sábado, febrero 06, 2010

À une passante: Proust ri-scrive Baudelaire
E’ un po’ di tempo che Alyssa ha smesso di leggere…Il lavoro, lo stress, il solito tran tran quotidiano (come suolsi dire). E così, l’altra sera, prima di spegnere la luce e di addormentarci, prima di dirle “buonanotte”, ho voluto leggerle, ad alta voce, un brano della Recherche (che per me ormai è diventata una specie di droga: ho bisogno di una dose giornaliera, sennò mi sembra che la giornata non sia andata per il verso giusto, come se mancasse qualcosa di fondamentale e prezioso). Il brano è questo (da “All’ombra delle fanciulle in fiore. Nomi di paesi: il paese”, pp. 863-64 dell’ed. Mondadori, Milano, 1983, nella splendida traduzione di Giovanni Raboni):
“Era perché l’avevo solo intravista che mi era parsa tanto bella? Forse. Prima di tutto, l’impossibilità di trattenersi con una donna, il rischio di non incontrarla mai più le fanno acquistare di colpo lo stesso fascino assunto da un paese grazie alla malattia o alla povertà che ci impediscono di visitarlo, o dagli squallidi giorni che ci restavano da vivere grazie alla battaglia in cui certo periremo. Così, se non esistesse l’abitudine, la vita dovrebbe apparire deliziosa a creature continuamente minacciate di morte – cioè a tutti gli uomini. In secondo luogo, se l’immaginazione è stimolata dal desiderio di ciò che non possiamo ottenere, il suo sviluppo, nel corso di questi incontri in cui le attrattive della passante sono di solito direttamente proporzionali alla rapidità del passaggio, non viene limitato da una realtà còlta nella sua interezza. Basta che stia per scendere la sera o la carrozza vada un po’ più in fretta perché, in campagna come in città, non ci sia torso femminile – mutilato come un marmo antico dalla velocità che ci trascina e dal crepuscolo che l’inghiotte – che non scarichi sul nostro cuore, a ogni angolo di strada, dal fondo d’ogni bottega, le frecce della Bellezza, quella Bellezza a proposito della quale si sarebbe a volte tentati di chiedersi se sia, a questo mondo, qualcosa di diverso da quel complemento che la nostra immaginazione sovreccitata dal rimpianto aggiunge a una passante frammentata e fuggitiva”.
C’è dentro tutto Proust, in un brano simile: la poesia, il senso del ritmo, la forza creatrice e rivelatrice che il Narratore attribuisce all’immaginazione, l’erotismo, il senso della precarietà della bellezza e della felicità, l’ironia amara e l’amara constatazione che sia l’una che l’altra sono condannate a svanire in un attimo, la certezza della morte come limite invalicabile, il tentativo a volte ridicolo, altre folle, di non pensare alla fine grazie alla forza propulsiva dell’amore, la certezza che solo con la scrittura si possa cercare di scandagliare il mistero nel quale tutti – lettori e scrittore – siamo immersi, la plasticità o fortissimo potere icastico della scrittura proustiana (non può non restare impressa nella mente l’immagine di quella donna, della passante il cui busto è tagliato a metà dalla velocità della visione o dalla luce smorzata del sole al crepuscolo), la capacità che ha di farci “sentire” quello che lui stesso ha “sentito” nel ricordare quel preciso dettaglio (colto di sfuggita), questa specie di abilità nel camminare in equilibrio sul filo del rasoio – basterebbe un aggettivo in più, una virgola messa al posto sbagliato, una pausa troppo prolungata e tutto cadrebbe giù per terra…
Le chiedo se le è piaciuto; Alyssa resta in silenzio per un po’; sembra sorpresa, leggermente turbata; poi mi dice:
“E’ bello. E rende bene l’idea”.
Ecco, Proust è uno di quegli scrittori che “rende bene l’idea”, a prescindere dall’argomento che tratti o dall’idea che la sua penna e la sua mente sfiorino. Lui sì che avrebbe potuto scriverlo quel libro che sognava Flaubert (o era Mallarmé?): un libro sul niente; il libro “totale” e “infinito” che può trarre spunto da tutto quanto finisce sotto il nostro sguardo.

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