

Esiste un modo per tornare indietro nel tempo? Perché ci è impossibile rifare il percorso all’incontrario e cogliere quell’occasione che, allora, scartammo e ci lasciammo scappare considerandola pericolosa, rischiosa, troppo alta per le nostre capacità? Il tempo è sempre stato indicato, segnalato e rappresentato sin dall’antichità o come una curva o come una freccia. Tempo ciclico e tempo lineare. Un tempo (il primo) che si ripete all’infinito (il “tutto scorre” eracliteo) e un tempo (il secondo) che ha avuto origine nel momento stesso in cui Dio creò il cielo e la terra e che avrà fine il giorno dell’Apocalisse (quando tutti i morti risorgeranno e, si suppone, non ci saranno più vivi a circolare liberi sulla Terra).
Io vorrei tornare indietro per chiedere scusa a quella persona che tanti anni fa offesi senza nemmeno rendermi conto della gravità dell’offesa. E vorrei poterla rivedere in faccia, osservarne lo sguardo, per dirle tutto quello che avrei detto (e fatto) se fossi stato più attento e meno codardo…
Ma non si può: è contro la logica e contro natura. E il bello dell’essere vivente è che vive finché qualcuno gli da l’occasione di vivere; ossia, siamo animali con vita a scadenza. Prima o poi, l’energia che ci fa camminare (e pensare), che ci fa muovere su questo pianeta e ci fa distruggere il pianeta e noi stessi, è destinata a finire, “non con un boato, ma con un sospiro” (disse T.S. Eliot, se non ricordo male, in The Hollow Men). Sei vivente, ergo sei inserito dentro il tempo, sei permeato e fatto di attimi di tempo che scorrono e che tu, ingenuo, t’illudi di poter cronometrare e conteggiare, quando in realtà, noi non contiamo nulla…mai. E sono inutili gli alambicchi e le ipotesi filosofiche e le teorie scientifiche che tentano di trovare un teorema valido per sempre all’enigma (oscuro per sempre, ontologicamente enigmatico, mi verrebbe da dire, in perfetto stile “Vattimo”). Ci illudiamo di stabilire date; di fissare appuntamenti; di portare l’ora sugli orologi, ma non è così. E’ tutto un’illusione.
Chi sbaglia paga. Se hai perso tempo, nessuno te lo restituisce. Se usi male il tempo, peggio per te. Se allora non ti accorgesti di che cosa era meglio per te, è inutile (perfettamente inutile, direi) accorgersene a distanza di anni, quando si sa che non si può più rimediare. O forse no. Forse si può…quanti dubbi!
L’unica cosa certa è che, in natura, piante e animali nascono, crescono e muoiono senza avere alcuna coscienza dello scorrere dei giorni delle settimane (una pianta non sa quando è Lunedì; nemmeno un cane capisce quando è Sabato o Natale, o no?) o dei mesi e degli anni. Non sanno che siamo nel 2009 (e che tra un mese scarso passeremo al 2010). I loro ritmi biologici sono regolati per lo più dallo scorrere delle stagioni e dall’alternarsi quotidiano di giorno e notte (dal momento in cui il sole sorge a quello in cui va a dormire e tramonta, lasciando spazio alla luna…). Siamo noi, gli umani, ad avere coscienza della nostra stessa mortalità e caducità e, quindi, del nostro Essere in quanto “essere fatti di Tempo” (che Heidegger mi perdoni, ma credo sia così, giusto?). Siamo noi a capire che più le lancette dell’orologio scorrono più si fa vicino il momento della fine definitiva…
Gli scrittori dell’età classica greco-latina ci insegnano a contrastare il “pensiero della nostra stessa congenita mortalità” approfittando sempre del “momento presente”. E’ il famoso topos del carpe diem. Del domani non c’è certezza, è vero, ergo: sarebbe da sciocchi non approfittare di un momento se è un momento di felicità (ma cos’è la felicità? Quante domande!). Giovani lo si è solo nella fase in cui si è anagraficamente giovani (dall’adolescenza ai 20-25 anni), oppure lo si è sempre e solo d’animo, a prescindere da ciò che recita la mia carta d’identità? E se giovani lo si è anche e soprattutto di spirito, anche quando uno dovesse sentirsi giovane e comportarsi da giovane, potrà mai sperare di rivivere esattamente quelle sensazioni vissute quando era giovane solo dal punto di vista dell’età anagrafica? (che razza di domande!).
Certe volte mi sento vecchissimo: a 32 anni, mi sembra di aver vissuto già 3 o 4 vite diverse. Oggi, per esempio, che è il 30 Novembre del 2009 e che mi ritrovo a scrivere queste paranoiche pippe mentali dentro questa che è stata la mia stanza per otto anni e che non lo è stata più a partire dal 31 Dicembre del lontanissimo 2003... Oggi mi sento così vecchio se penso a quel mio “io” giovane che scriveva lettere d’amore romantiche su questa stessa scrivania (che porta, evidenti, i segni del tempo, ma non più di quanto non ne porti io – con qualche capello bianco in più in testa; e meno denti; e più cicatrici sul volto e rughe intorno agli occhi e sulla fronte; e più diottrie, ergo: occhiali dalle lenti più spesse...).
Mi sembra così assurdo e, al contempo, così appassionante, così sorprendente, sapere che 6 anni fa io qui dentro ci studiavo e ci dormivo e ci facevo l’amore, quando oggi non è più così e vivo lontano da Roma, pernotto preferibilmente a Firenze, anche se faccio qualche capatina a Pisa e sogno Madrid una notte sì e l’altra pure e non so se prima o poi tornerò a vivere in pianta stabile nella capitale (e mi farò seppellire davvero al Verano, come dice il mio profilo sulla sinistra di questo schermo) e mi faccio tante, troppe domande, e mi stupisco di essere ancora vivo, nonostante quello che ho vissuto o forse proprio grazie a quello che ho vissuto, scampandola per un pelo tante volte, sognando spesso di arrivare a un punto fermo, quando sembra che di punti fermi non ce ne siano affatto…
Scuola pubblica italiana, ovvero: la storia di un disastro quotidiano
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a20d3078-c510-4407-8b63-b616d0695247.html#
Remo Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009
Con la consueta eleganza e il solito acume, il prof. Bodei ci accompagna in questo saggio alla scoperta del significato degli oggetti che ci circondano e che, in silenzio, fungono da compagni d’avventura in questo viaggio periglioso che è la vita (e il vivere). Un primo punto teorico importante riguarda proprio la definizione di “oggetto”; da distinguere da quella di “cosa” (sembrano sinonimi, ma non lo sono affatto). “Oggetto” (dal latino “objectum”) è quanto “ci sta contro”, una sorta di ostacolo, di presenza fisica che sembra schierarsi “contro” di noi, che sembra sempre sfidare il nostro intelletto; “cosa”, invece, ha la stessa radice etimologica del termine latino “causa”, qualcosa che “riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa (come mostra l’espressione ‘combattere per la causa’)” (id. p. 12).
Come studiare “oggetti” e “cose” in un mondo iper-tecnologico e così saturo di cose come il nostro, dove questi stessi artefatti sembrano essere prodotti per venire sostituiti subito da altri in una specie di “gioco al massacro” secondo il quale, non fai in tempo ad acquistare un nuovo artilugio tecnologico che, dopo due mesi, questo è diventato già vecchio, obsoleto, antiquato?
Uno dei nodi della questione riguarda proprio il rapporto tra gli oggetti e il tempo: nel mondo accelerato in cui viviamo (mondo in cui il presente ha assolutizzato ogni altra categoria temporale), anche gli oggetti sembrano aver cambiato senso e significato per noi che li fabbrichiamo (e li usiamo in fretta e dopo poco li gettiamo via, una volta dismessi dal loro uso quotidiano). Pensiamo anche ai mobili, a come sono concepite le case di oggi (in un mondo in cui il “mattone” è una fonte di ricchezza e in cui lo “spazio” si riduce sempre di più e le “case” sono costruite in modo tale da ricavare il massimo dell’energia e dell’utilità dal minimo dei metri quadrati disponibili, anche i “mobili” non sono più quelli di una volta, per dirla in tono ironico – id., pp. 71-73). I mobili dei nonni venivano addirittura tramandati di generazione in generazione; i matrimoni stessi dipendevano strettamente dai patrimoni di cui erano dotati i singoli capi-famiglia; i vestiti del fratello maggiore passavano in eredità a quelli minori; e così le scarpe, e così via…
L’eccessiva fretta sembra aver contribuito a farci dimenticare che gli “oggetti” in quanto “cose” parlano, hanno molto da raccontarci, se sappiamo ascoltarli; che gli oggetti rimangono in certo modo impregnati della storia (personale) di chi li ha posseduti e della Storia (umana) di chi li ha generati e pensati (questi passi del saggio di Bodei mi fanno pensare subito al primo libro di Claudio Magris: quell’Illazione su una sciabola in cui, appunto, una vecchia spada ritrovata in un terreno abbandonato permette al narratore-cronista-storico di ripercorre una porzione importante della storia recente della Germania condannata al disastro della Seconda Guerra Mondiale…come se da una semplice arma dimenticata tra le zolle fosse possibile riscrivere e rintracciare un passato che – pur essendo prossimo – sembra incarnare un tempo “altro” e “mitico” e, proprio per questo, percepito quasi come “fuori” del tempo cronologico…).
“Diventati desueti, finiscono nei solai, nelle cantine, nel banco dei pegni, nei negozi dei rigattieri e degli antiquari, nelle discariche. Ritrovati o comprati, emanano un effluvio di malinconia, somigliano a fiori vizzi che per rinascere hanno bisogno delle nostre attenzioni” (id., p. 30).
Come fare per “ascoltarne” la storia più intima? Chi può redimerli e, applicando quella “meraviglia” che sarebbe uno dei motori primi che ci spinge alla “filosofia” – secondo Aristotele, ma anche secondo Platone – al curiosare, all’indagare le cause prime e primordiali di un certo evento, oggetto, persona se non proprio colui che li guarda, se ne prende cura, e in certo modo l’interroga, come l’artista e il filosofo stesso? Quali “attività” - se non l’arte e la filosofia - si preoccupano di togliere il velo a quelle cose concrete, a volte decrepite, altre solo consumate, che chiamiamo “oggetti”?
E’ questa la pars costruens del saggio: quella che offre (a mio giudizio, in modo a volte anche troppo utopico) la ricetta (o il suggerimento) per fare in modo che gli oggetti diventino “cose” e non solo “prodotti di mercato” che ci sommergono, ci distraggono, che “occupano” lo spazio vitale che abbiamo a disposizione nelle nostre case, facendoci a volte sentire “alieni” a noi stessi (o oggetti inerti in mezzo a oggetti di cui, spesso, si disconosce la natura e l’uso). Guardare gli oggetti come ricettacoli delle storie di chi li ha posseduti; contemplare le opere d’arte che ritraggono gli oggetti più banali e comuni per riflettere sull’Eternità e il nostro rapporto troppo spesso viziato o conflittuale con essa; riflettere sulla caducità degli oggetti stessi, per smettere di avere paura della morte (perché se è vero che gli oggetti ci sopravvivono, è pur vero che noi continuiamo a vivere dentro quegli oggetti di cui ci siamo presi maggior cura e che i nostri figli erediteranno e metteranno da parte – forse – in memoria di noi). Sono solo alcune delle soluzioni al problema (contemporaneo) della contrapposizione tra “organico” e “inorganico”, tra “soggetto” senziente e “oggetti” intelligenti (pensiamo al cosiddetto posthuman o ai tentativi di implantare nei computer sistemi di intelligenza simili al nostro cervello)…
Il saggio offre spunti interessanti anche sul versante propriamente letterario: da Leopardi a Proust, non c’è scrittore che non abbia incluso gli oggetti anche più banali all’interno di una sua opera o di una riflessione personale; da Verga a Paul Celan, non esiste autore che non abbia tratto spunto e che non abbia esercitato la propria immaginazione a partire dalla contemplazione o dalla considerazione attenta di un oggetto qualsiasi (su questo tema è ormai diventato un classico il saggio di Francesco Orlando che ricorda Bodei in nota: il bellissimo (e vastissimo) Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi, 1997).
Un libro agile, questo di Bodei, e che ci spinge a guardarci attorno e a domandarci che ci fanno tutte queste penne, questi giornali, questi libri, queste tazze e questo cellulare su questa scrivania vecchia di vent’anni almeno…E su che fine farò io, dopo che non ci sarò più e queste stesse penne, giornali, libri e tazze e cellulare continueranno a esistere senza il loro legittimo padrone…
David Lynch: non lo "lyncheremo" più Ieri sera, verso le 20:00 (l'ora di cena per me, all'italiana), mia cugina mi manda ...