




Se qualcuno mi chiedesse qual è il mio regista preferito (è successo di recente, a Madrid, mentre aspettavo un aereo per andare ad Alicante), risponderei nel seguente modo: a) Orson Welles, perché a 24 anni (o giù di lì) ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico inventandosi un capolavoro immenso e spericolato come Citizen Kane (“Quarto potere”); b) Francis Ford Coppola, perché con Apocalypse Now (forse il mio film preferito) non solo ha saputo trasporre in immagini gli incubi che Joseph Conrad ci racconta dalla penombra con la voce di Marlow in Heart of Darkness, ma è riuscito anche come pochi altri a descrivere l’orrore della guerra, la follia insita in ogni impresa guerresca; c) Stanley Kubrick, perché con 2001: A Space Odyssey (e tutti gli altri suoi film) ci fa viaggiare verso l’infinito (e oltre); d) Woody Allen, perché anche se sforna film come fossero panini, riesce sempre a strapparci un sorriso – e questo non ha prezzo (cfr. la scena in cui la sorella del protagonista di Mariti e mogli confessa al fratello e tra le lacrime che il suo ultimo amante temporaneo voleva farle la cacca… sulla pancia); e) Ingmar Bergman, perché come lui sono pochi i registi che sanno usare così bene il primo piano (cfr. Sussuri e grida o Persona) e come lui nessuno sa fare meglio e con maggiore eleganza la radiografia dei rapporti di coppia (cfr. l’horror domestico Scene da un matrimonio); infine, f) David Lynch, perché è il regista più folle, geniale, anormale, spiazzante, coinvolgente e paranoico che ci sia (cfr. il suo primo lungometraggio Eraserhead – La mente che cancella, del 1977, un film che ancora oggi mi fa paura, fa venire la nausea, il mal di testa, le vertigini, e di sicuro ancora oggi mi sentirei di vietarlo alle donne in stato interessante – chi lo ha visto sa a cosa mi riferisco).

Insomma, in sintesi e in soldoni, non ho un regista preferito, ma se devo scegliere su quello più affascinante proprio perché non riesco a decifrarlo e mi spiazza sempre, ebbene, costui è l’unico, l’inimitabile David Lynch (uno dei pochi registi il cui cognome è diventato anche un aggettivo: “lynchiano” come sinonimo, appunto, di strano, grottesco, violento, angosciante, inquietante, etc. etc. – e sono davvero pochi i registi che hanno questo privilegio – anche se i nostrani non se la cavano male, si pensi a Pasolini, Fellini, Rossellini, Moretti…).

Da Minimun Fax è uscita di recente una raccolta d’interviste dal significativo titolo: David Lynch. Perdersi è meraviglioso, ovvero, un’occasione d’oro per avvicinarsi al mondo lynchiano e cercare di capirci qualcosa.

In realtà, il libro è uno spassoso campionario dei tentativi falliti da parte dei vari intervistatori di carpire la natura del regista e del senso dei suoi film. Una costante invariabile, nel corso degli anni, è proprio questa sorta di auto-censura di Lynch quando si tratta di “aprirsi” o di “condividere” col pubblico il suo mondo interiore. Guai al giornalista che osi chiedergli “che cosa signfica” o “che cosa ha voluto dire” con quel particolare film o in quella particolare inquadratura: la risposta di Lynch sarà sempre la stessa, lui non lo sa, e non vuole spiegare i film, ciò che conta per lui è l’atmosfera, e il senso di mistero che aleggia in molte di quelle “atmosfere” che tutti noi (spettatori) riconosciamo al volo come “lynchiane”…

I film non devono trasmettere un messaggio (unico e univoco), ma coinvolgere lo spettatore fino a fargli vivere un’altra vita, quella proiettata sullo schermo che il regista ha inventato per lui (bellissima la battuta di Lynch in una delle ultime interviste: “Sarebbe fantastico che gli spettatori dei nostri film avessero il desiderio di rivedere i film che facciamo, di rivevere più volte dentro gli universi di quei film”, cito non verbatim e al volo).

Fa quasi tenerezza, Lynch, quando ci svela che, tra i classici della letteratura, apprezza molto Franz Kafka; e ci colpisce, quando ci dice che adora Kubrick, ma anche Bergman e il Federico Fellini di 8 e ½, ma anche Billy Wilder (per il suo Viale del tramonto) e Jacques Tati… Ci fa sorridere, quando compara il sesso (un altro grande mistero) al jazz, perché è la stessa melodia ma basata su un sacco di variazioni; e ci fa riflettere, quando tenta di spiegare al giornalista di turno perché anche il corpo umano è un mistero insondabile (anche se la scienza ci ha apparentemente spiegato tutto). E fa di nuovo tenerezza, quando parla di quelle fasi della sua vita in cui ha perso il favore del pubblico e si è trovato costretto a fermarsi e a fare i conti con se stesso e con la sua arte (dopo i favolosi flop di Dune e di Fuoco cammina con me). E’ qui che ci rendiamo conto che, al di là dell’immagine che vuole offrire di sé, Lynch è un brav’uomo, un americano come tanti che crede (ancora) fermamente nella capacità che ha l’uomo di creare (dal niente) un qualcosa di nuovo e di originale (non è un caso, dunque, che, oltre che regista, Lynch sia anche pittore, musicista, cantante, scultore e… inventore di mobili! Uno più strano e inutilizzabile dell’altro, sia detto per inciso).

Ripenso – leggendo – a tutte le volte che ho avuto paura, guardando un film di Lynch, e a tutte le volte che ho riso, o che mi sono commosso fin quasi al pianto, a tutte le volte che ho sobbalzato dalla sedia, guardando Velluto blu o Mulholland Drive, Inland Empire o The Elephant Man, e poi sottolineo questa frase:

“E sono davvero grato che esistano i segreti e i misteri, perché danno l’impulso alla scoperta e all’esplorazione. E spero, in un certo senso, di non ottenere mai una risposta completa, a meno che questa non sia accompagnata da un’incredibile euforia. Adoro addentrarmi nei misteri”.

E così noi, spettatori e fan di Lynch, adoriamo addentrarci nei suoi universi senza ottenere mai una risposta completa… perché perdersi (al cinema) è (davvero) meraviglioso, quando dietro la cinepresa c’è un pazzo come lui…

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