Gli esordi di Antonio Moresco: percorrere strade
interrotte, chiuse, infinite o soltanto intraviste
Ho adorato Lettere
a nessuno (Torino, Einaudi, 2008); mi sono esaltato e sono rimasto
scioccato dai Canti del caos (Milano,
Mondadori, 2009); avevo proprio voglia di scoprire Gli esordi (una prima
versione apparve per Feltrinelli nel 1998; questa seconda versione è stata
sottoposta a nuova revisione da parte dell’autore prima di venire pubblicata da
Mondadori nel Settembre del 2011). A
primo impatto posso dire che Antonio Moresco non delude mai, soprattutto quei
suoi lettori affezionati che, pur di seguirne gli andirivieni narrativi, le
invenzioni più visionarie, le descrizioni più strambe, sono disposti a
perdonargli qualche ripetizione di troppo, così come qualche neologismo che
stona o suona male. Ma proviamo ad illustrare i contenuti di questo romanzo,
diviso in 3 parti (o “scene”: si parte con quella “del silenzio”, si prosegue
con quella “della storia”, per finire con quella “della festa”) e scritto con
lo stile peculiare di Moresco per un totale di 647 pagine…
La “Scena del silenzio” ci presenta un narratore in prima
persona intento a sviscerare lo strano mondo chiuso e, a tratti, claustrofobico
di un convento. E’ questa la sezione in cui il narratore adotta con maggiore
frequenza la tecnica dell’ellissi: taglia scene intere o sottace interi
dialoghi, ci sottrare la verità per spingerci a farci detective o investigatori
dell’oscura trama che sembra svilupparsi sotto gli occhi del giovane aspirante
prete… Il convento diventa il micro-cosmo angosciante da cui osservare il
macro-cosmo; il convento è una specie di buco nero in cui è finito (quasi senza
esserne cosciente) un narratore che dice “io” e che cerca di capire fino in
fondo chi è, chi sono gli altri e qual è la vera ragione per cui si trova lì
dentro… La città (contemplata spesso di notte e vista come un mondo
scintillante o luminoso) è percepita come il mondo degli altri, delle persone
normali; il convento (con i suoi orari fissi e stabiliti dal succedersi delle
preghiere da recitare in modo meccanico ad ogni determinato momento della
giornata) è, invece, il mondo che non si riesce a fare proprio, un mondo freddo
e pericoloso, pieno di gente strana, come il Gatto, un viscido e inquietante
superiore che sottrare carta e penna al giovane narratore intento a scrivere
ciò che gli succede. Il Gatto: una delle
invenzioni più perturbanti di Antonio Moresco (e che ritroveremo sia nella
terza parte de Gli esordi – nelle
nuove vesti di un editore – sia nei Canti
del caos – dove, addirittura, si mette in testa di svendere il mondo e
d’inventarsi all’uopo la pubblicità più efficace e grandiosa mai pensata prima).
Insieme al Gatto, faremo la conoscenza dello Ziò (un
paralitico che passa il tempo a sparare o a sognare di sparare agli uccelli e
ai conigli) e la Pesca (una specie di fata turchina affascinante).
E’ già da questa prima parte che l’autore dà mostra del
suo stile indescrivibile: a volte fa pensare a Lucrezio, quando si concentra
microscopicamente sull’osservazione di dettagli naturali piccolissimi e
apparentemente insignificanti, ma che diventano enormi, giganteschi,
paurosamente incalcolabili, se rapportati (come nell’esempio che cito qui) ai
movimenti planetari della Terra nei confronti del Sole:
“Sul tronco di un grande albero borchiato migliaia di
dischetti luminosi lanciavano riflessi tutt’intorno, parevano accendersi e
spegnersi e pullulare in zone della corteccia sempre differenti, aumentavano e
diminuivano d’intensità registrando ogni minima mutazione d’angolo dei raggi
solari per la rotazione incessante della Terra nello spazio” (p. 75).
Più spesso l’attenzione è tutta concentrata verso tutto
ciò che ci risulta brutto, macabro o ributtante. E’ in casi come questi che
Moresco mostra una strana attrazione verso quello che potremmo definire come
“gusto del grottesco”; un esempio tra tanti: il brano in cui un personaggio
ferisce a morte un gatto e il narratore descrive come non si riesca a spezzare
una zampetta dell’animale:
“La zampetta era stata spezzata quasi del tutto, ma un
unico tendine la teneva ancora tenacemente attaccata al resto del corpo, come
un filo.
Provai a tirare due o tre volte, ma il tendine sembrava
allungarsi sempre più senza spezzarsi, scivolava e brillava come la corda
lucente di un violino. Provai a sfregarlo contro la dentatura di una sega da
legno, […]. Emetteva una nota stridente, prolungata, che si diffondeva piano
piano attraverso tutto il parco” (p. 114).
Stessa cosa per i conigli (e qui rasentiamo il “pulp”):
“Vedevo da lontano i loro corpicini scuoiati, i loro
stivaletti di pelliccia ancora infilati alle zampette” (p. 154).
Questa attenzione agli animali (o tendenza a descrivere
grottescamente l’animalità insita nell’essere umano) è presente anche in brani
più filosofici o dal carattere aforistico (c’è da dire che a tratti Moresco
pecca di retoricismo, o eccesso di retorica, come qui):
“Non più parlare e neppure essere parlati, ma scorrere
semplicemente altrove, ma in un altrove che non si possa neanche più chiamare
altrove, e lasciare dietro di sé un nulla che a qualcuno possa apparire come la
coda della lucertola che fugge…” (p. 191).
E’ anche questa la sezione del romanzo più dura nei
confronti del tema della fede e della religione. Il narratore legge la Bibbia o
sembra ricordare eventi legati a Gesù, ma lo fa a modo suo, rileggendo i brani
del Vangelo, come in queste battute (che pur non suonando blasfeme, turbano
alquanto):
“Pensavo ad altri mondi…” disse Gesù, che si guardava
attorno come assente.
Il suo corpo emanava ancora il profumo di aloe e di mirra
della sepoltura.
“Ma che cos’è un sogno di Dio?” provò a chiedere ancora
dopo un po’.
L’angelo si era adesso arrestato sul bordo del sepolcro,
non si riusciva a distinguere quasi la sua voce.
“Signore, non capisco” sussurrò” (p. 205).
Questa prima sezione si chiude, non a caso, con una
domanda: il cap. 17 (e ultimo) s’intitola, di fatti: “Che sia questa la
Grazia?”. L’interrogativo resta tale; il convento e i preti che lo gestiscono e
che si curano dell’educazione spirituale dei loro seminaristi sembrano
piuttosto assumere i tratti del mondo post-apocalittico (o in attesa
dell’Apocalisse giovannea).
La seconda sezione, “La scena della storia”, sposta la
nostra attenzione su quello che sembra essere lo stesso protagonista e
narratore in prima persona, ma in un’epoca diversa della propria vita: ora è un
militante (di estrema sinistra?), che fa volantinaggio e comizi per preparare
la rivolta collettiva (la Rivoluzione?). Come per il convento, così per la
sezione di partito: il narratore si ritrova in uno spazio (un luogo che è anche
un simbolo di lotta ideologica) che non riconosce come proprio, dove non vive a
proprio agio. E a proposito di luoghi, l’intero secondo capitolo si svolgerà
quasi integralmente all’interno di una “macchinina gialla”, un’auto scassata in
cui il narratore si ritroverà a guidare insieme agli altri compagni di lotta:
l’uomo senza volto, Sonnolenza (che dorme sempre e che fa addormentare gli
altri perché noioso e lento), il Gagà, che ha tatuati sul petto la falce e il
martello e che va in giro a derubare le mogli dei poveri operai o le vedove
rimaste sole in casa. E’ attraverso il Gagà che la Storia con la maiuscola
entra all’interno della trama romanzesca: è questo personaggio ambiguo e
antipatico, strampalato e stralunato, a citare le sue passate scorribande per
la Spagna (dice di avere conosciuto Durruti – il leader degli Anarchici
spagnoli – e Rosa Luxemburg, oltre a Lenin stesso).
Ecco un nuovo (ennesimo) esempio di grottesco (stavolta
“sonoro”) tipico di Moresco; descrive come il Gagà si taglia le unghie e
l’effetto che tale operazione provoca nella stanza in cui riposa:
“Si cominciava a tagliare le unghie dei piedi, schizzavano via calcificate attraverso la stanza, andavano a colpire fragorosamente le pareti, lo specchio, facevano risuonare per qualche istante gli elementi del calorifero prima di piombare sul pavimento” (p. 442).
L’effetto sonoro viene descritto sinestesicamente anche
in questo brano (all’apparenza inutile o insulso – in realtà, serve a
descriverci bene il senso di solitudine che inizia a provare il protagonista
quando si accorge che i suoi compagni sono scomparsi, che non c’è più un piano
d’azione ribelle, che non esiste più la sede centrale del partito):
“Sentivo uno di quei lievi rumori che fanno le mentine
quando vanno a sbattere infinitamente sottili contro i denti” (p. 502).
La terza sezione, ovvero, “La scena della festa”, è
quella che personalmente ho apprezzato di più e ci narra la terza fase della
vita di questo ex-prete che non ha mai preso i voti ed ex-militante che non ha
mai fatto la rivoluzione… Ci spostiamo a Milano e iniziamo a vivere la vita
appartata, nascosta, disperata di questo narratore che ha scritto un romanzo
(lo stesso che stiamo ancora leggendo?) e
che aspetta con ansia che l’editore gli dia una risposta e, possibilmente, gli
permetta di pubblicare. E’ la sezione più polemica, più critica e più satirica
del romanzo: anche quella più pericolosa per la tenuta narrativa del romanzo
stesso, perché Moresco rischia di pontificare o di usare la voce narrante del
suo personaggio per spiegare in modo fin troppo retorico che quello che sta
scrivendo è opera originale, di rottura, libro che farà il vuoto attorno a sé,
che cerca di rompere il conformismo in cui annaspa la cosiddetta “industria
culturale”.
E’ qui che torna il Gatto, come già ricordato, in veste
di editore che lascia sulle spine il povero esordiente (vive da solo in un
monolocale nella periferia più triste e squallida della città e passa il tempo al
telefono, a parlare con la segretaria dell’editore che è sempre in viaggio, e a
contemplare la varia umanità del vicinato).
“Vuoi diventare per caso, come suol dirsi, un caso? Ma c’è già tutto un proletariato di casi, sono tutti già in fila col loro cartellino!” (p. 591) esclama il Gatto rivolgendosi al suo povero scrittore in erba e ancora inedito…
Ecco, è qui, è in casi come questi, è quando riesce anche ad adottare l’ironia (oltre che l’auto-ironia) che Moresco riesce ad evitare il rischio di cadere nella retorica (o nelle frasi smaccatamente costruite ad arte); è quando riesce a non prendersi troppo sul serio che ci cattura… E il finale di questa terza “scena” sarà davvero degno delle aspettative del lettore che, pazientemente, avrà avuto la forza, il coraggio e la volontà di seguirlo fino alla fine (non svelerò qui questo finale; posso anticipare che il lettore si ritroverà davanti gente come Bartleby lo scrivano, Cervantes o Pascal, per non dire di altri… reali e fittizi insieme… tutti mescolati in una festa grandiosa).
Antonio Moresco ci spiega
(in una nota apposta alla nuova edizione: “Come sono nati Gli esordi") che non ha una “visione
geometrica” né della letteratura né della vita; questo romanzo lo dimostra
ampliamente. A mio modesto parere, Gli
esordi sono un tentativo: quello di cercare di ri-scrivere la propria vita
in prima persona attraverso il filtro della letteratura (quella migliore e che
più azzarda o rischia) e, al contempo, quello di cercare di vedere cosa succede
quando si adotta l’imperfetto dell’indicativo per raccontare porzioni anche
molto ampie e grosse e complicate della propria esperienza. In definitiva (e in
sintesi): con questo romanzo Moresco tenta di usare la letteratura come una
sonda per scoprire quello che non credevamo di sapere e sapevamo già, per
illustrare e descrivere strade chiuse, interrotte, infinite o solo intraviste (la
geometria aiuta, in questi casi, ma non risolve - come solo la letteratura sa
fare - tutti i problemi legati alla nostra personale e sempre soggettiva
“quadratura del cerchio”).
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