Canto di D'Arco (2019) di Antonio Moresco: la fine di un ciclo
Ho
finito Canto di D’arco, di Antonio
Moresco. E come si fa ora a parlare di un romanzo che non assomiglia a nessun
altro romanzo scritto prima da nessun altro essere umano? Come si fa a parlarne
in un momento come questo, quando l’Italia è in piena crisi sanitaria e, a
breve, anche economica? Come si fa a parlare di letteratura di qualità quando
la realtà più impellente ci fa sentire quasi in colpa per non essere sommersi
in quella stessa crisi?
Non
lo so. E però una cosa è certa: Moresco si spinge molto oltre, molto al di là
delle Colonne d’Ercole del genere romanzesco; vola alto, talmente alto da
coinvolgere nella sua narrazione estrema la luce e il buio; le stelle e i
manichini da sposi; gli dèi e gli assassini di bambini; l’amore spirituale e
quello carnale; la morte concepita come fine della vita e la vita vista come l’altra
faccia della morte; insomma, è davvero complicato per me spiegare come Canto di D’arco viene quasi a suggellare
l’intero universo narrativo che Moresco ha costruito ne Gli increati, ovvero, ne Gli
esordi (1998), in Canti del caos (2009)
e, appunto, ne Gli increati (pubblicato
nel 2015 e che poi è diventato il titolo con cui l’autore ha nominato e
inglobato l’intera trilogia).
Leggermente
irritante in alcuni brani in cui si ripetono ad inifinitum gli stessi termini ossimorici (luce / oscurità; vita
/ morte; prima / dopo), spesso sconcertante per gli scenari che riesce a
mostrarci, scenari che fanno pensare al contempo alle visioni ultraterrene dantesche
della Commedia e a quelle di Kubrick
in 2001: Odissea nello spazio,
Moresco allarga ancora di più, se possibile, i confini del genere “romanzo” per
convogliarvi la lotta antagonica (e ancestrale) tra l’essere umano e ciò che è
conoscibile e, in quanto tale, dicibile (forse è la poesia il genere per
eccellenza in cui questa lotta occupa il primo piano; Moresco è poeta, in tal
senso, proprio perché si preoccupa di una questione che sembra attenere di più
al genere lirico che a quello romanzesco).
Il
lettore si ritrova così proiettato in tre diversi abissi: dalla città dei morti
(perché D’Arco, quando comincia la sua narrazione, lo fa da morto) alla città
dei vivi, per poi concludere (ma è davvero una “conclusione”?) nelle molte
città di confine, essendo il concetto stesso di confine non solo molto
relativo, ma generatore, a sua volta, di nuovi e sconfinati confini.
Come
fosse un nuovo William Blake, Moresco non trema né teme di sfiorare
l’inverosimile, proprio perché in questi romanzi il verosimile è un limite da
scavalcare attraverso una potenza immaginativa che non si arresta davanti a
nulla, che non teme il ridicolo, che non scade mai (mai) nel kitch (solo uno che sciommiottasse lo
stile di Moresco potrebbe scadervi, infatti, e in modo inevitabile; ma lui,
l’autore originale, il vero creatore di questo stile, no).
Cosa
colpisce di questo romanzo, dunque? Oltre allo stile, che richiede uno sforzo
non da poco al lettore, proprio perché si tratta di un periodare strambo, non
quotidiano, anche se caratterizzato da un lessico apparentemente “umile”, e
oltre ai contenuti filosofici che innervano la trama (la vita vista non solo e
non tanto “dopo la morte”, ma come “passaggio” in cui la morte è “già-sempre-presente”),
ciò che colpisce, dicevo, è il carattere del protagonista: D’Arco è uno sbirro
che ammette di non essere molto intelligente; è uno sfigato che gira con le
scarpe da tennis consumate, con una giacca di pelle scucita, con dei jeans
strappati. È uno che, quando cala la notte, prima di rincasare è solito
mangiare un kebab e bere una birra nello stesso bar di periferia di sempre. È
uno che compatisce e stringe amicizia con un garagista, uno che di notte non
dorme mai e che, per far passare il tempo, è solito guardare dvd porno e
masturbarsi. D’Arco è uno che s’innamora perdutamente di Quella, una ragazza
bellissima trovata per caso all’interno di un cassonetto dell’immondizia. È uno
che ha un capo che gli affida sempre missioni impossibili. Ma D’Arco (che non
ha un nome, solo questo cognome che potrebbe rimandare al David Bowman – l’arciere
– del succitato 2001: A Space Odissey)
accetta senza fiatare, anche se si stupisce e si pone domande che non trovano
subito risposta. D’Arco, di fatto, è uno che si sorprende e si fa molte domande
su tutto, anche sulla sua incapacità di capire cosa sta facendo o cosa sta
osservando e, dunque, anche, cosa sta narrando.
Come
tutti i romanzi di Moresco, anche questo ci trasmette una profonda pietà e una
certa simpatia verso un perdente, che, però, si fa vincente, perché, appunto,
accetta sempre le sfide, a testa alta, anche se sa che perderà (o che potrebbe
rimetterci addirittura la vita). E forse anche Moresco è così: uno che ha
aspettato molti anni prima di riuscire a pubblicare il primo libro e che,
nonostante tutti gli ostacoli, nonostante i molti no, e le porte sbattute in
faccia, nonostante le critiche, è riuscito poi a dare il meglio di sé,
attraverso la scrittura e la letteratura intese non come qualcosa di bello o di
rassenerante, di comodo o di puramente estetico, bensì come gli strumenti più
utili e idonei per cercare di ampliare la conoscenza che noi in quanto umani
abbiamo della realtà che ci circonda, di quella che ci portiamo dentro e
dell’incontro (e dello scontro) tra l’una e l’altra realtà. Fino a porre in
dubbio perfino la capacità della scrittura e della letteratura di dire questi
misteri e questi enigmi abissali. Fino a perderci la testa e la stabilità
mentale (è come se a un poeta si chiedesse di scrivere un componimento sui
neutrini o sulle ultime costellazioni scoperte dalla NASA; si può scrivere
poesia a partire dall’astronomia? La risposta è sì, se si ha l’ardire e la
forza di arrivare fino alla fine del Canto
di D’arco). Sono molti i brani che ho sottolineato, perché mi hanno turbato,
perché mi hanno emozionato o, più semplicemente, perché mi sono sembrati davvero
sorprendenti. E se in alcuni casi la narrazione si fa “pura domanda retorica”,
come in questo caso:
“A
cosa serve la vita se ci vuole la morte per giustificarla? A cosa serve il bene
se ci vuole il male per giustificarlo e a cosa serve il male se ci vuole il
bene per giustificarlo? E a cosa servono la vita e la morte e il bene e il male
se non si sa neppure se vengono prima o se vengono dopo, se possono venire
prima solo se vengono dopo e possono venire dopo solo se vengono prima…?” (p.
205),
in
altri casi la questione si fa più scottante e riguarda noi tutti in quanto
abitanti della Terra, come in quest’atto di denuncia che sembra descrivere (in
parte) cosa ci sta succedendo ora che il coronavirus ci ha fatti barricare in
casa e ci ha obbligati a privarci della libertà di movimento per non causare la
morte degli altri:
“Le
donne ingannano gli uomini, gli uomini ingannano le donne, le donne e gli
uomini sin ingannano tra di loro e tutti ingannano se stessi. In realtà non
credono in niente, credono solo nella loro ingordigia e in ciò che gonfia i
loro corpi, le loro menti e le loro anime, hanno bisogno di stordirsi con la
loro ipertrofia genitale e la loro tecnologia, con droghe e alcol, con la loro
idolatria economica e finanziaria, il loro cinismo, la loro frustrazione e la
loro paura, hanno solo bisogno di non vedere, si mettono tutti d’accordo per
non vedere, tutta la loro cosiddetta civiltà con le sue narrazioni è solo un
motore imballato che gira a vuoto, una valanga di copertura per non vedere,
perché se no crollerebbe tutto il castello di sabbia che hanno costruito per
nascondere la loro paura della morte, perché hanno terrore della morte, ne
hanno terrore perché credono che venga dopo e non prima…” (p. 164).
Se
citassimo fuori dal suo contesto questo brano, potremmo pensare che a scriverlo
sia stato il papa. Moresco, dopo essere stato in procinto di farsi prete, è
passato a militare nei gruppi di estrema sinistra nel corso degli anni 70 e 80.
Poi pare sia sopravvissuto facendo lavori saltuari e tutti precari, tra cui il
facchino e il portiere di notte (l’ho letto al volo da qualche parte, sarà
vero? Non saprei dire, ma siccome anch’io ho fatto entrambi questi lavori, la
notizia mi rende l’autore ancora più amico, ancora più vicino).
Sì,
potrebbe essere un brano da leggere urbi et orbi da una Piazza San Pietro
deserta. E invece fa parte di un romanzo falsamente poliziesco e
surrealisticamente di fantascienza che s’intitola Canto di D’Arco, che è uscito l’anno scorso e che parla dell’Umanità
tutta agli inizi di questo XXI secolo.
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