sábado, octubre 31, 2009

Geoff Dyer, Amore a Venezia. Morte a Varanasi (tit. originale: “Jeff in Venice. Death in Varanasi”), Torino, Einaudi, 2009: una meditazione surreale e semi-seria sulla vita che scorre


Geoff Dyer è un autore anomalo e mi piace proprio perché è un’anomalia, è diverso dagli altri; scrive libri che è difficile, se non impossibile, riuscire ad etichettare, proprio perché concepiti al fine di varcare i confini, le etichette, i cosiddetti “generi letterari”. Spero di averne conferma leggendo il suo But Beautiful. A Book about jazz (tradotto in italiano con il titolo “Natura morta con custodia di jazz”); la prima volta, invece, l’ho capito leggendo quella personalissima e, per certi versi, geniale “storia della fotografia” che è The Ongoing Moment (“L’infinito istante. Saggio sulla fotografia”, Torino, Einaudi, 2007), in cui l’autore ripercorre buona parte della storia di quest’arte indagandone il fascino, il mistero e alcune delle prove migliori (alcune delle opere d’arte dell’arte fotografica) dal suo soggettivo e volutamente “non specialistico” punto di vista; lo dice lui stesso, a p. 8 del libro-saggio (o romanzo-saggio o “storia personale della fotografia”):

“[…] io non sono un fotografo. Non voglio semplicemente dire che non sono un fotografo professionista o serio; intendo proprio dire che nemmeno posseggo una macchina fotografica. Le sole volte che scatto delle foto è quando i turisti mi chiedono di fargliene una, con la loro fotocamera (queste rare opere sono adesso disperse in giro per il mondo in collezioni private, soprattutto in Giappone)”.

Soffermiamoci per un momento sulla frase contenuta all’interno della parentesi: questa frase incarna alla perfezione il sense of humor tipicamente inglese di questo scrittore (inglese fin nel midollo, a mio modo di vedere “italiano”). Dyer sa parlare di morte, di stragi, di paesaggi invernali e di solitudine, di panchine vuote e di spogliarelliste tristi, con un tono ironico che riesce a strapparti un sorriso anche quando – appunto – l’argomento è intriso di tristezza e angoscia e dolore…

E’ quanto si riscontra leggendo anche Amore a Venezia. Morte a Varanasi, due romanzi in uno, o un romanzo diviso in due parti, tra loro comunicanti, anche se non in modo così netto e diretto. La prima parte è scritta in terza persona; la seconda, invece, in una prima persona che sembra avere molti (molti?) punti di contatto con quella che sembra essere la “personalità” eccentrica e irrequieta dell’autore stesso.

Spazio e Tempo: la prima parte, come è facile intuire dal titolo, si svolge tutta in Italia, in una Venezia attanagliata dal caldo torrido dell’estate del 2003; la seconda, invece, in India, in quella città che prima si chiamava Benares e che oggi si chiama Varanasi. Qui il tempo sembra essersi fermato; o meglio, il protagonista riesce a staccarsi in modo così radicale dalla percezione “occidentale” del tempo da desiderare di restare a vivere a Varanasi e di abbandonare la natia Londra a tempo indeterminato. Non ci sono date che ci consentano di stabilire o ricostruire una “cronologia interna” alla seconda parte del romanzo.

In Amore a Venezia accompagniamo il protagonista, Jeff Atman, per le calli della città lagunare nel periodo in cui vi si organizza la famosa Biennale d’Arte Contemporanea. Il lettore si diverte a spiare i gesti, le parole, i tic nervosi di tutta una serie di personaggi dell’arte e dello spettacolo che sembrano non fare altro che partecipare a party in cui si beve a scrocco bellini, vini vari e superalcolici a fiumi. Se Dyer voleva ri-scrivere la quasi-omonima novella lunga (o romanzo breve) di Thomas Mann Morte a Venezia, beh, bisogna riconoscere che ci è riuscito appieno. Tanto Gustav von Aschenbach rifugge dalla passione omosessuale che sente per il fanciullo in fiore Tadzio, quanto Jeff Atman dà sfogo e persegue la passione etero che scoppia non appena il suo sguardo incrocia quello della bella gallerista americana Laura. I due “critici d’arte” non si danno appuntamento contando sul fattore “casualità”: a Venezia ci si rincontra tutti, e ci si perde in continuazione, tra canali, ponti e calli che sfociano chissà dove… E così è: Atman trascorre intere nottate di sesso (e droga) in compagnia di Laura, con la speranza che questo amore improvviso possa continuare a vivere in eterno (quando sia Laura sia noi lettori sappiamo bene che così non sarà).

Ecco, questa prima parte è davvero ricca dell’umorismo anglosassone di Dyer. Le pagine in cui descrive la gioia di Jeff davanti al corpo nudo di Laura ci ricordano per certi versi le pagine migliori del Philip Roth di Lamento di Portnoy (o de Il teatro di Sabbath, tanto per fare un altro esempio). In questa prima parte il lettore ride, sorride, si emoziona e prova una certa compassione per Jeff Atman perché sa che quanto Jeff Atman sta sperimentando è condannato a finire. Come la Biennale, con le sue infinite feste private in appartamenti extra-lusso. E come una storia d’amore nata all’improvviso in una città che del romanticismo ha fatto quasi un suo marchio di fabbrica (e si sa che tanto, ormai, Venezia non esiste; o meglio, ormai ci si è talmente assuefatti all’idea che di Venezia si sono fatti gli artisti, i poeti, gli scrittori e i pittori che ci hanno preceduto che quando ci vai ti rendi conto del fatto che quanto vedi lo avevi già visto prima e che, perciò, non ti appare più reale della stessa Venezia vista in foto, descritta in un romanzo, studiata in un saggio di storia dell’arte).

La seconda parte, invece, è più lenta, triste, meditata. Non sappiamo se a parlare sia ancora lo stesso giornalista e critico d’arte che abbiamo conosciuto sotto il nome di Jeff Atman. Sta di fatto che qui il narratore in prima persona assomiglia molto all’Atman già noto per certi suoi tic nervosi e per il fatto di essere anche lui una sorta di viaggiatore incallito, di flâneur di benjaminiana memoria, che lascia Londra e si reca in India non per ricevere l’illuminazione, non per praticare yoga e ritrovare se stesso o tastare la qualità del suo karma, ma per osservare con occhio attento, il più possibile razionale e analitico, quello che è diventata oggi una città turistica come Varanasi.

E’ in Morte a Varanasi che il protagonista smette di pensare all’amore (e al sesso) e si concentra sul tema della morte (fisica e spirituale) di chi lo circonda. Orde di turisti occidentali si avvicinano al Gange con atteggiamento di schifo o di rigetto quando scoprono che è un fiume pieno di rifiuti (carta straccia, ossa di animali e, a volte, di esseri umani, cenere e buste di plastica lo solcano nell’indifferenza generale della popolazione locale). I bambini e gli adulti del posto cercano di accaparrarsi qualche spicciolo anticipando nel pensiero i desideri dei turisti. Tutti si prostituiscono a Varanasi – chi noleggiando la barca, chi predicendo il futuro nel palmo della mano, chi vendendo roba vecchia – perché sono tutti indicibilmente poveri. Il protagonista, che alloggia in uno degli hotel di lusso della città, non può non constatare come Varanasi sia il centro ideale - quasi il fulcro - della povertà mondiale. C’è una scena particolarmente cruda in cui il narratore, su una riva del fiume, scorge un morto disteso con la faccia a terra e vede come un cane stia mangiandone le braccia nella più completa calma, assolutamente indisturbato. Nessuno si scandalizza; nessuno si preoccupa di recuperare il cadavere dalle zanne del cane. Anche le battute e gli slanci ironici del narratore diminuiscono per fare spazio a una visione critica o, per meglio dire, satirica della religione del luogo. Gli induisti sembrano essersi specializzati nell’inventare un Olimpo in cui gli dèi sono: a) troppi; b) dai nomi troppo complessi; c) troppo labili, nel senso che, come si evince dalla lettura delle Upanishad (l’insieme dei libri sacri dell’Induismo), cambiano spesso di ruolo, di sesso e di nome tra di loro, lasciando nello sconcerto il lettore troppo legato agli schemi razionalizzanti dell’Occidente e delle religioni monoteiste. Come vivere in un contesto del genere? Come occupare il tempo a disposizione?

Mentre i turisti vanno e vengono, lui resta da solo, incastrato in un tempo “altro”, all’interno di uno spazio “altro” in cui il tempo stesso sembra essersi fermato (altro riferimento intertestuale a un’altra opera fondamentale di Thomas Mann? Quella stessa Montagna incantata che permetterà ad Hans Castorp di raggiungere una migliore conoscenza di sé e degli altri?).

Il narratore è fermo e scava dentro di sé. Riporta i pensieri che gli ispirano gli altri turisti, gli indiani locali e il paesaggio. E sente di trasformarsi lui stesso in un nuovo “io”, in un “altro da sé” che ancora deve imparare a conoscere.

Quello che era cominciato come un romanzo divertente e divertito sul mondo dell’arte e sull’amore diventa una riflessione surreale, per metà seria e per metà tragicomica, su quello che siamo diventati oggi… Venezia e Varanasi come i due nuclei geografici dai quali è possibile partire per scindere l’atomo e vedere cosa contiene. Anche se, come recita l’epigrafe finale del libro, sappiamo bene che: “Ciò che è qui è anche lì, e ciò che è lì è anche qui”. Un libro inclassificabile, quindi, che mette in crisi le normali coordinate spazio-temporali per parlarci di noi, qui e oggi…(o lì e ieri, dipende).

No hay comentarios:

Publicar un comentario

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...