Leggere il futuro nel passato: una scena tratta da La nebbiosa di Pasolini
Sono un cinefilo – come
sapete bene, voi lettori di lungo corso di questo diario di bordo – e un
appassionato dei rapporti tra letteratura e cinema. Però non amo leggere le
sceneggiature: mi sembrano testi scarni, in potenza, freddi, tavole da
laboratorio, bozze di un libro non vero, o troppo “irreale”, schemi di un
lavoro in progress non fatto e non
terminabile…
E però l’altro giorno ho deciso di fare un’eccezione e ho
cominciato a leggere La nebbiosa, che
è il titolo che Pier Paolo Pasolini scelse per la sceneggiatura dell’omonimo
film che non arrivò mai a girare. Siamo nel 1959: Pasolini visita Milano e
cerca d’impossessarsi del linguaggio di quegli stessi “ragazzi di vita” che
rende protagonisti di due dei suoi romanzi più importanti (Ragazzi di vita, appunto, del 1955, e Una vita violenta, del 1958), oltre che di Accattone (del 1961)... Come fosse una sorta di
antropologo, il poeta e regista si cala nell’ambiente periferico e più
pericoloso o disagiato della Milano degli anni 60 per ritrovarvi quegli stessi
nodi che aveva già sperimentato nella capitale. E almeno stando a quello che butta
giù nella sceneggiatura, ci riesce, perché leggendo La nebbiosa si riesce a volte a respirare l’atmosfera assurdamente
violenta di personaggi giovani, adolescenti o addirittura bambini completamente allo sbando,
che non sanno cosa fare della loro vita, che si dedicano a rubare, a fregare il
prossimo, a picchiare o a picchiarsi tra di loro, a dire parolacce e a giocare
con le pistole come fossero oggetti di plastica e non armi vere, che possono
esplodere proiettili veri e che producono vittime reali (ci sono scene che fanno pensare a A Clocwork Orange di Stanley Kubrick, uscito 10 anni dopo Accattone).
E a un certo punto ci
imbattiamo in una scena che fa venire letteralmente i brividi. I “ragazzi di
vita” tendono un agguato a un uomo distinto che passeggia di notte lungo i
viali del centro di Milano; sembra effeminato; forse si trova lì per prostituirsi o, più semplicemente, per cercare compagnia maschile; i ragazzi lo caricano in macchina con un
sotterfugio e poi cominciano a prenderlo in giro. Gino – così si chiama questo
strano personaggio – sta allo scherzo, risponde a tono alle battutacce del gruppo, ma poi cambia tono; cito:
“GINO (serio, acuto, coraggioso) Lo so. Avete
brutte intenzioni nei miei riguardi. Ma ciò non toglie che potreste essere più
divertenti. Bastonatemi, se siete così malvagi da farlo, ma bastonatemi almeno
da persone spiritose” (P. P. Pasolini, La
nebbiosa, Milano, Il Saggiatore, 2013, p. 140).
Impossibile, di fronte a
questo brano, non pensare a come morì l’autore dello stesso. Sappiamo che
Pasolini venne massacrato di botte e che il cranio venne schiacciato dalle
ruote di un auto guidata (molto probabilmente) da Pelosi. Sappiamo pure che, a parte Pelosi, non si
conoscono a tutt’oggi i nomi degli altri “ragazzi di vita” che dovettero
assistere alla morte violenta del poeta e regista nei pressi dello Scalo di
Ostia. L’elemento delle bastonate è incredibilmente presente sia nel brano
(letterario) di una sceneggiatura che non è mai divenuta film, sia nella realtà
(durissima e crudele, non più modificabile) della morte dell’autore (la durezza e la crudeltà
aumentano se pensiamo che ancora non si conosce tutta la verità su quella
notte).
Ma non finisce qui: la
scena continua:
“Il Teppa, per primo,
resta colpito da quel tono:
TEPPA (bofonchiando) Ma chi t’ha dì, che te
demi bastunà? Perché?
GINO (secco, preciso) Perché siete infelici,
scontenti di voi stessi, e dovete sfogarvi contro qualcuno”.
E’ evidente che qui
Pasolini stia proiettando nel personaggio “debole” e omosessuale (o effeminato)
di Gino alcuni suoi strali e traumi personali. I ragazzi continuano e Gino va
avanti col suo discorso:
“Siete non infelici, ma
molto infelici. Odiate tutti i vostri padri, e il loro mondo, cioè la società:
ma non li odiate abbastanza… perché, in fondo, siete come loro…” (id. , p.
141).
Gino ormai non ha più
paura della violenza fisica e sputa in faccia ai suoi aguzzini la sua “verità”:
attacca il più spavaldo di tutti (uno che si fa chiamare Contessa) e gli dice
che è il più arrogante e sbruffone perché, in realtà, è il più viziato da
genitori e nonni; a questo punto Toni sbotta, rompendo il silenzio che cala
nell’auto, per chiedere: “Ma chi abbiamo incontrato, un profeta?”. E questa è
la risposta di Gino:
“GINO Macché profeta… Un
altro infelice come voi, me che almeno ammette di esserlo” (id., p. 142).
Ecco, io credo che in
questa risposta schietta e diretta ci sia parte del carattere di un “ribelle” e
anticonvenzionale come Pasolini. Noi che siamo venuti “dopo” di lui, abbiamo
cercato di interpretarlo anche da questo punto di vista: uno che vedeva le cose
e che sapeva anticipare certi fenomeni (di massa) prima degli altri. Uno che
era anche un intellettuale per questa sua capacità di andare oltre il velo
delle apparenze e di anticipare gli eventi che, di lì a poco, hanno avuto luogo
in Italia e hanno cambiato il volto sia dell’Italia sia della cultura italiana.
Ma torniamo alle
bastonate: Gino non ha paura della morte violenta o della sbruffonata senza
logica dei suoi aguzzini. Gino può perfino accettare le bastonate, ma pretende
che siano date da persone spiritose.
E ripeto: quando si
leggono queste frasi è quasi inevitabile pensare alla fine (reale) che fece
Pier Paolo Pasolini: massacrato di bastonate e di botte da una banda di
violenti, di giovani (o di giovanissimi) totalmente sprovvisti di spirito (e di
coscienza, diremmo col senno del poi).
Ed è inevitabile pensare certe cose proprio perché noi veniamo dopo Pasolini, dopo la sua morte, dopo il 1959 e il 1975 e il 1976… Ed è la nostra posizione privilegiata da “contemporanei” che vengono “dopo” a permetterci di leggere e di interpretare questi dialoghi da sceneggiatura di un film mai girato in quanto frammenti che, in certo modo, anticipano quanto poi sarebbe accaduto sul piano della realtà a colui che inventò e scrisse queste parole. E’ la distanza temporale a permetterci di leggere il passato come futuro, quando il passato non era ancora passato (e scusate il gioco di parole). Ed è per questo che ora io leggo della vicenda di Gino e penso a Pasolini e interpreto quelle parole attribuite a un personaggio di finzione come fossero le parole di Pasolini. Ed è, infine, anche per questo che ogni volta che mi fermo a leggerle mi vengono i brividi e mi abbandono alle ipotesi più assurde, come quella che mi spinge a pensare che Pasolini poteva leggere il futuro in un modo così limpido e sicuro da anticipare – in parte – anche la sua stessa morte…E chissà, davvero, chissà, come sarebbe stata La nebbiosa, se Pasolini avesse trovato il tempo e la forza e l’energia per girarla e trasformare una sceneggiatura in un film vero. Chissà a quale attore avrebbe affidato la parte di Gino, se a Sergio Citti o a Ninetto Davoli, o a qualcuno che gli assomigliasse e in cui lui stesso potesse vedersi riflesso come in uno specchio… Chissà se (come nel Vangelo secondo Matteo, dove fa svolgere il ruolo della Madonna a sua madre) non si decidesse, alla fine, a impersonare lui stesso il personaggio del povero profeta preso in giro dai ragazzini di strada...
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