Monica e il desiderio: Ingmar Bergam e l’“uomo sentimentale”
Non credo esista (all’interno della storia del cinema, dai
suoi albori ai giorni nostri) un regista più “spietato” di Ingmar Bergman nella
capacità di affondare il bisturi, di avvicinare la lente d’ingrandimento e di
fare la radiografia dei rapporti umani sentimentali (o passionali). Possiamo anche
citare Erich Rohmer (altro “mostro”); possiamo provare anche a pensare a Woody
Allen (ma lui stesso si proclama “allievo” di Bergman) o a François Truffaut
(anche troppo “romantico”), ma nessuno, credo, nessuno si può avvicinare alla
fine eleganza e al sottile cinismo del regista svedese quando si tratta di
sviscerare i rapporti di coppia, o di domandarsi in cosa consista l’amore, o di
fotografare i momenti in cui (fatalmente) l’amore si converte in odio e poi
(finalmente) in indifferenza…
Monica
e il desiderio (film del 1953 che fece impazzire uno dei
padri fondatori della Nouvelle Vague,
Jean-Luc Godard) ne è la riprova, nel senso che riconferma tutte le capacità e
le abilità di Ingmar Bergman nel provare a riflettere sulle tematiche testé
citate…
Monica è un’allegra ragazza che fa la commessa e che ama andare
al cinema per evadere dalla dura realtà quotidiana; dalle prime inquadrature
capiamo pure che è una tipetta piuttosto scaltra e vivace; non disdegna la
compagnia maschile, tanto che molti uomini se ne approfittano e vorrebbero
portarsela a letto senza tanti preamboli. Ecco, già qui, già in questa
presentazione del personaggio, Bergman è all’avanguardia: ci mostra una ragazza
libera, indipendente, o che almeno si impegna a vivere al di là delle etichette
e delle convenzioni sociali (sarà anche per questo che fuma come un turco dalla
mattina alla sera per tutto il film?) e nel fare ciò si scontra subito con il
maschilismo serpeggiante di certi padri di famiglia che se ne fregano del
corteggiamento e che tendono a usarla quasi come fosse una prostituta… Finché
non arriva lui, un timido ragazzo biondo, commesso anche lui in un negozio di
porcellane, che verrà abbordato da Monica e finirà per innamorarsene perdutamente
(anche contro le critiche e i calci e i pugni degli altri aspiranti amanti).
C’è una scena che – come nota Piera Detassis in un’intervista
acclusa nel dvd che ho usato io – la dice lunga su quale sarà il destino dei
due giovani innamorati: davanti un film-spazzatura pieno di melodramma stantio,
Monica piangerà a pieni polmoni, mentre il suo “lui” sbadiglierà a mandibola
sciolta… Insensibilità dell’uno e ipersensibilità dell’altra? Le cose non sono
come sembrano.
Monica sogna di evadere davvero, non le basta più solo il
cinema: d’altronde, come biasimarla, se casa sua è infestata dai fratellini più
piccoli (che fanno sempre rumore e “rompono tutto”), da una madre casalinga un
po’ antipatica e da un padre che si ubriaca un giorno sì e l’altro pure? Monica
decide di evadere sul serio e, approfittando della barca del padre del ragazzo,
lo convince ad andare a passare l’intera estate (o l’intera vita?) su un’isola
non lontana. E’ qui che i due ricostruiscono una sorta di Eden perduto: si
limitano ad amarsi, a fare il bagno e a prendere il sole nudi (soprattutto lei,
splendida e smagliante, selvaggia e pura forza della natura)…
Bergman è bravo a farci notare il contrasto anche
paesaggistico tra i due spazi: alla luce sfolgorante dell’isola fa da
contraltare il grigiore uniforme della città; agli scogli da cui i due giovani
si buttano vengono contrapposti i palazzi freddi delle fabbriche, con le loro ciminiere
sempre fumanti.
Ma si può vivere di solo amore? E’ davvero possibile essere
“due cuori e una capanna” al di là del bene e del male? L’uomo è un animale
sociale e l’amore non basta; se il ragazzo biondo non tornerà a lavoro,
entrambi rischiano di morire di fame. Monica fa i capricci e si arrabbia,
spingendosi addirittura a rubare un pezzo di carne arrosto dalla casa di un ricco
facoltoso che vive vicino all’isola (la scena è un po’ troppo simbolicamente
sottolineata dalla cinepresa, ma è anche coinvolgente: Monica sembra una lepre
che ruba ai ricchi per dare a se stessa… anche perché – come ha confessato poco
prima al fidanzato – ha appena scoperto di essere incinta).
Natura contro cultura; amore puro contro società del
denaro. Il ragazzo si sente responsabile nei confronti di Monica e, alla fine,
la convince a tornare sulla terra ferma: si sposeranno, lui troverà un lavoro,
e vivranno tutti e tre felici e contenti.
E qui il film subisce una virata: Monica diventa brutta e
sciatta; il marito dimostra vent’anni di più dell’età che ha. Studia di notte
per cercare di diventare ingegnere; di giorno, lavora come uno schiavo; arriva
addirittura ad accudire il figlioletto perché Monica dice di essere sempre
troppo stanca… E il giorno che è fuori per lavoro, Monica lo tradisce, torna
alla vecchia vita, fatta di bar equivoci, di incontri con amanti fortuiti, di
mille sigarette, fumate una dopo l’altra.
Quando il marito torna dal viaggio di lavoro e scopre l’amara
verità, Monica piange e si dispera, ma ormai il danno è fatto. Scappa, lasciando
la bambina appena nata al marito…
Quella che era iniziata come una romantica storia d’amore,
diventa la storia della fine dell’amore… L’ultima inquadratura – bellissima –
ci mostra il marito con in braccio la neonata mentre si guarda in uno specchio.
Una dissolvenza incrociata ci fa capire a cosa sta pensando in quel momento il
povero neo-divorziato: sta ricordando Monica, la sua nudità, le sue corse sopra
gli scogli, i suoi tuffi in mare, quando ancora non erano sposati e ancora non
gli aveva detto che sarebbe diventato padre…
Di nuovo, appare evidente il contrasto tra il grigio cupo
dello spazio urbano e il bianco sfavillante del sole dell’isola (che non c’è
più). Per il marito abbandonato Monica nuota ancora nel mare di quell’isola.
Mentre per noi spettatori è tornata ad essere una tra tante; una povera commessa
che piange davanti a film strappalacrime; e una domanda s’insinua spontanea
nella mente dello spettatore: perché è finita così? Di chi è la colpa? Perché
Monica non ha saputo dire di no al desiderio? Perché il marito continua a
guardarla come una sorta di sirena su un’isola paradisiaca?
In questo senso, nell’indurre lo spettatore a porsi di
simili domande, possiamo dire che Ingmar Bergman è un “uomo sentimentale”:
tutti i suoi film sono indagini poetiche a volte crudeli, analisi sottili e a
volte ciniche dei sentimenti umani (soprattutto – come in questo caso – quando entrano
in gioco il sesso e la passione, l’amore e il desiderio, la voglia di evadere e
di ribellarsi alla società e il bisogno di stare coi piedi per terra).
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