martes, julio 01, 2008

Il divo, di Paolo Sorrentino e Gomorra, di Matteo Garrone

Questi due film hanno molto in comune; entrambi girati da due "giovani" e talentuosi registi italiani; entrambi usciti nel 2008; entrambi in gara all'ultimo festival di Cannes; entrambi usciti - in parte - vincitori da quello stesso festival. I giornali ne hanno approfittato come al solito per tessere le lodi del cinema nostrano e qualcuno si è spinto oltre, fino a parlare di una sorta di "rinascita" (o addirittura "rinascimento") del cinema italiano (c'è anche chi ha parlato addirittura di "neo-neorealismo", con riferimento diretto a quel movimento cinematografico e letterario post-II Guerra Mondiale e post-Resistenza che ha fatto la Storia del Cinema Mondiale). Non credo che sia così. Nè che questi siano gli unici capolavori che ci abbia regalato l'Italia negli ultimi mesi. Certo è che entrambi dimostrano come si può fare del buon cinema a partire dalla realtà; ovvero, che si può girare un'opera di finzione - come lo è sempre un film - prendendo lo spunto da fatti di cronaca o da fatti storicamente accaduti. L'immaginazione può funzionare anche se chi la mette in moto prende l'avvio da un articolo di cronaca nera o da un saggio sulla malavita nostrana. Una volta che l'immaginazione è "al potere", spetta al regista incanalarla in immagini, in sequenze, in scene che abbiano non solo un senso compiuto, ma anche un senso estetico, che possa colpire cioè a sua volta l'immaginazione dello spettatore e il suo sguardo sul mondo. Entrambi i film ci riescono appieno: perchè entrambi ci prensentano (e costruiscono per noi spettatori) mondi possibili (o possibilmente già esistenti - o esistiti) in cui gli spazi, i luoghi, i personaggi, i temi (della Storia e delle storie nostrane) sono ricreati con originalità e fortissimo senso del ritmo visivo e di quello narrativo.

Il divo si apre con un Giulio Andreotti (maginificamente interpretato dal solito, bravissimo Toni Servillo) che tenta di adottare l'agopuntura come ultimo rimedio o rimedio estremo contro le forti emicranie che ne scandiscono la vita di tutti i giorni. E già questa immagine basta a rivelarci uno dei sensi profondi dell'intero film: chi è veramente costui? Chi è stato - per noi italiani, e per la storia dell'Italia intera - l'onorevole Giulio Andreotti? Un paladino della giustizia che per mantenere l'ordine si è forse sporcato le mani entrando a compromessi con i poteri occulti che (da sempre) operano contro lo Stato e la democrazia (come la mafia), oppure un corrotto uomo politico che, assetato di potere, non ha fatto altro che godere della sua posizione di "despota" per manovrare e manipolare gli altri (i più diretti collaboratori, gli amici, i nemici, gli oppositori e i fautori della sua politica democristiana)?

La prima inquadratura (con il primo piano di quel volto invecchiato, forse stanco, comunque inquietante, e riempito di aghi) non fa che sottolineare questa duplice natura del senatore a vita Andreotti. Uno lo guarda e non può fare a meno di domandarsi cosa nasconda dietro la facciata e la maschera che da tanti (troppi?) anni si porta dietro e mostra in pubblico anche quando viene accusato di associazione mafiosa o legami con la P2.

In questo film Sorrentino riassume anche per i giovani nati durante (o dopo) gli anni 90 quello che è stato il potere politico della destra in Italia a partire dagli anni 50 fino a oggi. In tal senso, Il divo assolve a un duplice compito: quello di intrattenere coinvolgendo con le immagini (e la musica - la colonna sonora è ossimoricamente utilizzata per fare da contraltare ironico-sarcastico ad alcune scene di omicidi o stragi particolarmente crude) e, al contempo, di raccontare il passato storico recente (quel passato da cui deriviamo e che, in parte, ci spiega perchè, dopo Prodi e i fallimenti del governo di centro-sinistra, è tornato al potere, incontrastato e beato, Berlusquoni e co.). A tale scopo, il regista non si risparmia nell'uso delle didascalie, che servono per dire anche allo spettatore giovane o "non informato sui fatti" chi erano Cirino Pomicino, La Malfa, Cossiga, Totò Riina, Buscetta e compagnia bella. Ma non solo: Sorrentino ci narra i misteri d'Italia (le tanti stragi impunite, la morte di Aldo Moro, i tanti processi ancora in corso sulla mafia) legandoli al mistero dell'identità andreottiana divertendosi e divertendoci. Il film è "contrappuntato" da scenette umoristiche, o esplicitamente surreali e grottesche, che spingono alla risata. In tal senso possiamo davvero applaudire Carlo Buccirosso, interprete di Paolo Cirino Pomicino, epitome dell'italiano medio arraffone, sbruffone, ignorante e intrigante, che usa la politica per farsi i suoi porci comodi. E' in questo l'incanto e il fascino discreto del film: raccontare due misteri (d'una nazione e d'un uomo politico) facendoci sorridere o, addirittura, ridere.


Diverso è il discorso per Gomorra: Matteo Garrone parte dal best-seller di Saviano (che non ho letto, e che mi riprometto di non leggere a breve scandenza, e almeno non prima che siano trascorsi un paio d'anni - odio leggere i best-seller del "momento" e a la page) per raccontare senza eccessi visivi e grotteschi, senza le scene a volte surreali e oniriche di Sorrentino, una realtà ben delimitata e circoscritta. Napoli e i suoi quartieri più famosi per la presenza attiva della camorra e della malavita organizzata in generale. In tal senso, per Garrone si può parlare di "iperrealismo". Il regista non ci risparmia niente: ci porge fette di vita quotidiana delle borgate napoletane dello spaccio d'armi e di droga, ci fa vedere pezzi di guerra civile "ordinaria" di Scampia e dintorni, mantenendo un attaccamento quasi feticista verso la cruda realtà. Non è un caso se il film è interamente girato in dialetto napoletano "doc". Un dialetto talmente stretto che anche alcuni miei amici di Napoli hanno fatto fatica a seguire il film senza l'ausilio delle didascalie.


Lo spettatore osserva dal buco della serratura di una telecamera che si spinge decisamente "oltre" le barriere della legalità e ci illustra i corpi di cinesi che cuciono vestiti che poi finiranno nelle sfilate dell'alta moda italica; i corpi di ragazzini che la camorra addestra a non avere paura dei proiettili di fucile; i corpi e le mani di usurai che racimolano soldi per la camorra e di camorristi che spacciano cocaina come fosse pane tra i poveri.


Una prima reazione "civica" è l'indignazione; la seconda, più razionale, si può tradurre a parole con questa frase (spesso riportata dai giornalisti che hanno scritto del film e del suo successo a Cannes): "Ma Napoli non è solo Scampia; Napoli è fatta anche di brave persone, che lavorano e che rispettano le leggi". E' vero, Napoli non è solo criminalità e disordine; non è solo immondizia e rifiuti riciclati in terreni gestiti dalla camorra. Ma è anche questo e ignorarlo non sarebbe un atteggiamento corretto, nè costruttivo (per nessuno, napoletano e non).


Ciò che unisce Gomorra a Il divo, quindi, non è solo la fonte primaria dell'ispirazione (la Storia nostrana), ma anche e soprattutto la volontà di "scrivere la realtà" per immagini utilizzando un linguaggio nuovo, orginale e personale.


Io adotto questo metro per misurare la bellezza di un film: se dopo averlo visto, e quando le luci in sala si riaccendono, non riesco a ri-posizionare il mio corpo nello spazio; ovvero, faccio fatica a ri-guardare la realtà esterna e oggettiva con occhio razionale e freddo, per cui avverto all'inizio come una sorta di senso di vertigine e spaesamento, beh, allora vuol dire che il film è davvero bello ed è girato con linguaggio cinematografico d'altissima qualità.


Non è un fenomeno frequente. Mi è successo con Pulp Fiction; prima ancora, anni fa, con Apocalypse Now e La finestra sul cortile. Più di recente con Eyes Wide Shut. Sono ben contento, quindi, che mi sia ricapitato con questi due film italiani. Che meritano tutta la nostra attenzione e che faranno parlare di sè anche in futuro...

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