domingo, marzo 29, 2020


Canto di D'Arco (2019) di Antonio Moresco: la fine di un ciclo




Ho finito Canto di D’arco, di Antonio Moresco. E come si fa ora a parlare di un romanzo che non assomiglia a nessun altro romanzo scritto prima da nessun altro essere umano? Come si fa a parlarne in un momento come questo, quando l’Italia è in piena crisi sanitaria e, a breve, anche economica? Come si fa a parlare di letteratura di qualità quando la realtà più impellente ci fa sentire quasi in colpa per non essere sommersi in quella stessa crisi?

Non lo so. E però una cosa è certa: Moresco si spinge molto oltre, molto al di là delle Colonne d’Ercole del genere romanzesco; vola alto, talmente alto da coinvolgere nella sua narrazione estrema la luce e il buio; le stelle e i manichini da sposi; gli dèi e gli assassini di bambini; l’amore spirituale e quello carnale; la morte concepita come fine della vita e la vita vista come l’altra faccia della morte; insomma, è davvero complicato per me spiegare come Canto di D’arco viene quasi a suggellare l’intero universo narrativo che Moresco ha costruito ne Gli increati, ovvero, ne Gli esordi (1998), in Canti del caos (2009) e, appunto, ne Gli increati (pubblicato nel 2015 e che poi è diventato il titolo con cui l’autore ha nominato e inglobato l’intera trilogia).

Leggermente irritante in alcuni brani in cui si ripetono ad inifinitum gli stessi termini ossimorici (luce / oscurità; vita / morte; prima / dopo), spesso sconcertante per gli scenari che riesce a mostrarci, scenari che fanno pensare al contempo alle visioni ultraterrene dantesche della Commedia e a quelle di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, Moresco allarga ancora di più, se possibile, i confini del genere “romanzo” per convogliarvi la lotta antagonica (e ancestrale) tra l’essere umano e ciò che è conoscibile e, in quanto tale, dicibile (forse è la poesia il genere per eccellenza in cui questa lotta occupa il primo piano; Moresco è poeta, in tal senso, proprio perché si preoccupa di una questione che sembra attenere di più al genere lirico che a quello romanzesco).

Il lettore si ritrova così proiettato in tre diversi abissi: dalla città dei morti (perché D’Arco, quando comincia la sua narrazione, lo fa da morto) alla città dei vivi, per poi concludere (ma è davvero una “conclusione”?) nelle molte città di confine, essendo il concetto stesso di confine non solo molto relativo, ma generatore, a sua volta, di nuovi e sconfinati confini.

Come fosse un nuovo William Blake, Moresco non trema né teme di sfiorare l’inverosimile, proprio perché in questi romanzi il verosimile è un limite da scavalcare attraverso una potenza immaginativa che non si arresta davanti a nulla, che non teme il ridicolo, che non scade mai (mai) nel kitch (solo uno che sciommiottasse lo stile di Moresco potrebbe scadervi, infatti, e in modo inevitabile; ma lui, l’autore originale, il vero creatore di questo stile, no).

Cosa colpisce di questo romanzo, dunque? Oltre allo stile, che richiede uno sforzo non da poco al lettore, proprio perché si tratta di un periodare strambo, non quotidiano, anche se caratterizzato da un lessico apparentemente “umile”, e oltre ai contenuti filosofici che innervano la trama (la vita vista non solo e non tanto “dopo la morte”, ma come “passaggio” in cui la morte è “già-sempre-presente”), ciò che colpisce, dicevo, è il carattere del protagonista: D’Arco è uno sbirro che ammette di non essere molto intelligente; è uno sfigato che gira con le scarpe da tennis consumate, con una giacca di pelle scucita, con dei jeans strappati. È uno che, quando cala la notte, prima di rincasare è solito mangiare un kebab e bere una birra nello stesso bar di periferia di sempre. È uno che compatisce e stringe amicizia con un garagista, uno che di notte non dorme mai e che, per far passare il tempo, è solito guardare dvd porno e masturbarsi. D’Arco è uno che s’innamora perdutamente di Quella, una ragazza bellissima trovata per caso all’interno di un cassonetto dell’immondizia. È uno che ha un capo che gli affida sempre missioni impossibili. Ma D’Arco (che non ha un nome, solo questo cognome che potrebbe rimandare al David Bowman – l’arciere – del succitato 2001: A Space Odissey) accetta senza fiatare, anche se si stupisce e si pone domande che non trovano subito risposta. D’Arco, di fatto, è uno che si sorprende e si fa molte domande su tutto, anche sulla sua incapacità di capire cosa sta facendo o cosa sta osservando e, dunque, anche, cosa sta narrando.

Come tutti i romanzi di Moresco, anche questo ci trasmette una profonda pietà e una certa simpatia verso un perdente, che, però, si fa vincente, perché, appunto, accetta sempre le sfide, a testa alta, anche se sa che perderà (o che potrebbe rimetterci addirittura la vita). E forse anche Moresco è così: uno che ha aspettato molti anni prima di riuscire a pubblicare il primo libro e che, nonostante tutti gli ostacoli, nonostante i molti no, e le porte sbattute in faccia, nonostante le critiche, è riuscito poi a dare il meglio di sé, attraverso la scrittura e la letteratura intese non come qualcosa di bello o di rassenerante, di comodo o di puramente estetico, bensì come gli strumenti più utili e idonei per cercare di ampliare la conoscenza che noi in quanto umani abbiamo della realtà che ci circonda, di quella che ci portiamo dentro e dell’incontro (e dello scontro) tra l’una e l’altra realtà. Fino a porre in dubbio perfino la capacità della scrittura e della letteratura di dire questi misteri e questi enigmi abissali. Fino a perderci la testa e la stabilità mentale (è come se a un poeta si chiedesse di scrivere un componimento sui neutrini o sulle ultime costellazioni scoperte dalla NASA; si può scrivere poesia a partire dall’astronomia? La risposta è sì, se si ha l’ardire e la forza di arrivare fino alla fine del Canto di D’arco). Sono molti i brani che ho sottolineato, perché mi hanno turbato, perché mi hanno emozionato o, più semplicemente, perché mi sono sembrati davvero sorprendenti. E se in alcuni casi la narrazione si fa “pura domanda retorica”, come in questo caso:

“A cosa serve la vita se ci vuole la morte per giustificarla? A cosa serve il bene se ci vuole il male per giustificarlo e a cosa serve il male se ci vuole il bene per giustificarlo? E a cosa servono la vita e la morte e il bene e il male se non si sa neppure se vengono prima o se vengono dopo, se possono venire prima solo se vengono dopo e possono venire dopo solo se vengono prima…?” (p. 205),

in altri casi la questione si fa più scottante e riguarda noi tutti in quanto abitanti della Terra, come in quest’atto di denuncia che sembra descrivere (in parte) cosa ci sta succedendo ora che il coronavirus ci ha fatti barricare in casa e ci ha obbligati a privarci della libertà di movimento per non causare la morte degli altri:

“Le donne ingannano gli uomini, gli uomini ingannano le donne, le donne e gli uomini sin ingannano tra di loro e tutti ingannano se stessi. In realtà non credono in niente, credono solo nella loro ingordigia e in ciò che gonfia i loro corpi, le loro menti e le loro anime, hanno bisogno di stordirsi con la loro ipertrofia genitale e la loro tecnologia, con droghe e alcol, con la loro idolatria economica e finanziaria, il loro cinismo, la loro frustrazione e la loro paura, hanno solo bisogno di non vedere, si mettono tutti d’accordo per non vedere, tutta la loro cosiddetta civiltà con le sue narrazioni è solo un motore imballato che gira a vuoto, una valanga di copertura per non vedere, perché se no crollerebbe tutto il castello di sabbia che hanno costruito per nascondere la loro paura della morte, perché hanno terrore della morte, ne hanno terrore perché credono che venga dopo e non prima…” (p. 164).

Se citassimo fuori dal suo contesto questo brano, potremmo pensare che a scriverlo sia stato il papa. Moresco, dopo essere stato in procinto di farsi prete, è passato a militare nei gruppi di estrema sinistra nel corso degli anni 70 e 80. Poi pare sia sopravvissuto facendo lavori saltuari e tutti precari, tra cui il facchino e il portiere di notte (l’ho letto al volo da qualche parte, sarà vero? Non saprei dire, ma siccome anch’io ho fatto entrambi questi lavori, la notizia mi rende l’autore ancora più amico, ancora più vicino).

Sì, potrebbe essere un brano da leggere urbi et orbi da una Piazza San Pietro deserta. E invece fa parte di un romanzo falsamente poliziesco e surrealisticamente di fantascienza che s’intitola Canto di D’Arco, che è uscito l’anno scorso e che parla dell’Umanità tutta agli inizi di questo XXI secolo.

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