martes, julio 01, 2008



"Il tornado di valle Scuropasso", di Tiziano Sclavi






Chi conosce Dyland Dog e ha già letto qualche altro romanzo di Tiziano (Sclavi) non farà fatica a riconoscere lo stile tutto "peculiare" di questo autore fin troppo noto per la succitata creatura a fumetti e fin troppo ignorato per l'ormai ventennale carriera di romanziere. Dentro Il tornado di valle Scuropasso (Milano, Mondadori, 2006), sua ultima fatica (e speriamo non sia l'ultima, come aveva affermato laconicamente nel 1998, dopo il flop del geniale Non è successo niente), il lettore ritrova molte delle atmosfere oniriche e surreali che si possono apprezzare nei tanti albi a fumetti dell' "investigatore dell'incubo": un uomo apparentemente tranquillo vive isolato in una casa di campagna immersa nel bosco a pochi chilometri da Buffalora, un paesino di provincia già scenario dell'indimenticabile Dellamorte Dellamore. A un certo punto, però, scopriamo che l'io narrante non è poi così tranquillo: assume farmaci antidepressivi; soffre per le ferite ancora aperte dell'alcolismo; ha manie suicide e autolesioniste; e tanto per complicare un po' le cose, a un certo punto comincia a percepire la presenza di strani ominidi che assomigliano agli extraterrestri cui Spielberg ci ha abituato dai tempi di Incontri ravvicinati del terzo tipo.

Una delle scene più riuscite del romanzo (perchè quando si parla di romanzo si può parlare di "scene", adottando il gergo tipico del cinema; ma quando si parla di un romanzo "sclaviano" l'uso del gergo cinematografico è d'obbligo, perchè Sclavi è uno dei pochi scrittori contemporanei che cerca di fare cinema con le parole, la disposizione tipografica delle stesse, l'uso delle onomatopee, delle virgole e dei punti, dei punti di sospensione, e di un largo eccetera...) è quella in cui il protagonista scende in cantina e si avvicina a una cisterna contenente acqua stagnante. E' qui che il lettore comincia letteralmente a tremare: un corpo in miniatura, forse un feto di alieno, emerge lentamente dalle acque, spingendo l'uomo all'urlo disperato.

Ma Sclavi non fa solo paura: fa anche tenerezza. Nel bel mezzo degli incubi che il narratore ci racconta con uno stile scabro, ripetitivo, ossessivo, anche per l'attenzione maniacale con cui tenta di riprodurre a parole suoni e rumori che sembrano provenire da un altro mondo, l'autore riesce a infilare anche qualche canzone delle sue (Tiziano Sclavi ha scritto molte canzoni, oltre a una serie indefinita di poesie): come quella intitolata Occhi (pp. 68-69), vero e proprio esercizio di mise en abyme sull'atto stesso del guardare (l'occhio rotondo di un pesce diventa lo specchio in cui si riflette - e si perde vertiginosamente - l'occhio sbarrato di un uomo); così come non mancano dialoghi al fulmicotone in perfetto stile "grouchesco" (Groucho Marx è la spalla di Dylan Dog, è il personaggio secondario le cui battute servono a "smorzare" l'effetto violento o fin troppo realistico di certe scene particolarmente drammatiche - e una volta Sclavi confessò che perdeva molto più tempo nel cercare una battuta alla Groucho che nello scrivere la trama di un intero albo). Un esempio eloquente all'inizio del romanzo:

"Avevo conosciuto una brasiliana.


"Milano mi piace tanto" mi aveva detto, "è così piccola!"


Su un pianeta delle Plediadi esiste una città in confronto a cui Rio è un villaggio".

E' un esempio calzante dell'altro tema caro a Sclavi: il relativismo assoluto che confonde le acque, che ci impedisce di distinguere confini tra reale e finzione, di capire ora in che punto ci troviamo, di individuare in quale universo parallelo stiamo vivendo la nostra vita, mentre l'Altro, di là, si diverte a fare l'opposto (ma quanti Altri ci sono nei vari universi paralleli?

Il finale spiega l'enigma in un paio di pagine: e come al solito, come accade sempre con Sclavi, quelle due pagine ci obbligano a rileggere il tutto da un nuovo punto di vista. Tutto si tiene; tutto torna. Anche il caos e la paura che creano strani oggetti volanti nei dintorni della casa nel bosco posta nelle vicinanze di un paese che si chiama Buffalora (che letto in un certo ordine potrebbe suonare anche come "buffa l'ora"; l'ora buffa dei sogni e degli incubi che ci fanno più paura, anche quando non c'era nulla di cui temere).

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