Siamo
spiacenti, l’editore è morto
Non ricordo se era
Sandro Veronesi a raccontare che una volta suo fratello gli raccontò di una
donna che, tentando il suicidio, si gettò dal terzo piano per atterrare sul
cofano della macchina del povero Giovanni (il regista e fratello dello
scrittore) e, quindi, distruggergli quasi l’auto senza farsi danni seri
(l’aspirante suicida finì all’ospedale, ovviamente, ma se la cavò, dopo non so
più quanti giorni di degenza).
O forse è solo un
ricordo inventato (da me o da Sandro Veronesi o che io attribuisco – e, direi
anche, mi ostino ad attribuire – a Sandro Veronesi quando invece, e nella
realtà, non è mai accaduto un incidente simile né qualcosa che gli si possa
anche lontanamente associare o somigliare). E comunque, checché se ne dica, la
vita è piena di racconti strani, o meglio: di racconti di fatti strani, di
eventi che non si spiegano o che, quando ce li raccontano, restiamo a bocca
aperta, per poi esclamare: “Ma no! Non ci credo! Non è possibile!”.
A me è capitato qualcosa
di simile qualche giorno fa, mentre ero intento a cercare disperatamente un
editore che si degnasse di pubblicare il mio primo saggio di critica letteraria
(il terzo libro che porta il mio nome e cognome reali in copertina, se includo
nella lista le due traduzioni che pubblicai qualche tempo fa per un’importante
casa editrice pisana). Il mondo dell’editoria sta male e non lo dico perché io
meriti di essere pubblicato e gli altri no, né per partito preso, né per
vittimismo, dunque. Ma insomma: c’è gente assurda che dà risposte assurde, tipo
quella che mi scrive: “Ci dispiace, il suo saggio non ha abbastanza appeal e sarebbe difficilmente
spendibile sul mercato”, come se un saggio dovesse avere le stesse doti di un
prodotto come una pomata contro la cellulite o un telefonino, come se davvero
la bontà di uno scritto di tipo critico si misurasse con lo stesso metro che
serve per vendere dei vestiti firmati o delle auto di grossa cilindrata (il
mercato: parola-chiave per capire che l’industria culturale non è
un’entelechia, esiste ed è sempre stata un ossimoro, checché ne dicano gli
umanisti più à la page o
avanguardisti – ma l’avanguardia è solo apparente, temo).
E poi c’è l’editore
onesto che ti scrive in prima persona personale e ti dice sinceramente che sì,
il saggio è molto bello, è ben scritto, ci ha dato un’occhiata veloce, ma non
rientra, purtroppo, nella loro linea editoriale (anche su questo sintagma ci
sarebbe molto da dire, “linea editoriale”, come “linea autunno-inverno”, come
“linea sportiva” o “linea per la notte”… o “per lui” o “per lei” e via
discorrendo…).
E poi accade
l’incredibile: una segretaria di una casa editrice minore della provincia di
Salerno mi scrive con tono commosso e contrito spiegandomi la loro nuova
situazione: “Siamo spiacenti, professore, ma in questo momento non possiamo
sottoporre il suo libro all’attenzione del nostro caro editore: l’editore è
morto, è venuto a mancare la scorsa settimana, siamo ancora tutti molto scossi,
ci scusi tanto”. E uno rimane di sasso e non sa come rispondere e se è il caso
di rispondere, a me non è mai capitata una cosa del genere e dubito che si
possano dare le condoglianze via email, io nemmeno lo conoscevo questo signore,
questo editore di una piccola casa editrice salernitana, che pubblica libri di
viaggi, romanzi d’avventura e qualche dignitoso saggio di letteratura e
filosofia (oltre che di storia delle letteratura e storia della filosofia). Chi
era costui? Com’è morto? Ha senso dare le condoglianze, ora che ne sono venuto
a conoscenza?
E allora smetto di
cercare un editore per il mio primo saggio di critica letteraria e vado dal mio
dermatologo, un tipo in gamba, un dottore molto gentile e disponibile, colto ed
elegante, uno che ama leggere Dostoevskj e Tolstoj, uno che conosce perfino Walter
Benjamin. E così parliamo del più e del meno e gli racconto dell’editore morto
e della segretaria sconvolta dalla triste notizia che mi scrive quell’email con
tono contrito. E allora il mio dermatologo ride e mi racconta un aneddoto
simile, capitato a sua moglie, una donna sulla quarantina già laureata in
Economia e Commercio e che, non contenta, ha voluto prendersi anche una seconda
laurea, nella sua materia prediletta: Teologia (un bel salto, non c’è che dire).
E insomma, sua moglie si mette d’impegno a scrivere una tesi sulla Chiesa e
sulle ingiustizie commesse dalla Santa Inquisizione, sul concetto di libertà
individuale e schiavitù sociale (o una roba del genere), trova anche il
relatore, un giovane prete sulla trentina, una persona molto seria e studiosa,
forse uno che fa ricerca, e insomma, si avvicina il momento di spedire la
versione definitiva della tesi, il giovane sacerdote tergiversa, da Giugno la
rimanda a Settembre, per effettuare le correzioni in tutta calma, e a Settembre
la santa donna richiama l’Università e il presidente del corso di laurea in
Teologia le dice che gli dispiace, il suo relatore, il giovane prete studioso,
“non è più dei nostri”; ha smesso i panni da curato e ha abbondonato la retta
via, rinunciando ai voti…
Morale della favola: non
sai mai quale assurdità ti può capitare, anche perché l’assurdità è ingrediente
quotidiano di questo ammasso di fatti, persone e ricordi strambi che è la vita…
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